La comunicazione di genere per coltivare la cittadinanza e uscire dal prisma degli stereotipi


All’interno della XXV edizione del Forum della Pubblica Amministrazione (Roma 27-29 maggio) mi permetto di segnalare i tavoli, organizzati dalla rete WISTER “Dati di genere: lo spread tra Italia e resto del mondo”, che si occuperanno di divario di genere confrontando, in una prospettiva comparativa, i dati italiani con quelli del resto del mondo. Partendo dalla presentazione di report e dalla definizione di indicatori funzionali ad evidenziare le differenze di genere, saranno formulate proposte concrete in grado di incidere a livello della prassi. I tavoli di lavoro vedranno come argomenti: digital divide di genere, occupazione e lavoro, linguaggio e comunicazione di genere. Si andrà alla ricerca di un “sapere condiviso” (2003) e di un “saper fare condiviso” con l’obiettivo di innalzare il livello di consapevolezza della complessità dei problemi. Perché, ancora una volta, il problema è culturale e non saranno sufficienti le (migliori) campagne di comunicazione (necessarie!) per determinare un cambiamento radicale su questioni così profondamente radicate nel modello culturale egemone. Torna l’esigenza di un prospettiva sistemica (scusate se mi ripeto, ma è fondamentale) che coinvolga la scuola e le altre agenzie di socializzazione.Le molteplici forme di discriminazione di genere trovano, infatti, legittimazione nel contesto storico-culturale e in un linguaggio (frutto di arbitrio e convenzione) che, inevitabilmente, ne costituisce uno dei “prodotti” più complessi.

Condivido volentieri il testo estratto da un mio contributo (che troverete con le relative proposte di linee guida) presente nella pubblicazione, curata da Pubblicità Progresso, “Quando la comunicazione è attenta al genere”, dove potrete trovare diversi altri interventi di studiosi ed esperti, oltre a materiali interessanti.


 

Impresa non semplice affrontare una questione, allo stesso tempo cruciale e complessa, come quella riguardante il genere: una questione che non può più essere sottovalutata – per la valenza anche simbolica, testimoniata dalla ratifica della Convenzione di Istanbul – perché intercetta molteplici livelli della prassi e rappresenta, a tutti gli effetti, il punto di svolta anche nella ricerca di una relazione meno asimmetrica tra PA e cittadino (cittadinanza vs. sudditanza) e, più in generale, tra organizzazioni complesse e “persone”. Da questo punto di vista, non possiamo non registrare come le tematiche correlate alle pari opportunità e al genere costituiscano, a loro volta, un’area del mutamento sociale e culturale assolutamente strategica, ove si gioca la partita più importante per provare ad uscire da una crisi che non è soltanto economica, ma anche culturale ed etica, una crisi delle appartenenze e della comunità; in altri termini, l’obiettivo, lavorando nell’ottica di genere e di valorizzazione delle diversità, è ripensare ad un paradigma di sviluppo fondato più sul modello cooperativo che su quello competitivo, ripartendo dall’istruzione, dall’educazione, dalla cultura e da una comunicazione – intesa come processo sociale di condivisione – in grado di accompagnare il mutamento all’interno del nuovo ecosistema della conoscenza (Dominici 2005,2011). E la partita dei diritti, della lotta ad ogni forma di discriminazione, della cittadinanza come crescita culturale e viceversa (Balibar, 2012) è troppo importante e rientra in un discorso più complessivo riguardante, non solo l’educazione alla cittadinanza, ma anche il riposizionamento della Politica e della sfera pubblica. E – ribadisco – il genere è centrale in tutto questo anche dal momento che chiama in causa la questione fondante dell’eguaglianza delle opportunità e quello che una letteratura scientifica, ormai piuttosto articolata, definisce “approccio delle capacità” (capability approach) (Sen, 1992,1999 e 2009; Nussbaum, 1997, 2002 e 2011). Laddove le capacità sono libertà sostanziali costituite da opportunità di scegliere e agire, a loro volta definite dalla combinazione di abilità personali e ambiente politico, sociale ed economico.

Da considerare, inoltre, un’ulteriore criticità nell’affrontare il prisma degli stereotipi e dei luoghi comuni (per la verità, non solo quelli sul genere): la debolezza dei codici deontologici e/o delle vecchie etiche dell’intenzione che, pur importanti, si dimostrano non più adeguati ad abbracciare la complessità della prassi comunicativa e informativa. La stessa comunicazione pubblica (in cui la comunicazione sociale rientra come ambito disciplinare) deve fare i conti con la dimensione etica – non solo perché le normative e i codici professionali sono condizione necessaria ma non sufficiente – ma perché comunicare significa anche “formare”, condividere strumenti di analisi e operativi, creare le condizioni per la costruzione di un consenso sociale relativo ad istanze e problematiche sociali importanti, a maggior ragione nella prospettiva dell’interesse generale e della pubblica utilità; accompagnare il mutamento sociale e culturale, mediandone i conflitti e le criticità. E, oltre a prestare attenzione a non cadere nella ricorrente confusione tra mezzi e fini (1996), la questione non si pone soltanto in termini di “tecnica della comunicazione” (o insieme di tecniche). Occorre, in tal senso, fornire ai decisori, e a tutti i soggetti coinvolti, gli strumenti necessari per progettare e valutare sempre meglio forme e modalità del comunicare, tenendo in considerazione valori e principi fondamentali; ma, soprattutto, rafforzando la consapevolezza (formazione e responsabilità) che certa comunicazione può produrre, ri-produrre, alimentare proprio quegli stereotipi e quei luoghi comuni che tenta di decostruire. Nel campo delle tematiche di genere e, più in generale, delle pari opportunità va sottolineato come, pur avendo la discussione pubblica fatto registrare significativi passi avanti, ci sia ancora molto da lavorare e su più livelli problematici. Le varie forme di discriminazione godono ancora di un livello di legittimazione e accettabilità sociale, questi sì ancor più inaccettabili! Carta stampata e media, con la loro lingua, per non parlare della pubblicità, fanno ancora largo uso di formule retoriche, topiche della narrazione, immagini, luoghi comuni che contribuiscono, talvolta inconsapevolmente, a rafforzare stereotipi non semplici da sradicare dal nostro sistema di orientamento valoriale e conoscitivo. Ma scaricare la responsabilità soltanto sul sistema dei media o su Internet sarebbe un errore imperdonabile: occorre, al contrario, riflettere sullo stato di salute delle vecchie agenzie di socializzazione, in crisi di credibilità e autorevolezza. E ripartire da lì, con una prospettiva di lungo periodo in cui la comunicazione sociale può senz’altro recitare un ruolo da protagonista, soprattutto se supportata da adeguate politiche sociali. La comunicazione pubblica e quella sociale, oltre a farsi leve del mutamento socioculturale assumono, in tal senso, una rilevanza strategica senza precedenti nel tentativo di promuovere e sviluppare, non soltanto una comunicazione attenta al genere, bensì una cultura attenta al genere. Si tratta di realizzare progetti e azioni che vedano gli attori coinvolti (in questo caso, le donne) come attori “protagonisti” del processo di cambiamento. Le campagne di comunicazione vanno progettate e realizzate, prestando particolare attenzione alla complessità dei processi educativi e di socializzazione e coinvolgendo istituzioni formali e informali, in una logica di network. Le azioni e le strategie di sensibilizzazione e coinvolgimento, funzionali al cambiamento di clima culturale, non possono più essere calate dall’alto e devono essere costantemente sottoposte ad una valutazione: serve una conoscenza empirica dei destinatari e dei contesti di riferimento, perché ad essere in gioco sono, ancora una volta, identità e riconoscimento. In conclusione, l’oggetto “comunicazione di genere” è multidimensionale e, come detto, chiama in causa più livelli di discorso: richiede, in altre parole, una nuova prospettiva epistemologica e una capacità di analisi più centrata sul sistema di relazioni tra le variabili coinvolte che sulle variabili stesse (Bateson, 1972). Occorre ricercare un innalzamento qualitativo del livello di consapevolezza, evitando di confondere le regole in senso tecnico con le regole in senso etico dell’informare e del comunicare (Dominici, 1998) e di credere che le tecnologie della comunicazione siano, non solo l’infrastruttura organizzativa fondamentale, ma la comunicazione stessa; perdendo così di vista il problema delle competenze e dei rapporti di potere. Ma esiste anche un altro rischio: ridurre una questione così complessa ad un problema puramente linguistico e/o di tecnicalità nell’uso delle parole anche se l’urgenza di individuare termini e categorie concettuali più adeguati e pertinenti all’oggetto considerato – con le relative definizioni operative – è reale. In altri termini, preservare un tipo di comunicazione “neutra” che ne svuoterebbe il significato stesso. Con riferimento particolare alle istituzioni, alle organizzazioni complesse, perfino alla Politica, si rende necessaria una riflessione sul senso profondo del comunicare.