Oltre i crolli, ricostruire…il legame sociale. Per contrastare la “cultura dell’irresponsabilità”.

Come sempre non sono previsti “tempi di lettura”. Spero di riuscire a rubarvi un po’ di tempo (e passione)

La cultura dell’irresponsabilità e il legame sociale

Profondamente segnato e scosso dagli eventi, dal cd. contagio sismico, e, soprattutto, dal portato di sofferenza legato alla sequenza di disastri, non soltanto “naturali”, che si stanno susseguendo nel nostro Paese da quel drammatico 24 agosto (in realtà, si tratta di una storia che ci porta molto indietro nel tempo), ho deciso di condividere con Voi tutte/i alcune riflessioni che riprendono un percorso, mai interrotto, e culminato, tra i diversi lavori, in una ricerca condotta, proprio nel 2009, su un altro grande terremoto ed evento disastroso della nostra storia.

 

Un crollo, l’ennesimo crollo – una sequenza infinita di crolli -, che non riguarda o, per meglio dire, che riguarda in minima parte il crollo di edifici e strutture (peraltro, dichiarati “sicuri”); un crollo che riguarda anche, ma non soltanto, la distruzione dolorosa di un patrimonio artistico, storico, culturale, portatore di memorie e identità, di una storia che rischia seriamente di andare perduta. Oggi, come allora, fanno male quelle immagini di chiese, monumenti, borghi storici, luoghi della memoria e dei nostri immaginari (collettivi), andati completamente distrutti. Esse rappresentano (sono) ‘ferite’ profonde dell’anima, che rimarranno – queste sì – nella memoria di ognuno di noi e che – temo davvero – difficilmente potranno rimarginarsi. Questa ennesima e drammatica sequenza di disastri, ancora una volta, chiama in causa, al di là delle “forze della natura”, una serie di (ir)responsabilità a tutti i livelli (politica e istituzioni comprese) e una cultura dell’irresponsabilità diffusa, che palesano, puntualmente, la debolezza del quadro giuridico (fattore giuridico è condizione necessaria ma non sufficiente…da sempre) e l’illusoria presunzione del controllo totale sui processi, sui sistemi, sulle strutture (Dominici, 2003). Una sequenza ininterrotta di disastri che, spesso, non produce (non ha prodotto) altre vittime e conseguenze per pura casualità. Fatti ed elementi che – a mio avviso – hanno messo ancor di più in evidenza che, passata la fase dell’emergenza – chissà, questa volta, per quanto tempo durerà -, questo è un Paese che va senz’altro ricostruito, ma si tratta di una “ricostruzione” complicata e complessa allo stesso tempo, che riguarda soltanto in parte (pur essendo uno snodo fondamentale, sia chiaro!) gli edifici, le strutture, i luoghi.

Si tratta, infatti, di una ricostruzione che riguarda da vicino le Persone, il “legame sociale”, le comunità (aperte e inclusive), il bene comune, l’interesse generale, il civismo, un’etica pubblica “forte” e condivisa, la cittadinanza, l’inclusione (nuovi utopie). Temi e questioni ancor più centrali e strategiche all’interno di quella che ho definitosocietà asimmetrica“, fondata su disuguaglianze e nuove asimmetrie sempre più marcate e profonde (inclusività vs. esclusività). E ciò comporta – come sostenuto in tempi non sospetti – (anche) un radicale ripensamento degli spazi educativi e culturali e, più in generale, dello spazio comunicativo e relazionale: un discorso che ci riguarda tutte/i, dalla classe dirigente alla cd. società civile. Agenzie di socializzazione ed istituzioni comprese, evidentemente. Con l’obiettivo fondamentale di provare a ricostituire e ricostruire (nel lungo periodo) quellegame sociale”, così lacerato ed indebolito ma anche, e soprattutto, per affrontare quei “crolli”, altrettanto profondi e problematici, che sono i “crolli” dell’animo, della fiducia (meccanismo sociale) e della socialità; che sono i “crolli” che turbano ulteriormente esistenze sempre più precarie e vulnerabili e che fanno della paura e dell’incertezza le nostre “bussole esistenziali”(cit.).

Una ricostruzione che non può non vedere protagoniste la Scuola e l’Università – oltre la logica dei “sistemi chiusi”, ripensando lo spazio dei saperi e superando le false dicotomie – nella costruzione sociale e culturale delle Persone, dei cittadini e della classe dirigente del futuro. Lo sforzo enorme dev’essere anche, e soprattutto, quello di ridare senso a parole (poi, azioni e strategie) che definiscono questioni di vitale importanza come: Comunità, socialità, Bene Comune, interesse generale, capitale sociale, comunicazione, sapere condiviso (2003), sostenibilità, responsabilità, cultura (come bene comune e come condivisione), possono rappresentare gli assi portanti di una ricostruzione che passa inevitabilmente per investimenti, risorse disponibili e progettualità che devono tradursi in politiche di riqualificazione (sostenibile), di messa in sicurezza (in chiave antisismica) del patrimonio edilizio, artistico e culturale e di sviluppo sostenibile dei territori (-> governance). In questa stessa prospettiva, si avverte, l’urgenza di attivare processi di innovazione riguardanti la gestione dei beni comuni, anche in termini di sostenibilità energetica.

Un complesso processo di ricostruzione che, allo stesso tempo, proprio per la complessità e l’interdipendenza delle problematiche richiamate, deve necessariamente fare i conti con la ben nota “questione culturale” ed educativa (educare alla responsabilità e alla complessità). Un’altra delle emergenze (non amo la parola) di questo Paese, spesso ricordata e discussa ma, troppo spesso, sottovalutata con riferimento anche a questioni come legalità, corruzione, discriminazione, rispetto per la diversità e l’ALTRO da NOI, rischio, sicurezza, costruzione di una cultura della prevenzione etc.

La “questione culturale” è al centro di queste dinamiche e processi e – come ripeto, ormai, da anni – la “società dell’irresponsabilità”(cit.) è la vera cifra del mutamento in atto, dal momento che: «la società della conoscenza, da un lato, ci ha messo senz’altro in condizione di affrontare meglio – in termini di efficienza ed efficacia – il rischioso, l’incerto, il complesso, dandoci perfino l’illusione del controllo totale sull’ambiente: dall’altro, non ha ancora realizzato pienamente – e, forse, mai vi riuscirà – quei meccanismi sociali di (auto)protezione dall’imprevedibilità dei comportamenti individuali e/o collettivi, spesso dettati da una razionalità soltanto apparente. Siamo di fronte, cioè, ad una società del rischio che, pur conservandone alcune caratteristiche, è notevolmente cambiata da quella descritta e analizzata da Ulrich Beck ormai più di vent’anni fa (Beck stesso ne prende atto).

In tal senso, L’Aquila costituisce a tutti gli effetti una sorta di “paradigma” di questa nuova rischiosità della società del rischio e di questa nuova complessità sociale che, per certi versi, costringe gli analisti e la stessa comunità scientifica a ripensare il modello interpretativo e i relativi approcci teorici. In questa linea di discorso, la società irresponsabile, a cui stiamo facendo riferimento, è una società costituita da individui “isolati”, spesso guidati da interessi egoistici e da una razionalità irrazionale, che si vedono proiettati nella prassi sociale solo ed esclusivamente come “individui”(e non come Persone, soggetti di relazione).

Paradossalmente, la tecnica, l’innovazione e il progresso tecnologico si sono rivelati fondamentali strumenti per il controllo, o quantomeno per il contrasto, della forza imprevedibile della natura e, più in generale, per la gestione dell’instabilità dei sistemi sociali; ma – lo ribadiamo – non si sono rivelati strumenti in grado di supportare e garantire altrettanta efficacia nella gestione di quella imprevedibilità realmente imprevedibile e assai difficilmente controllabile: l’imprevedibilità correlata ai comportamenti umani, sociali, individuali e collettivi; l’imprevedibilità che nessun sistema giuridico e nessuna legge o sanzione codificata è in grado di eliminare. In altre parole, la sicurezza, la gestione del rischio, perfino l’efficienza e l’efficacia dei sistemi sociali e organizzativi, sono variabili complesse sempre più legate all’innovazione tecnologica, che tuttavia trovano un ostacolo insormontabile in quell’area della prassi costituita dall’azione sociale irresponsabile, che va al di là di ogni percorso formativo-professionalizzante e/o di ogni competenza acquisita.

Si tratta di un ritardo culturale che consiste anche nel non considerare, o per meglio dire, nel non voler prendere coscienza che la natura degli eventi e dei processi con cui interagiamo è sempre più complessa, multidimensionale e sistemica. E, come tale, richiede un approccio, strumenti di analisi e modalità operative che non possono che essere altrettanto complessi per poter incidere e rendere realmente efficaci le scelte e le strategie di policy» (P.Dominici, 2009, p.23).

 

 

La comunicazione e i processi di costruzione sociale e amplificazione sociale del rischio

Nello spirito originario della “società della condivisione”, condivido alcuni brani estratti dalla ricerca: P.Dominici (2009), La società dell’irresponsabilità, FrancoAngeli, Milano 2010

 

L’Aquila e la società dell’irresponsabilità: paradigma della nuova rischiosità del rischio

If we are irrational in our judgments about risk, the policies we enact will reflect a similar bias” (A.Teuber, 1993)

 

Potrebbe sembrare talvolta scontato, ma non è affatto così, riflettere criticamente e analizzare il ruolo decisivo svolto dalla rappresentazione mediatica – nel caso della nostra ricerca, da quella fornita dalla “grande stampa” – nella definizione e produzione di sistemi di credenze che uniformano l’azione sociale, nell’articolarsi dei complessi processi di costruzione sociale[1] e amplificazione sociale[2] del rischio, di definizione ed elaborazione del disastro, nonché delle strategie conseguentemente adottate[3]. In una prospettiva di ricerca sul terremoto abruzzese, sui rischi e sulle catastrofi in generale, che non può che risultare sincronica e diacronica allo stesso tempo. Essendo, d’altra parte, proprio il tempo (t) la variabile fondamentale nella gestione complessiva del rischio[4] (emergenza/crisi) e, nello specifico, dei disastri.

La comunicazione, i media, il sistema dell’informazione, non soltanto a questo livello di discorso, svolgono una funzione ormai riconosciuta come fondamentale per ciò che concerne la capacità di risposta efficiente ed efficace all’imprevedibilità/imponderabilità delle catastrofi, dal momento che sembrano in grado di creare la realtà e non soltanto di rifletterla. Una funzione essenziale che li vede protagonisti nei complessi processi di controllo sociale delle strategie scelte e adottate, ma anche in quelli di strutturazione della memoria (individuale e collettiva) del disastro, così importanti in sede di analisi e valutazione dell’accaduto. Si tratta di una dimensione che intercetta, tra le tante, anche la questione cruciale del disagio psicologico e sociale per quello che gli esperti chiamano “stress da disastro”. D’altra parte, non possiamo non prendere atto che «Le catastrofi sono esperienza di ogni generazione, ma negli ultimi decenni il modo di percepire e rispondere a questi fenomeni sta cambiando. Da un canto, le nuove potenzialità offerte dalle tecniche e dai saperi hanno rinnovato la speranza e forse l’illusione di poter contrastare l’imprevedibile e il terrificante; dall’altro, l’accresciuta cultura della solidarietà sta rendendo i gruppi di primo aiuto e le successive reti di sostegno molto più efficaci nei confronti di chi si trova improvvisamente da solo nella tragedia. Nuova è anche la risonanza massmediatica che hanno gli eventi estremi, così come gli effetti sociali di tale risonanza»[5]. È in tal senso che la “nuova” società del rischio, con la sua nuova rischiosità, si è manifestata a L’Aquila in tutta la sua palese ambiguità, contraddittorietà, ambivalenza, complessità: è così che rischi e pericoli potenziali – di cui peraltro si discuteva da mesi e di cui (forse) non c’era un’adeguata percezione – si sono tramutati in “disastro”, “catastrofe” o – come hanno titolato molte testate giornalistiche – “terrore”, “polvere”, “inferno”.

Il sistema dell’informazione, inserendosi perfettamente in quella che appare come una sorta di ritualità liturgica del disastro, interviene utilizzando ancora una volta gli stessi toni, le stesse parole e le stesse immagini di ogni disastro più o meno atteso; la stessa enfasi (emotiva) connotativa di tutte le catastrofi di una società che, nonostante lo strapotere della tecnologia e l’accumulo di conoscenza/e, appare sempre più fondata sull’irresponsabilità diffusa.

Non è corretto generalizzare, ma certamente appare evidente come responsabilità collettiva e responsabilità individuale siano state quasi del tutto escluse dall’azione sociale e dalla prassi sociale: tale questione riguarda da vicino, evidentemente, sia la classe dirigente che la cd. società civile. Peraltro ciò avviene, in un momento in cui, quanto meno paradossalmente, proprio le questioni dell’etica e della responsabilità ricevono grande attenzione e visibilità dalla politica, dall’economia, dalla scienza, dai media, dai giornali[6], dall’industria culturale nel suo complesso. Si potrebbe affermare, in maniera anche un po’ semplicistica che, in sostanza, tutti ne parlano/discutono, pochi si sforzano concretamente di agire, responsabilmente e con coerenza, nell’interesse del bene comune.

In linea teorica, in una fase quasi di “collasso morale” tutti sembrano concordare sull’urgenza di una questione “etica” e sulla rilevanza strategica del principio “responsabilità”[7] per la sopravvivenza stessa dei sistemi sociali e, perché no, delle organizzazioni complesse[8]. Talvolta (spesso), gli stessi soggetti individuali sembrano quasi non percepire il fatto che sono chiamati, comunque, a rispondere delle azioni e dei loro effetti. Da questo punto di vista, la traduzione concreta in comportamenti e in modalità operative, anche soltanto dei presupposti valoriali pubblicamente dichiarati, appare tuttora estremamente complicata (etica vs. etichetta).

All’interno di questo contesto (cornice) storico-culturale di riferimento – che andrebbe studiato ancora meglio e, soprattutto, dal punto di vista empirico[9], trovandoci di fronte all’ennesimo straordinario mutamento dei sistemi di orientamento valoriale, dei modelli culturali e degli stili di vita[10]la narrazione e le rappresentazioni fornite dai mezzi di comunicazione incidono in maniera assolutamente significativa sulla percezione individuale e collettiva della realtà, sul senso di insicurezza e vulnerabilità sociale, sulle paure individuali e collettive, nonché, conseguentemente, sul modo di gestire i pericoli, i disastri, le catastrofi[11].

Nel nostro caso, il protagonista della narrazione/rappresentazione è stato ancora una volta lui… lo “sciame sismico” (la “natura”) che ha fatto drammaticamente irruzione e che, ancora a quasi un anno di distanza dal grande crollo, continua a tormentare la popolazione sempre più vulnerabile, sfiduciata e insicura, nonostante la chiusura delle tendopoli e i tanti progetti di rinascita. Un’angoscia ed una percezione del rischio che sembrano senza fine e possono senz’altro essere messe in correlazione anche con la rilevanza di quegli aspetti socioculturali, spesso sottovalutati a vantaggio di quelli più squisitamente fisici e tecnici (come evidenzieranno anche i nostri dati). Anche perché non si è ancora preso atto che: “Lo studio tecnocentrico delle sole variabili fisiche non è di per sé sufficiente a spiegare le cause, la dinamica dell’evento e i danni prodotti, né tanto meno può essere utilizzato per elaborare un modello teorico efficace di comprensione e prevenzione. A questo set di variabili fisiche se ne deve aggiungere un altro, che abbiamo definito come l’insieme delle variabili socio-culturali che possono avere l’effetto di elevare o abbassare (talvolta anche annullare del tutto) la pericolosità fisica dell’evento o l’intensità e la gravità del danno. Seguendo la letteratura più recente, abbiamo denominato questa seconda tipologia di variabili vulnerabilità sociale: qualunque situazione critica estrema si produce dall’interazione spesso imprevista, e purtroppo ancora talvolta imprevedibile, fra vulnerabilità fisica e vulnerabilità sociale[12].

E non a caso – a giudizio non soltanto di chi scrive – ripartire (ricostruire) concretamente sarà possibile soltanto quando saranno ri-edificate, ricostruite le “persone”, il tessuto sociale di appartenenza e il relativo paesaggio identitario; “persone” con il loro portato di immane sofferenza che, in molti casi, hanno assistito alla scomparsa della loro identità individuale e sociale[13] e non soltanto affettiva e che necessitano – per dirla con le parole dello psichiatra Vittorino Andreoli, che era intervenuto sull’argomento a poco più di un mese di distanza dal sisma (9 maggio) – di una ricostruzione interiore: “Dopo il terremoto in Abruzzo, si è parlato a lungo, e se ne parla ancora, delle ricostruzione delle case, delle scuole, degli ospedali. Della loro agibilità. È importante e giusto. Troppo poco, però, si è discusso della “ricostruzione” delle persone e delle famiglie, che hanno bisogno di tornare a essere “agibili” almeno quanto gli edifici e questo soprattutto perché «L’aspetto più grave dopo una catastrofe, che implica la perdita di persone care o anche solo dell’ambiente in cui si è sempre vissuto, è infatti la scomparsa dell’identità affettiva: che si ricostruisce stando insieme, ricreando luoghi e una rete sociale il più simile possibile a quelli di “prima”».

Ma ricostituire tale rete sociale – lo ribadiamo – sarà possibile solo se, in primo luogo, sarà ricostruito il loro paesaggio culturale; in secondo luogo, sarà importante che queste stesse persone trovino delle risposte convincenti al bisogno inarrestabile di chiarezza, trasparenza, giustizia anche in prospettiva di una ricostruzione partecipata e democratica – nella quale le scienze sociali possono/debbono dire la loro – in grado di considerare e interpretare anche il senso di “spaesamento” (displacement) che caratterizza tutti gli eventi disastrosi e la percezione di tutti quelli che vi sono stati coinvolti.

Tale dimensione problematica – come vedremo – è stata assolutamente sottovalutata nella tematizzazione (essenzialmente) emotiva del disastro operata dalla carta stampata e dagli altri media, che sono tornati soltanto a distanza di mesi sull’argomento anche se in maniera sempre piuttosto discutibile: le persone, gli attori sociali, i “protagonisti” involontari, di questa e di tutte le altre catastrofi, continuano a non trovare nella copertura mediatica lo spazio necessario per l’approfondimento e la lettura critica delle istanze e delle problematiche di cui sono portatori.

Allo stesso tempo, gli “esperti” dei settori disciplinari tirati in ballo, con le loro competenze, dalla significatività di altre dimensioni analitiche proprie di una catastrofe (individuale, psicologica, sociale, socioculturale, economica e politica etc.) non hanno trovato lo stesso spazio (visibilità[14]) e la stessa riconoscibilità nel dibattito pubblico alimentato dall’arena mediatica.

In altre parole, ci siamo trovati di fronte ad una spiegazione del disastro – nella sostanza – unidimensionale, riduzionistica e deterministica. Con ogni probabilità questo aspetto problematico, che non può essere indagato in questa sede e che rimandiamo ad ulteriori analisi e approfondimenti, è legato anche ad una mancanza di fiducia/credibilità che continua a caratterizzare il percorso evolutivo di certi saperi esperti e ad investire, nello specifico, le scienze sociali: si tratta – come noto – di una questione assolutamente fondamentale che è stata – ed è tuttora – protagonista di un vasto e articolato dibattito condotto anche in ambito epistemologico[15].

Le scienze sociali sono ancora, in molti casi, associate al luogo comune/pregiudizio che le vede non in grado di essere metodologicamente rigorose, né tanto meno di produrre conoscenze e spiegazioni scientifiche nel senso più pieno del termine: basti pensare, soltanto per fare un esempio, al ben noto, oltre che stimolante, confronto anche metodologico tuttora in atto all’interno della comunità degli studiosi scaturito dalla riflessione e, nello specifico, dalle parole di Karl Popper che, in passato, le ha definite senza mezzi termini “scienze spurie”[16]. In realtà, ed in questi casi ce ne si può rendere conto meglio, alcuni pregiudizi, rispetto anche alle potenzialità euristiche delle scienze sociali, sembrano sopravvivere. Continuano a non essere considerate pertinenti all’ambito scientifico, quasi a non godere della stessa legittimità di cui godono le cd. scienze esatte, evidentemente le uniche pienamente legittimate – anche dall’arena mediatica – nella definizione della situazione, nella spiegazione “fisica” e nell’analisi specificamente più “tecnica” e/o tecnicistica di catastrofi e disastri di varia natura.

A conferma di quanto affermato, registriamo come le stesse ricerche sui disastri, in molti casi, risentano eccessivamente di un approccio tecnocentrico senza dubbio necessario ma che, allo stesso tempo, presenta il limite di decontestualizzare l’analisi non considerandone la molteplicità delle variabili intervenienti.

L’approccio tecnocentrico (fondamentale), di conseguenza, va integrato con altri approcci che sono evidentemente complementari e non antitetici.

La vulnerabilità dei sistemi sociali richiede una capacità non indifferente di storicizzare e problematizzare gli eventi (non soltanto quelli catastrofici), allo scopo di definire strategie e operare scelte politiche sempre più adeguate e sofisticate. Esiste una correlazione significativa tra rischio[17] (reale e percepito), fiducia, vulnerabilità, modelli culturali, comunicazione e azione sociale.

 

Concludo con la dedica di allora (2009)

Questo volume è dedicato alle vittime del terremoto del 6 aprile con lo sguardo rivolto a quelle di tutte le catastrofi (naturali e non) e con l’auspicio che la loro memoria resti ben salda nelle persone, nelle istituzioni e, soprattutto, nella politica, che è chiamata a decidere con competenza, senso di responsabilità e nell’interesse del Bene comune. Affinché possa realizzarsi anche la ricostruzione del paesaggio sociale e culturale di chi è stato duramente colpito da questi eventi disastrosi. Affinché la cd. società della conoscenza non si configuri come società dell’ignoranza e della mancanza di competenze. Affinché, nei sistemi sociali, l’imprevedibile e l’incerto non scaturiscano da azioni irresponsabili e da condotte irrazionali (o, per meglio dire, solo apparentemente razionali). Il mutamento che stiamo vivendo su scala globale richiede, d’altra parte, un’attenta valutazione delle conseguenze delle proprie azioni da parte di istituzioni e organizzazioni complesse, ma anche da parte di ogni singola persona. Una responsabilità fondata su criteri di razionalità che deve oltrepassare la sfera delle norme e delle sanzioni definita dal diritto (nazionale e internazionale). Ognuno è chiamato, nel rispetto dei propri ruoli, a fare la propria parte.

 

Un pensiero particolare poi è rivolto ai giovani studenti universitari che hanno perso la vita quel giorno: la loro morte non può avere alcun senso né tanto meno alcuna giustificazione. Può, tuttavia, farsi “segno” della speranza che quanto accaduto aiuti a prendere finalmente consapevolezza che è proprio dai giovani e dall’Università che può ripartire il sistema-Paese. La loro formazione critica, seria, rigorosa, consapevole delle implicazioni, può davvero costituire l’unico vero antidoto a quella che abbiamo definito la società dell’irrespon­sabilità.

                                                                                                                                                   P.D.

 L’inclusione non può essere “per pochi”. Ognuno si assuma le proprie responsabilità (cit.)

 

N.B. Condividete e riutilizzate pure i contenuti pubblicati ma, cortesemente, citate sempre gli Autori e le Fonti (senza “trucchi”) anche quando si usano categorie concettuali e relative definizioni operative. Condividiamo la conoscenza e le informazioni, ma proviamo ad interrompere il circuito non virtuoso e scorretto del “copia e incolla”, alimentato da coloro che sanno soltanto “usare” il lavoro altrui. Le citazioni si fanno, in primo luogo, per correttezza e, in secondo luogo, perché il nostro lavoro (la nostra produzione intellettuale) è sempre il risultato del lavoro di tante “persone” che, come NOI, studiano e fanno ricerca, aiutandoci anche ad essere creativi e originali, orientando le nostre ipotesi di lavoro. I testi che condivido sono il frutto di lavoro (passione!) e ricerche e, come avrete notato, sono sempre ricchi di citazioni. Continuo a registrare, con rammarico e una certa perplessità, come tale modo di procedere, che dovrebbe caratterizzare tutta la produzione intellettuale (non soltanto quella scientifica e/o accademica), sia sempre meno praticata e frequente in molti Autori e studiosi. Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle tante scorrettezze ricevute in questi anni. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da vent’anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede.

Buona riflessione e buona ricerca!

 

[1] Cfr. K. Dake (1992), “Myths of nature: Culture and the social construction of risk”, in Journal of Social Issues, vol. 48, no. 4, pp. 21-37.

[2] Sull’interessante concetto di “amplificazione sociale”, cfr. R. E. Kasperson, O. Renn, P. Slovic, H.S. Brown, J. Emel, R. Goble, J.X. Kasperson, S. Ratick, (1988). “The social amplification of risk: A conceptual framework.” in “Risk Analysis”, 8: 177-187; R.E. Kasperson, O. Renn, et al. (1989). The Social Amplification of Risk: Media and Public Response. Waste Management ’89. R.G. Post. Tucson, AZ, Arizona Board of Regents; W. Burns, P. Slovic, R. Kasperson, J. Kasperson, O. Renn, S. Emani (1993), “Incorporating structural models into research on the social amplification of risk: Implications for theory construction and decision making”, in Risk Analysis, 13(6): 611-623.

[3] Cfr. H.W. Fischer, Response to Disaster: Fact versus Fiction and Its Perpetuation, (3° ed.), University Press of America, Maryland 2008; L.B. Lave, V.T. Covello et al. (1987), Uncertainty in Risk Assessment, Risk Management and Decision Making, Plenum Press, New York; M.W. Merkhofer (1987), Decision Science and Social Risk Management, Reidel Publishing, Boston. Su queste tematiche si veda anche la rivista specialistica ufficiale del International Research Committee on Disasters, International Sociological Association: “International Journal of Mass Emergencies and Disaster”, Texas A&M University (http://www.ijmed.org/); S. Breyer, Breaking the Vicious Circle: Toward Effective Risk Regulation. Cambridge, Harvard University Press, 1993.

[4] Per una definizione del concetto di “rischio” e della complessità che lo connota, oltre ai “classici” (M. Douglas, U. Beck, A. Giddens, M. Foucault, N. Luhmann), si vedano: C.E. Althaus, “A Disciplinary Perspective on the Epistemological Status of Risk”, in, Risk Analysis, Vol. 25, No. 3, pp. 567-588, June 2005; A. Marinelli (1993), La costruzione del rischio. Modelli e paradigmi interpretativi nelle scienze sociali, FrancoAngeli, Milano; D. Lupton (1999), Risk, trad.it., Il rischio.Percezione, simboli, culture, Il Mulino, Bologna 2003; M. Trentini, Rischio e società, Carocci, Roma 2006; sul concetto di rischio come “collective construct” si veda: M. Douglas, A. Wildavsky, Risk and Culture. An Essay on the Selection of Technological and Environmental Dangers, California University Press, Berkeley and Los Angeles 1983; O. Renn,(1992a) “Concepts of Risk: A Classification.”, in S. Krimsky, D. Golding (eds.), Social Theories of Risk, Praeger, Wetsport, CT, p. 53 – 79; A.Teuber (1993) “Justifying Risk,” pp. 249-267 in E.J. Burger, (1993), Risk, University of Michigan ed., Michigan; ricordiamo anche W. Rowe Anatomy of Risk, Wiley, New York, 1977.

[5] Cfr. G. Ligi, Antropologia dei disastri, Laterza, Roma-Bari 2009, p.X.

[6] Le questioni dell’etica, della responsabilità e del rispetto delle regole stanno trovando, ormai da tempo, sempre più spazio sulla carta stampata e sui media, con particolare riferimento alle vicende politiche, alla corruzione nella cosa pubblica e nel mondo delle imprese, al mondo dell’università, alla comunicazione nei mass media e nei new media, alle questioni dell’integrazione multietnica e della violenza, alla tematica dei diritti umani e di cittadinanza; tuttavia, almeno in apparenza, continuano a trovare poca corrispondenza nei comportamenti individuali. Tra gli ultimi interventi, si veda l’editoriale di: G. De Rita, Reati, peccati e crisi delle regole. L’etica civile in frantumi, in Corriere della sera, 20 marzo 2010, Anno 135, n.67, pp.1-9.

[7] Quello della responsabilità è – come noto – un tema “forte” del pensiero moderno e contemporaneo (non soltanto). Tra i “classici” (su tutti Kant, Hegel, Weber, Arendt, Lévinas, Derrida), ricordiamo in particolare: H. Jonas (1979), Das Prinzip Verantwortung, Insel Verlag, Frankfurt am Main, trad.it. Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990; M. Weber (1918), Politik als Beruf, Wissenschaft als Beruf, trad.it., Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1966 (nota introduttiva di D.Cantimori); si veda anche la raccolta di interventi e appunti in H. Arendt (2003), Responsibility and Judgment, trad.it., Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2004 (a cura di J.Kohn).

[8] Si pensi, soltanto per fare alcuni esempi, alla crescente importanza della responsabilità sociale delle imprese (su cui, peraltro, la Commissione Europea ha prodotto un Libro Verde), ai codici etici, allo strumento del bilancio sociale, al principio della trasparenza che viene costantemente richiamato – perfino nei testi legislativi e nelle normative – come valore fondante dell’azione anche delle P.A.

[9] Celebre, in tal senso, la ricerca di R. Inglehart (1996), Modernization and postmodernization. Cultural, Economic and Political change in 43 societies, trad.it., La società postmoderna. Mutamento, valori e ideologie in 43 paesi, Editori Riuniti, Roma, 1998.

[10] Cfr. anche R. Inglehart, W. E. Baker: Modernization, Cultural change and the persistence of traditional values, American Sociological Review, 2000, Vol. 65, February: 19-51.

[11] Si vedano, a tal proposito, sull’argomento: B. Fischhoff, (2009), “Risk Perception and Communication”, in R. Detels, R. Beaglehole, M.A. Lansang, and M. Gulliford (Eds), Oxford Textbook of Public Health, Fifth Edition (pp. 940-952). Oxford: Oxford University Press. Reprinted in N.K. Chater (Ed.), Judgement and Decision Making. London: Sage; G.A. Cole, S.B. Withey (1981), “Perspectives on risk perception”, in Risk Analysis, 1 (No. 2), pp.143-163; C.L. Coleman (1993), “The influence of mass media and interpersonal communication on societal and personal risk judgments”, in Communication Research, 20, pp.611-628; come analisi di un caso di studio cfr. L. Clarke, C. Chess, R. Holmes, K.M. O’Neill (2006), “Speaking with One voice: Risk Communication Lessons from the US Anthrax Attacks”, in Journal of Contingencies and Crisis, Vol. 14, No. 3, September 2006, pp.160-169. Oxford: Blackwell Publishing.

[12] Cfr. G. Ligi (2009), op.cit., pp.75-76.

[13] Sul tema dell’identità cfr. F. Crespi, Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2004; L. Sciolla, Identità, Rosenberg & Sellier, Torino 1983; R. De Vita, Incertezza e identità, FrancoAngeli, Milano 1999. Tra i “classici” ci limitiamo a ricordare: E. Goffman (1959), The Presentation of Self in Everyday Life, trad.it., La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1969.

[14] Sul concetto di “visibilità” cfr. J.B. Thompson (2005), “The New Visibility”, in Theory Culture Society, 22, pp.31-51.

[15] Per un quadro introduttivo complessivo sul dibattito epistemologico e sulla demarcazione tra scienza e pseudoscienza si veda I. Lakatos, A. Musgrave (a cura di) (1970), Criticism and the Growth of Knowledge, trad.it., Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1976; tra i “classici” segnaliamo: K.R. Popper (1934), The Logic of Scientific Discovery, trad.it., Logica della scoperta scientifica. Il carattere autocorrettivo della scienza, Einaudi, Torino 1970; T. Kuhn (1962), The Structure of Scientific Revolution, trad.it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969; I. Prigogine, I. Stengers (1979), La Nouvelle Alliance. Métamorphose de la science, trad.it., La nuova alleanza, Einaudi, Torino 1981 (ed.it. a cura di P.D. Napolitani); cfr. L. Gallino, L’incerta alleanza. Modelli di relazioni tra scienze umane e scienze naturali, Einaudi, Torino 1992; con riferimento alle scienze sociali ed alla sociologia, si veda G. Statera, La conoscenza sociologica. Problemi e metodo, Liguori, Napoli 1974, nuova ed. rivista e ampliata; P. De Nardis (a cura di), Le nuove frontiere della sociologia, Carocci, Roma 1998; si veda anche il più recente e interessante lavoro di G. Rinzivillo, Epistemologia e sociologia italiana. Materiali e concetti per la storia della scienza, FrancoAngeli, Milano 2009.

[16] Si veda K.R. Popper, La scienza normale e i suoi pericoli, in I. Lakatos, A. Musgrave (a cura di) (1970), op.cit., pp.121-128. Per approfondire ulteriormente: K.R. Popper (1994), The Myth of the Framework: In Defence of Science and Rationality, trad.it. Il mito della cornice, Il Mulino, Bologna 1995; in particolare, cfr il cap.VIII, intitolato “Modelli, strumenti e verità. Lo status del principio di razionalità nelle scienze sociali”.

[17] Per approfondire: R. Boyne (2003), Risk, Open University Press, Buckingham.