Globalizzazione e società della conoscenza: un duplice livello di analisi

Nello spirito (originario) della società della conoscenza e dell’economia della condivisione, condivido un capitolo estratto da una delle mie monografie, sperando che possa interessarvi e fornire degli spunti. Mi scuso in anticipo per la lunghezza ma ho pensato di condividerlo completamente.

Dedicato a tutt* coloro che, pur tra mille difficoltà e ostacoli, credendo nella condivisione della conoscenza, nel “sapere condiviso” (2003) e nella cooperazione, operano  per una società concretamente aperta e inclusiva. Con spirito critico!

Il riferimento bibliografico è:  P.Dominici (2005), La comunicazione nella società ipercomplessa. Condividere la conoscenza per governare il mutamento, FrancoAngeli, Milano 2011

In questi casi si dice “…è tempo di bilanci”. La nostra analisi, nel tentativo di definire le categorie concettuali utili per la formulazione di un modello teorico-interpretativo di quella che abbiamo definito società ipercomplessa, deve necessariamente produrre delle conclusioni che – vogliamo sperare – possano rivelarsi portatrici di ulteriori approfondimenti e, soprattutto, di “progettualità” funzionali alla gestione del complesso mutamento in atto e, più in generale, al governo dell’incerto. Non è inutile, in tal senso, richiamare sinteticamente le suggestioni (connessioni) e le criticità – “punti programmatici”dell’agenda internazionale dei vecchi Stati-nazione – che hanno alimentato l’incedere del pensiero e della scrittura, e  su cui ci siamo soffermati nel corso della nostra analisi:

a) la Modernità, anche alla luce delle numerose letture offerte da studiosi e pensatori analizzati, si è confermata come l’età dell’ambivalenza e del paradosso, del conflitto aperto, della crisi delle grandi narrazioni, delle ideologie e dei paradigmi scientifici. Un’età secolare contrassegnata da un continuo, oltre che complesso, processo di ridefinizione degli immaginari sociali e degli orizzonti morali, da una sorta di Grande Sradicamento (Great Disembedding)[1] che mette in discussione perfino il concetto stesso di identità. Una fase di mutamento che sembra configurarsi più come l’era del trionfo della pluralità dei giochi linguistici – il cui fulcro è, comunque e sempre, l’azione sociale – che come l’era del globale e dell’omogeneo (Lyotard vs.Habermas).

b) Analizzate le principali caratteristiche del processo di globalizzazione, siamo evidentemente in grado di poter affermare che: (1) la globalizzazione è un “dato di fatto”: quindi, non si tratta di essere aprioristicamente o ideologicamente pro o contro tale processo, bensì di elaborare paradigmi, definizioni operative, modelli adeguati al mondo frammentario, fluttuante e incerto della società ipercomplessa, che consentano di mettere a punto e sperimentare strategie politiche di sviluppo necessariamente con una prospettiva globale e innovativa rispetto al passato, cioè strategie più idonee per governare tale processo; (2) la stessa globalizzazione, a nostro avviso,  non costituisce un momento di frattura (postmodernità) rispetto a quella che è stata definita “prima modernità”, al contrario, contiene e mantiene al suo interno tutte le contraddizioni tipiche della modernità, estendendole però su scala globale e radicalizzandone  gli effetti. Il processo di modernizzazione – superata la prima fase della modernità industriale – vedendo ulteriormente accresciuta la propria complessità e ambivalenza, grazie soprattutto al sistema globale della comunicazione, prende coscienza di essere divenuto “problema di se stesso” (concetto di “riflessività”). Due le “forze” o, per meglio dire, i “motori” dell’economia globale della conoscenza che si affrontano dialetticamente in campo aperto: da una parte l’interdipendenza (e interconnessione) economica e tecnologica, dall’altra, la frammentazione sociale, politica e culturale (Dominici 1998,2000,2003)

c) Quasi a rendere ancora più fondato l’utilizzo del concetto di ambivalenza, va registrato che l’avvento della società in rete e della Knowledge Society si va certamente configurando come una straordinaria opportunità di democratizzazione dei processi culturali, delle conoscenze e, quindi, del potere; ma, allo stesso tempo, occorre sempre prestare molta attenzione affinché questa nuova società-mondo non si riveli, essenzialmente, come una società del controllo totale e della sorveglianza; il rischio concreto è quello di realizzare un sistema globale completamente interdipendente in cui, a livello della prassi anche individuale, la domanda sociale di protezione e sicurezza diventa essa stessa fonte di nuovi rischi per l’attore sociale e le sue libertà. Una società globale edificata sul passaggio dalla old alla new economy, dai flussi materiali ai flussi immateriali, dal capitale finanziario al capitale umano, intellettuale e/o culturale[2]. Un passaggio decisivo delle trasformazioni in atto, perché determina l’evoluzione del sistema capitalistico mondiale verso un nuovo modo di produzione (sociale) più dinamico, aperto e svincolato da gerarchie di ogni tipo: l’economia della Rete.

d) La centralità strategica della comunicazione, intesa come processo sociale di condivisione della conoscenza, in tutte le dimensioni della prassi: dai sistemi alle organizzazioni complesse, l’agire individuale e collettivo vengono sempre più orientati e plasmati dalla “natura” dei processi comunicativi attivati e da una razionalità che, considerata l’ipercomplessità del contesto, non può che essere limitata[3]. Nella società della conoscenza, la comunicazione, nel determinare una dilatazione della prassi, ri-definisce la stessa categoria concettuale di “azione sociale”, ri-configurando  le modalità di interazione sociale, i rapporti di potere, il sistema delle relazioni, la sfera pubblica (ormai) transnazionale (forse si potrebbe, perfino, parlare di “sfere pubbliche”) e i modelli organizzativi. Sono in gioco le identità individuali e collettive, ma anche i modelli tradizionali di trasmissione del sapere. La presa d’atto rispetto a tali evidenze non può che rendere necessaria, per non dire urgente, una ridefinizione teorica e operativa delle categorie analitiche funzionale all’elaborazione di modelli e schemi interpretativi adeguati.

e)L’accresciuta complessità dei sistemi sociali – a cui si è fatto riferimento più volte – implica una situazione permanente di rischio ed incertezza a livello locale e globale che nel tempo, paradossalmente, pur innalzando il livello di accettabilità sociale del rischio[4] e dei pericoli, rende di fatto più vulnerabili i sistemi stessi, costretti a gestire anche i processi di amplificazione sociale[5]. A tal proposito, da tenere in forte considerazione il ruolo cruciale, all’interno dei sistemi sociali, della percezione[6] (individuale e collettiva) che tanto incide su quella che alcuni studiosi hanno definito “nuova rischiosità del rischio” (Beck). È sufficiente pensare a quanto la Politica (interna ed estera) degli Stati-nazione sia costretta a confrontarsi quotidianamente con problematiche riguardanti la sicurezza, la protezione sociale, l’incertezza, la precarietà, rischi e pericoli di vario genere che, al di là della loro dimensione empirica ed effettiva oggettività,  sono talvolta anche soltanto percepiti come tali. Tale dimensione non può non influire (anzi!) sul Decisore politico, determinandone scelte e strategie. Anche in questo caso, si avverte forte l’esigenza di nuove categorie concettuali e di nuovi modelli interpretativi per un contesto caratterizzato da forze contrapposte (globalizzazione e frammentazione).

f) Informazione e conoscenza, insieme con la comunicazione (loro “propulsore”) – già protagoniste dei processi di socializzazione e di formazione delle identità individuali e collettive – oltre ad essere diventate i principali “fattori di produzione” e, soprattutto, dei “bisogni primari” fondamentali, si sono ormai rivelate come le uniche risorse in grado di far comunicare le parti di un sistema-mondo apparentemente in aperto conflitto.

g) Informazione, conoscenza e comunicazione potrebbero in futuro – con adeguate strategie politiche di respiro internazionale – rivelarsi sempre più decisive nella dura battaglia per il riconoscimento universale, l’affermazione definitiva e – si spera – la concreta applicazione dei “diritti di cittadinanza globale”, nonché per la riduzione delle drammatiche disuguaglianze presenti nel sistema-mondo.

h) Nell’era del Globale e della società in rete, molte di queste disuguaglianze (locali e globali) non sono soltanto – come Marx ci aveva criticamente e opportunamente insegnato – dovute a profonde distorsioni nei rapporti economici; conseguentemente, non sono spiegabili solo sulla base  di assunti legati ad un determinismo di tipo economico (basti pensare alla celebre formula del possesso dei “mezzi di produzione”). Le nuove disuguaglianze sono sempre più spesso di tipo conoscitivo e culturale: sono disuguaglianze che si manifestano anche in paesi relativamente sviluppati, nei quali le libertà civili e i diritti fondamentali vengono ignorati, per non dire calpestati. Esse costituiscono l’esito inevitabile del mancato sviluppo della democrazia e della società di diritto, ma anche del non rispetto delle differenze culturali[7] e della libertà di pensiero. Estremizzando questo punto con una domanda, ci si potrebbe chiedere: come è possibile far rispettare dei diritti di cui non si conosce nemmeno l’esistenza ? Ma la questione dell’alfabetizzazione e, ad un livello successivo, della formazione è assolutamente decisiva anche soltanto per progettare le politiche di sviluppo e di welfare, garantendo per esempio l’assistenza sanitaria e sociale. È un problema, tanto per cambiare, di accesso alle risorse, tra le quali – come detto – le più decisive risultano essere oggi quelle immateriali (informazioni e conoscenze = competenze), in grado, evidentemente, di determinare asimmetria nelle relazioni sociali a qualsiasi livello[8].

i) Il processo di globalizzazione, di conseguenza, porta inevitabilmente con sé la necessità di rivedere in chiave transnazionale qualsiasi strategia economica, politica, sociale e culturale. La società dell’informazione e della conoscenza, pur essendo una dimensione costitutiva della società ipercomplessa, rappresenta la speranza – per molti versi, la nuova utopia[9]di dar vita ad un “progetto” di globalizzazione etica, più responsabile e solidale che, nonostante le dimensioni, tuttora preoccupanti, del digital divide, trova i suoi punti di appoggiole sue leve – proprio nella conoscenza e nella comunicazione globale. Quello che abbiamo definito il nuovo ecosistema della conoscenza trova nell’economia interconnessa straordinarie opportunità di democratizzazione della conoscenza e dei processi culturali andando a scardinare, definitivamente, il vecchio modello industriale costituito da assetti consolidati, gerarchie, logiche di controllo e di chiusura al cambiamento. La conoscenza, risorsa immateriale strategica per il mutamento in corso, comincia ad essere sempre più vista e percepita come “bene comune” in grado di ristabilire rapporti sociali di potere meno squilibrati e asimmetrici.

Dunque, alla luce di quanto progressivamente emerso nel corso del nostro lavoro – questi “punti critici”, sopra richiamati, crediamo ne rappresentino una sintesi chiara e, allo stesso tempo, completa – ci siamo resi conto della estrema difficoltà (praticamente dell’impossibilità), data la complessità delle dimensioni che costituiscono il nostro “oggetto di studio”, di arrivare a delle conclusioni definitive o di proporre, presuntuosamente, addirittura delle “soluzioni” (che, tra l’altro, non possono più permettersi di trascurare la dimensione etica), rispetto alle questioni vitali delle globalizzazione rischiosa e della cosiddetta società della conoscenza e della comunicazione totale.

Tuttavia, oltre evidentemente alla grande passione e all’interesse che lega chi scrive a questi argomenti così attuali e decisivi per il destino del sistema-mondo, è stata proprio la profonda consapevolezza delle notevoli difficoltà che avremmo incontrato nel tentativo di definire un modello di analisi del mutamento e riflettere sulle possibilità di un’etica (razionale) della comunicazione per la civiltà tecnologica in rete – che avesse una prospettiva universale[10] – unita all’urgenza di una siffatta riflessione – testimoniata peraltro da una letteratura scientifica estremamente articolata – a guidare la nostra analisi, alimentandola continuamente di spunti. Ma, alla base del nostro lavoro, si colloca,  senza dubbio, anche un altro intimo convincimento: che la comunicazione etica e la conoscenza diffusa, a livello locale e globale, rappresentino realmente i pre-requisiti fondamentali per la realizzazione del “progetto” – su cui, ormai, (quasi) tutti, pur partendo da posizioni ideologiche diverse, sembrano essere d’accordo – di una società globale più equa e solidale[11], che ponga nuovamente alla sua base i “valori” dell’uomo (neoumanesimo[12]) e i diritti di cittadinanza globale; a maggior ragione, in un momento storico in cui la dimensione del conflitto, in primo luogo culturale e sociale, sembra nettamente prevalente all’interno del sistema-mondo. Un nuovo umanesimo basato sulla conoscenza diffusa e accessibile a tutti che sia capace di includere i soggetti deboli dell’economia-mondo. Ciò nonostante, dobbiamo anche registrare dei segnali positivi di “risveglio” di una coscienza globale delle problematiche che caratterizzano la globalizzazione. Da osservare con estrema attenzione, in tal senso, anche l’avvento delle nuove sfere pubbliche in rete e il fenomeno dell’open source, destinato ad offrire importanti opportunità. Tuttavia, dobbiamo rilevare come questo risveglio sia avvenuto, forse, anche per merito di un sistema mondiale della comunicazione che, pur presentando numerosi aspetti criticabili e, in alcuni casi, inquietanti, ha, comunque, offerto, prevalentemente attraverso la Grande Rete – con la sua struttura reticolare radicalmente de-gerarchizzata, che si sviluppa autopoieticamente – e le tecnologie senza fili la straordinaria opportunità di una formazione di “visioni del mondo” (scientifiche e non) alternative[13] a quelle egemoni e che, in futuro – sempre se ci sarà la volontà politica dei soggetti “forti” (Stati-nazione e organizzazioni mondiali) del panorama internazionale –  è destinata ad accrescere i margini di libertà d’azione individuale e collettiva e, soprattutto, le opportunità di sviluppo[14]. Ed è in tal senso che Manuel Castells, riferendosi alla comunicazione nell’età digitale, parla di una rivoluzione segnata dall’affermazione di una nuova forma di comunicazione interattiva – basata sull’ubiquità locale/globale consentita dalle reti wireless, sul miglioramento della trasmissione su banda larga e sul software avanzato – definita autocomunicazione di massa «Quel che è storicamente inedito, con conseguenze importanti per l’organizzazione sociale e la mutazione culturale, è l’articolazione di tutte le forme di comunicazione in un ipertesto digitale composito e interattivo che include, mixa e ricombina nella loro diversità l’intero ventaglio delle espressioni culturali veicolate dall’interazione umana»[15]. A rafforzare la nostra convinzione “arriva”, quasi insospettabilmente, anche Herbert Marcuse,  esponente delle teoria critica della società e autore-culto nei caldi anni Sessanta della contestazione. Nel suo The One-Dimensional Man (1964), infatti, Marcuse, pur essendo estremamente critico nei confronti società capitalista avanzata, “colpevole” di aver sottomesso l’uomo all’apparato produttivo (promuovendo il pensiero acritico), attraverso la razionalità strumentale, la tecnica, i consumi ed i “bisogni falsi” promossi e indotti dall’industria culturale, riconosce con notevole senso dell’intuito che «i processi tecnologici di meccanizzazione e di unificazione potrebbero liberare l’energia di molti individui, facendola confluire in un regno ancora inesplorato di libertà al di là della necessità. La stessa struttura dell’esistenza umana ne sarebbe modificata»[16].

La società della conoscenza, caratterizzata dalla circolazione in tempo reale di informazioni e conoscenze, oltre ad aver contribuito alla riduzione della complessità, ha determinato la formazione di una coscienza collettiva globale delle problematiche della società globale del rischio. Si tratta di un “riflesso” di fondamentale importanza, che sembra, peraltro, aver ulteriormente sensibilizzato l’opinione pubblica mondiale su alcune tematiche importantissime come i diritti umani, le nuove disuguaglianze, la democrazia e la richiesta di un’eguaglianza delle opportunità, il rispetto delle identità ecc.

I concetti e le teorie analizzati hanno fatto, forse paradossalmente, ri-emergere quello che possiamo considerare, a tutti gli effetti, un ulteriore “dato di fatto”: la richiesta sempre più insistente di “responsabilità” e di un’etica che, al di là della scientificità della norma giuridica e/o del sistema di norme e sanzioni culturalmente codificate, si riveli maggiormente in grado di interpretare la “società ipercomplessa”. Infatti, dominata dal modello occidentale di razionalità, dalle nuove reti di interazione sociale prodotte dalla convergenza tecnologica, dalla ibridazione delle culture, dalla circolazione delle conoscenze e delle informazioni in tempo reale (velocità = efficienza) e dalla virtualizzazione dei flussi – la sfera di discorso dell’etica ha riacquisito una centralità perduta, in virtù del trionfo sia della fede nell’ideale illuministico di “progresso” che di un ottimismo generato da una fiducia illimitata, di matrice positivista, nella potenzialità della scienza e della tecnica.

In particolare,  la questione cruciale dell’etica si ripropone come area di studi assolutamente fondamentale e trasversale ai settori disciplinari, oltre che settore nevralgico per l’evoluzione dei sistemi sociali. Una provincia di significato che le scienze sociali sembrano non voler attraversare, quasi temendo (erroneamente) una contaminazione della propria scientificità e del proprio rigore metodologico, talvolta ignorandone perfino la matrice originaria.

Una questione che chiama in causa diversi ambiti di studio e che, volendo operare un’ulteriore sintesi, coinvolge essenzialmente un duplice livello di analisi: ad un primo livello, che potremmo definire “macro”, una comunicazione etica, realmente orientata verso l’intesa, potrebbe davvero rivelarsi lo “strumento” in grado di consentire una migliore gestione e/o riduzione dei rischi e delle incertezze (dovuti a mancata o insufficiente diffusione delle conoscenze) e, soprattutto, una mediazione delle nuove forme di conflittualità – globali (tra Stati-nazione, comunità, etnie, tra aziende transnazionali e contesto, tra “mondi di vita” etc.) e locali (tra sistema di potere e società civile, tra Pubbliche Amministrazioni e cittadini, tra istituzioni e mondo della produzione) – sempre più “interconnesse” tra loro. Un processo complesso che, una volta innescato, porterebbe con sé il riconoscimento di diritti e di principi etici condivisibili a livello universale.

Ad un secondo livello, definito “micro”,  la nostra analisi non ha potuto non prendere atto che la comunicazione, intesa come processo sociale di condivisione della conoscenza, e, con essa, i flussi comunicativi abbiano ormai assunto una posizione di assoluta centralità nella formazione, oltre che dell’opinione pubblica (elemento fondamentale dei moderni sistemi democratici),  delle identità e delle appartenenze collettive e, più in generale, nella socializzazione di individui sempre più autonomi nelle loro scelte. Alla luce evidentemente di quel processo che abbiamo definito di dilatazione della prassi e, nello specifico, della sfera pubblica, entrambi le dimensioni analitiche convergono verso una prospettiva strategica che, basandosi su una necessaria ridefinizione del concetto stesso di “sfera pubblica”[17] e, soprattutto, su un’attenta analisi di tutte le complesse implicazioni che questo processo comporta, è finalizzata all’individuazione di strategie più consapevoli e mirate.

 

D’altra parte, a ulteriore conferma di quanto in precedenza sostenuto, dobbiamo considerare che la modernità complessa ha innescato, tra le molteplici dinamiche, un processo di ipertrofizzazione degli apparati burocratici risultanti dal rafforzamento dei vecchi Stati-nazione che, a sua volta, ha determinato la progressiva dissoluzione di quello spazio pubblico definito dallo stato di diritto come il luogo in cui tutte le istanze sociali, le modalità della rappresentanza politica e, soprattutto, la tutela dei diritti devono trovare legittimazione e riconoscimento da parte delle collettività.

Il processo di evoluzione dei neonati regimi democratici, spesso culturalmente fondati sul concetto di sovranità popolare– intesa come egemonia o predominio delle maggioranze – e sulla mancata definizione del rapporto tra i valori fondanti della libertà e dell’uguaglianza[18], ha causato una radicale politicizzazione della sfera pubblica che, articolatasi poi in istituzioni politiche e in nuove istanze sociali in cerca di un riconoscimento pubblico e di una traduzione operativa in norme di diritto, è andata configurandosi sempre più come sistema autopoietico.

Lo spazio operativo della sfera pubblica si è visto in tal modo drasticamente ridimensionato, in maniera peraltro inequivocabile, alla sola questione della “rappresentanza”. La politica entra in crisi forse proprio nel momento in cui la sfera pubblica si configura sempre più come ancella del sistema di potere. In quel momento viene meno, cioè, per dirla con Habermas, quel livello di mediazione tra sistema e mondo della vita che si fonda su un agire comunicativo in grado di tematizzare criticamente istanze sociali e opinioni generatesi all’interno del mondo della vita e della società civile, dando loro piena legittimità oltre che rilevanza pubblica.

L’inevitabile dilatazione della prassi (non soltanto politica) costringe, pertanto, la comunità scientifica a ripensare, se non addirittura a riformulare, le stesse categorie concettuali – e, tra queste, quella di sfera pubblica[19] che si è rivelata assolutamente centrale – che hanno consentito per molto tempo la decodifica dei mutamenti socio-culturali. Ed è proprio questa dilatazione a richiedere un significativo sforzo a studiosi e intellettuali, nel tentativo di elaborare un paradigma più flessibile del concetto di “sfera pubblica”. Tale necessità si rende ancor più urgente proprio in questa dimensione rivelatasi – come detto – assolutamente strategica per il progresso dei regimi democratici e, forse, per la loro stessa sopravvivenza. Ad essere in gioco sono i diritti di cittadinanza che, mai come in quest’epoca, sono da mettersi in correlazione con l’accesso alle informazioni ed alle conoscenze ma anche, e soprattutto, con la possibilità di un loro utilizzo più consapevole e produttivo, finalizzato ad incidere sulle decisioni politiche e la dialettica democratica.

Una questione cruciale che non può non essere affrontata anche a livello internazionale, anche perché le nuove tecnologie dell’informazione stanno contribuendo in maniera decisiva al processo di costruzione di una nuova sfera pubblica metanazionale caratterizzata da modalità di interazione sociale del tutto innovative, in grado di stravolgere le tradizionali logiche della dialettica democratica e della rappresentanza e, più in generale, dell’arena politica ormai anch’essa transnazionale[20].

Il sistema-mondo sta vivendo un momento di grandi e inarrestabili trasformazioni dall’esito incerto, risultanti da processi complessi che stanno plasmando la configurazione dei sistemi sociali ormai sempre più strutturati, dal punto di vista dei flussi (economici, politici e sociali), in maniera reticolare. Si tratta di una fase storica estremamente delicata, associata da più parti ai concetti di rischio, incertezza, complessità, nella quale sembra diffondersi sempre di più la percezione forte di una precarietà delle appartenenze e del Soggetto, già sconvolto nelle sue certezze conoscitive ed esistenziali dall’avvento della modernità, “edificata proprio sul valore assoluto della relatività della conoscenza e dei valori. I paradigmi scientifici e, più in generale, i modelli interpretativi del reale, prodotti dal pensiero moderno e contemporaneo, si basano proprio sulla maturazione anche sofferta della consapevolezza di questa crisi.  E, peraltro, sono proprio le cosiddette “scienze esatte” a prendere atto del valore esclusivamente probabilistico e statistico delle conoscenze. Questa fondamentale e rinnovata consapevolezza ha un impatto straordinario non soltanto evidentemente su teoria e ricerca scientifica, bensì su tutti i sistemi socioculturali. L’evoluzione dei processi e dei sistemi comunicativi assume, in questa complessa fase di mutamento, una rilevanza assolutamente strategica.

La   Grande Rete e le tecnologie senza fili – nuova “infrastruttura tecnologica” della società ipercomplessa – producendo una desequenzializzazione del tempo (Castells), oltre a determinare l’avvento di un  nuovo modello di comunicazione e, conseguentemente, di una nuova cultura, hanno innescato un processo di trasformazione delle forme di socialità, modificando in profondità tutti i modelli organizzativi (e-government, e-business, e-learning, telelavoro etc.). E, non poteva essere altrimenti, l’incredibile ipertrofizzazione della sfera dell’agire umano ha portato con sé nuove questioni di natura etica non più eludibili, tanto da rendere necessario un sapere di tipo predittivo (Jonas) e, soprattutto, nuove responsabilità che coincidono con nuove libertà rischiose.

La rinnovata consapevolezza della centralità strategica della conoscenza ha determinato la definitiva affermazione di una nuova forma di capitalismo (new economy) basata sulla circolazione dei beni immateriali: si tratta di un capitalismo culturale che sembra aver ribaltato il rapporto – analizzato e definito da Karl Marx – tra le categorie di struttura (economia) e sovrastruttura (cultura); un capitalismo fondato sulla possibilità di accesso alle risorse (Rifkin) e che scopre una nuova dinamicità nella possibilità della diffusione in tempo reale delle conoscenze e delle informazioni (turbocapitalismo) e nella virtualizzazione del denaro.

La comunicazione, mediante la compressione spazio-temporale (Harvey) permessa dalle nuove tecnologie informatiche –  in un contesto in cui si va sempre di più verso la convergenza e l’ibridazione culturale diventa la variabile decisiva in grado da una parte di diffondere le conoscenze e, quindi, di ridurre la complessità (Luhmann) e, dall’altra, di mediare le nuove forme di conflittualità che pervadono la modernità radicale. Il processo di globalizzazione, quindi, sta ponendo all’ordine del giorno problematiche di non facile soluzione e che richiedono il coinvolgimento dell’intera comunità internazionale: la convivenza tra culture diverse nel reciproco rispetto e riconoscimento; il nuovo mercato del lavoro che richiede agli individui sempre più competenze e flessibilità; la nascita di nuove disuguaglianze sociali; la questione ambientale; la criminalità internazionale, le nuove forme di schiavitù (di esempi se ne potrebbero fare molti altri). Tutto ciò ha riportato in primo piano nell’agenda internazionale dell’opinione pubblica alcune tematiche che erano state forse trascurate perché reputate ormai come dati di fatto acquisiti: tra queste, su tutte, la questione dei diritti dell’uomo (oggi diritti di cittadinanza globale) che dovrebbero essere, oltre che formalmente riconosciuti, rispettati a livello universale.

La globalizzazione – è bene sottolinearlo ancora una volta – non è, come molti hanno creduto inizialmente, un processo esclusivamente economico, dal momento che investe la dimensione culturale con profonde conseguenze sociali e politiche: si  tratta di un processo che investe radicalmente la sfera dei valori condivisi, dei significati e dei simboli che consentono la sopravvivenza di un sistema sociale storicamente determinato, attraverso la coesione, la fiducia e la cooperazione degli attori che lo costituiscono.

Riconosciuto il diritto al relativismo delle culture e dei valori, siamo forse arrivati ad un punto di crisi –  di attraversamento dell’abisso – in cui diventa di fondamentale importanza proprio il tentativo di trascendere il relativismo stesso (comunque nel rispetto della diversità culturale), servendosi di una comunicazione etica, realmente orientata verso l’intesa e lo scambio di valore.

La nostra convinzione è che questo percorso, certamente non semplice, possa essere intrapreso non solo a livello teorico ma anche pratico (decisioni politiche all’interno di una “politica interna mondiale”). La comunicazione d’altra parte, oltre ad essere decisiva per la socializzazione degli attori sociali (individuali e collettivi) – altrimenti liberi da ogni responsabilità e/o vincolo – potrebbe risultare fondamentale – come già accennato – nel complesso processo di mediazione dei conflitti globali e locali. I moderni sistemi sociali, peraltro, sono attraversati da flussi migratori diretti verso il Nord del mondo ricco e sviluppato che si vanno intensificando sempre di più,  ponendo, tra le tante, la questione centrale della convivenza. E non si può continuare a credere che le uniche soluzioni praticabili siano legate all’innalzamento di barriere (politiche o culturali) o al semplice e formale riconoscimento del valore della tolleranza, spesso ipocritamente utilizzato.

Credere nella possibilità di una comunicazione etica, di un “agire orientato verso l’intesa”, significa credere nella possibilità di “convergenza” tra valori e visioni del mondo talvolta anche contrapposte; significa credere nel dialogo e nel confronto tra “mondi di vita” diversi; significa credere nella possibilità di un riconoscimento effettivo e universale dei diritti dell’uomo (oggi potremmo dire dei diritti di cittadinanza globale) anche nel suo essere lavoratore e consumatore; significa credere nella possibilità di una reale integrazione dei popoli basata sul riconoscimento di valori condivisibili non stabiliti a priori,  ma acquisiti in modo intersoggettivo.

Nella pratica ciò significa – tra le tante possibilità – educare alla multiculturalità[21], alla conoscenza del “grande Altro”[22] (delle culture altre) con opportune politiche formative, rafforzando nel contempo la propria identità culturale storicamente determinata. Ma significa anche, in altre parole, credere nella possibilità concretamente realizzabile, nel progetto forte di una globalizzazione etica che, nelle persone che hanno responsabilità di potere, ponga al primo posto della sua agenda proprio il principio responsabilità[23], la dignità dell’uomo, la giustizia e i diritti dei popoli.

Si tratta di una prospettiva complessa che richiederà tempo, ma soprattutto consapevolezza e  volontà di attuazione da parte, in primo luogo, dei vecchi Stati-nazione – ormai scavalcati dai flussi immateriali della cosiddetta new-economy – delle aziende transnazionali (che non possono credere che tali questioni non le riguardino), delle agenzie di socializzazione (famiglia, scuola, partito, sindacato, associazioni etc.) e di tutti i soggetti coinvolti a vario titolo nella formazione delle coscienze e nella mediazione dei conflitti, non ultimi i cosiddetti intellettuali. Lo studio effettuato, a tal proposito, ha posto l’accento proprio sulla necessità, come ampiamente argomentato dal principale teorico dell’agire comunicativo Jurgen Habermas[24], che siano garantiti ovunque alcuni prerequisiti fondamentali legati alla sopravvivenza ed alle condizioni materiali di vita delle persone. Se ciò non dovesse accadere, tale prospettiva avrebbe modo e ragione di esistere ed essere applicata soltanto nei paesi sviluppati.

L’obiettivo nel lungo periodo deve però rimanere quello della creazione – per dirla con Beck – di una società civile transnazionale, basata sui diritti di cittadinanza globale e non soltanto sulle regole imposte dal mercato mondializzato.

A tal proposito, senza opportune e mirate strategie politiche transnazionali, è destinato ad aumentare il gap tra Paesi avanzati (detentori della conoscenza e dei mezzi di produzione) e Paesi in via di sviluppo[25], che verrebbero in tal modo tagliati definitivamente fuori dalle dinamiche dell’economia della conoscenza.

Come più volte ribadito, e considerate i tratti distintivi di quella che Castells ha definito Network Society, l’implementazione di strategie (e di programmi) finalizzate alla condivisione della conoscenza ed una pragmatica della comunicazione[26] responsabile possono senza dubbio rivelarsi delle risorse strategiche funzionali alla formazione di una società civile transnazionale, alla definizione di una politica interna mondiale ed alla fondazione di un’etica pubblica transnazionale (globalizzazione etica). Questo potrebbe essere il vero valore aggiunto della modernità radicale.

La diffusione di una razionalità comunicativa e non strumentale sta già contribuendo in maniera significativa alla formazione di una sfera del diritto e della morale transnazionale.

 

Nella società ipercomplessa, la prassi della comunicazione è letteralmente esplosa,  determinando un processo di riconfigurazione dello spazio-tempo ed una progressiva erosione dei confini tra “pubblico” e “privato”.

Allo stesso tempo, la mancata definizione di nuovi parametri nel campo della condotta morale e la conseguente diffusione di valori sempre più legati ad un individualismo, talvolta esasperato e irrazionale, hanno spinto il Soggetto verso una condizione di “isolamento” che certamente ha favorito un (ri)posizionamento più strategico, all’interno dell’offerta formativa, dei media e, in generale, del sistema dell’informazione[27].

La crescita esponenziale dei canali di socializzazione e la crisi comunicativa hanno ulteriormente allentato la trama del tessuto sociale, aumentando in molti casi le distanze tra le istituzioni (“formali” e “informali”) e i singoli attori sociali che, da sempre, hanno contribuito a creare quello spazio sociale condiviso utilizzato per il confronto e lo scambio, per la ri-elaborazione delle informazioni e della conoscenza, oltre che per la definizione di strategie per la prassi.

Lo sviluppo del sistema-mondo è strettamente legato, pertanto, all’affermazione di una nuova religione civile fondata sulla conoscenza (diffusa) e su valori non imposti, ma acquisiti in maniera intersoggettiva da tutti gli attori coinvolti. Si avverte, in tal senso, il bisogno urgente – per dirla con Ferrarotti – di una “fede senza dogmi”[28] (1990) alimentata dalla capacità di pensiero complesso[29] e da una responsabilità fondata sulle competenze.

La scelta di puntare su strategie finalizzate alla condivisione della conoscenza potrà avere un ruolo assolutamente decisivo nella riduzione delle disuguaglianze (asimmetrie sociali), nel governo dell’egoismo sociale e, di conseguenza, nella mediazione/ri-composizione produttiva dei conflitti. Ma la produzione sociale di conoscenza – a nostro avviso – è destinata sempre più ad accrescere gli “spazi di libertà” all’interno dei vecchi Stati-nazione, garantendo maggiori opportunità di emancipazione rispetto al passato. Per non parlare dell’impatto sulle pubbliche amministrazioni e sul sistema delle imprese (nazionali e transnazionali) che, proprio grazie al miglioramento dei processi comunicativi interni ed esterni (COMUNICAZIONE è ORGANIZZAZIONE e viceversa), scelgono sempre più di puntare sul modello dell’azienda a rete, reso possibile dalla conoscenza condivisa, dalla formazione continua e da un modo totalmente differente di pensare la prassi organizzativa.

Il riconoscimento del valore della trasparenza, poi, spinge le organizzazioni complesse a configurarsi concretamente come “sistemi aperti” (agli stakeholders, al territorio e alla Comunità), in grado di gestire al meglio la complessità: una complessità sempre legata – vogliamo ribadirlo con forza – ad una carenza o, comunque, ad una cattiva gestione della conoscenza. In tal senso, occorre partire proprio dalla consapevolezza che la struttura dell’economia della conoscenza si basa sulla condivisione di questa straordinaria risorsa immateriale; condivisione che, contrariamente alle tradizionali logiche di controllo e accesso tipiche del vecchio modello industriale,  costituisce il pre-requisito fondamentale alla base della stessa possibilità di produzione della conoscenza.

 


[1] Per approfondire, si veda l’importante opera di C.Taylor (2007), A Secular Age, trad.it., L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009.

[2] Cfr. D.Cohen (1999), Nos temps modernes, trad.it., I nostri tempi moderni. Dal capitale finanziario al capitale umano, Einaudi, Torino 2001; sulla categoria concettuale di “capitale umano” si veda: G.S. Becker (1964-75-93), Human Capital. A Theoretical and Empirical Analysis, with Special Reference to Education, trad.it., Il capitale umano, Laterza, Roma-Bari 2008.

[3] Come noto l’espressione “razionalità limitata” è stata proposta da Herbert A.Simon, Nobel per l’economia (1978), ed è estremamente interessante anche ai fini della nostra analisi che mette in correlazione razionalità-comunicazione-conoscenza-gestione/riduzione della complessità. Per approfondire si vedano: H.A. Simon (1982), Models of Bounded Rationality, 2 voll., MIT Press, Cambridge Mass; H.A. Simon (1997), Models of Bounded Rationality, Volume 3, Empirically Grounded Economic Reason, trad.it., Scienza economica e comportamento umano, Edizioni di Comunità, Torino 2000.

[4] Sul concetto di “accettabilità sociale” del rischio, segnaliamo un “classico”: M. Douglas (1985), Risk Acceptability According to the Social Sciences, Routledge, New York, trad.it., Come percepiamo il pericolo. Antropologia del rischio, Feltrinelli, Milano 1991; M.Douglas (1992), Risk and Blame: Essays in Cultural Theory. London: Routledge, trad.it., Rischio e colpa, Il Mulino, Bologna 1996; con riferimento alle implicazioni di carattere etico cfr. S.O.Hansson, “Ethical Criteria of Risk Acceptance”, in Erkenntnis, 59 (2003): 291-309..

[5] Cfr. N.Pidgeon, R.E.Kasperson, P.Slovic (eds.), The social amplification of risk, Cambridge University Press, Cambridge 2003.

[6] Estremamente vasta e articolata la letteratura scientifica sulla questione. Segnaliamo, in particolare, B. Fischhoff (2002), “Risk perception, risk communication, risk taking”, in Journal of Psychology and Financial Markets, 3: 102-111; B.Fischhoff, (2009), “Risk Perception and Communication”, in Detels R., Beaglehole R., Lansang M.A., and Gulliford M. (Eds), Oxford Textbook of Public Health, Fifth Edition, pp. 940-952.

[7] Sul concetto di “differenza culturale” e sul rapporto esistente tra differenze culturali e universalismo dei diritti cfr. M.Wieviorka (2001), La différence, trad.it., La differenza culturale.Una prospettiva sociologica, Laterza, Roma-Bari 2002.

[8] Si pensi, per esempio, a come istruzione e formazione, strumenti fondamentali di una società realmente democratica,  sono da sempre considerate l’unico  “ascensore sociale” disponibile.

[9] Per una analisi storica e culturale del concetto di “utopia” si vedano, in particolare, i seguenti testi: L.Mumford (1921), The Story of Utopias, trad.it., Storia dell’utopia, Donzelli, Roma 1997 (con prefazione di F.Crespi),(1°ed.italiana dell’opera risale al 1969); J.Servier (1967), Histoire de l’Utopie, trad.it., Storia dell’utopia.Il sogno dell’Occidente da Platone ad Aldous Huxley, Ed.Mediterranee, Roma 2002.

[10] Sull’esigenza di un’etica che abbia una prospettiva universale e sulle problematiche che essa comporta si veda l’importante lavoro di A.Catemario, La contraddizione culturale nelle società complesse: l’etica universale, Ed.Kappa, Roma 1990; interessante, in particolare, la “lettura”  dell’etica universale – offerta dal noto antropologo culturale – messa a confronto con quelle che definisce “disarmonie” e con la dimensione fondamentale dei “bisogni”. Tra i contributi più recenti si vedano, sempre sul tema dell’etica universale, anche i seguenti saggi: H.Küng (1990), Projekt Weltethos, trad.it., Progetto per un’etica mondiale, Rizzoli, Milano 1991; R.Viganò, Psicologia ed educazione in Kohlberg. Un’etica per la società complessa, Vita e Pensiero, Milano 1991; Z.Bauman, K.Tester (2001), Conversations with Zygmunt Bauman, trad.it., Società, etica politica. Conversazioni con Zygmunt Bauman, Raffaello Cortina, Milano 2002; P.Donati (a cura di), P.Koslowski, D.De Kerckhove, J.C.Alexander, L’etica civile alla fine del XX secolo. Tre scenari, Mondadori, Milano 1997; J.Ladrière (1997), L’éthique dans l’univers de la rationalité, trad.it.,L’etica nell’universo della razionalità, Vita e Pensiero, Milano 1999; V.Franco, Etiche possibili. Il paradosso della morale dopo la morte di Dio, Donzelli, Roma 1996;T.Chiminazzo, Etica ed economia:l’utopia diviene realtà.Per un mondo migliore, Franco Angeli, Milano 2002; da ricordare anche la riflessione, estremamente critica nei confronti dello “scetticismo etico”, portata avanti da T.Nagel che tenta di spiegare razionalmente l’etica, facendo ricorso ai concetti di “altruismo” e “prudenza”: T.Nagel (1970), The Possibility of Altruism, trad.it., La possibilità dell’altruismo, Il Mulino, Bologna 1994.

[11] Cfr. A.Kohn (1986), No Contest, trad.it., La fine della competizione, Baldini & Castoldi, Milano 1999; si tratta di un’opera ben documentata e critica nei confronti della “competizione” intesa come principio fondante delle società complesse.

[12] Molto interessante l’analisi condotta da Martha Nussbaum che mette in stretta correlazione alcune categorie fondamentali (istruzione, formazione, cittadinanza, diritti, democrazia, cosmopolitismo) con la centralità strategica della cultura umanistica: M.C. Nussbaum (2010), Not for Profit. Why Democracy Needs the Humanities, Princeton University Press, Princeton; si veda anche Cfr.F.Battistrada, Per un Umanesimo rivisitato. Da Scheler a Heidegger, da Gramsci  a Jonas, all’etica di liberazione, Jaka Book, Milano 1999.

[13] Basti pensare alla formazione di “gruppi di pressione” transnazionali – e di “comunità virtuali” – che si sono fatti “portatori” di istanze politiche e sociali fondamentali; allo sviluppo di movimenti di protesta e resistenza che sono riusciti ad organizzarsi e a diffondere, attraverso la Rete, le proprie opinioni; alla fondamentale opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica mondiale sui temi delle libertà e del rispetto dei diritti. La circolazione in tempo reale della conoscenza produce ulteriore conoscenza, e, quindi, “capacità di risoluzione dei problemi”. Sulle opportunità e i rischi del “villaggio globale” si veda l’originale lettura offerta da: C.Gubitosa, L’informazione alternativa. Dal sogno del villaggio globale al rischio del villaggio globalizzato, EMI, Bologna 2002.

[14] Si veda, in particolare, l’analisi di Y.Benkler (2006), The Wealth of Networks. How Social Production Transforms Markets and Freedom, trad.it., La ricchezza della Rete. La produzione sociale trasforma il mercato e aumenta le libertà, Università Bocconi Ed., Milano 2007.

 [15]  Cfr. M.Castells (2009), Communication Power, trad.it., Comunicazione e potere, Università Bocconi Editore, Milano 2009, p.60.

[16] Cfr. H.Marcuse (1964), The One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, trad. it. L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, p.22.

[17] Cfr. M.La Torre, Cittadinanza e ordine politico. Diritti, crisi della sovranità e sfera pubblica:una prospettiva europea, Giappichelli, Torino 2004.

[18] Si vedano in particolare: J. Rawls (1971), A Theory of Justice, trad.it. Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982; R.Dworkin (1978), Taking Rights Seriously, trad.it., I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna 1982; A.Sen (1992), Inequality Reexamined, trad.it., La diseguaglianza. Un riesame critico, Il Mulino, Bologna 1994;  N.Bobbio (1995), Eguaglianza e Libertà, Einaudi, Torino.

[19] Per avere un quadro di riferimento introduttivo al tema si veda W.Privitera, Sfera pubblica e democratizzazione, Laterza, Roma-Bari 2001, opera nella quale l’Autore prende in esame i diversi modelli di sfera pubblica e riflette criticamente sulla crisi della sovranità popolare nell’era della globalizzazione.

[20] Si pensi al dibattito contemporaneo sulla questione della democrazia e delle sue possibili derive (concetto di “postdemocrazia”), legate paradossalmente proprio alle maggiori opportunità (concetto di “poliarchia”) che la democrazia stessa definisce e determina. Si vedano in particolare: J.Dunn (2005);  L.Canfora (2004); G.Schiavone (2001); C.Crouch (2000); R.Dahl (1971) e (1998); G.Sartori (1992). Per un’introduzione al concetto, si rimanda alla voce curata dallo stesso Norberto Bobbio per il celebre Dizionario di politica, UTET, Torino (ed.1983 e 1990), diretto da N.Bobbio, N.Matteucci, G.Pasquino.

[21] Su queste tematiche si veda l’opera di M.C.Nussbaum (1997),op.cit.

[22] Il concetto di “grande altro” è legato a Lacan (che lo associa al Potere) ed è stato ripreso dal filosofo sloveno S.Žižek nell’opera Il Grande Altro. Nazionalismo, godimento, cultura di massa, Feltrinelli, Milano 1999.

[23] Cfr. H.Jonas (1979), Das Prinzip Verantwortung, Insel Verlag, Frankfurt am Main, trad.it. Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990.

[24] Sulla teoria dell’agire comunicativo, ma anche sul concetto di  razionalità, si veda l’importante opera di J.Habermas (1981), Theorie des kommunikativen Handelns, Bd.I Handlungsrationalität und gesellschaftliche Rationalisierung, Bd.II Zur Kritik der funktionalistischen Vernunft, Frankfurt am Main, Suhrkamp, trad.it. Teoria dell’agire comunicativo, Vol.I Razionalità nell’azione e razionalizzazione sociale, Vol.II Critica della ragione funzionalistica, Il Mulino, Bologna 1986.

[25] Sulle questione della frattura esistente tra Nord e Sud del sistena-mondo – una frattura che senza le politiche adeguate è destinata ad aggravarsi – si veda: I.Wallerstein (1995), After Liberalism, trad.it., Dopo il liberalismo, Jaka Book, Milano 1998.

[26] Si veda il concetto di “pragmatica della comunicazione” nel famoso testo di P.Watzlawick, J. Helmick Beavin, D.D.Jackson (1967), op.cit.; all’interno del quale, i tre studiosi, appartenenti al “Mental Research Institute” di Palo Alto, applicano la teoria della comunicazione allo studio delle interazioni personali.

[27]La necessità di una riflessione sull’etica si avverte in modo ancor più urgente all’interno del sistema (globale) dell’informazione, settore nevralgico per la vita dei moderni sistemi democratici. In un momento storico in cui le spinte globalizzanti sono divenute irresistibili ed in cui l’universo degli eventi notiziabili è in mano a poche grandi agenzie di stampa internazionali, non si capisce perché non si debba provare a riflettere sulla possibilità di formulare alcuni principi etici condivisi che abbiano una prospettiva universale. Occorre ribadire che il contesto ibrido e differenziato del sistema-mondo smaschera ancora una volta un’ambiguità di fondo, che puntualmente si presenta quando si affrontano argomenti di questo tipo: la certezza quasi positivistica che tutti i problemi di etica giornalistica o, comunque di etica dell’informazione possano essere risolti dalle sole regole scritte già esistenti. Regole scritte ed imposte “dall’alto”; regole che, peraltro, costituiscono in alcuni casi delle restrizioni della libertà di informare ed essere informati e che, troppo spesso, finiscono con l’essere violate. Lo straordinario potere dell’informazione di decretare l’universo “conoscibile” e degno di attenzione per le moltitudini richiede soluzioni complementari di altro genere. L’informazione che si internazionalizza “on line” necessita di sensibilità e competenze approfondite. Anche a questo livello, gli eventuali principi vanno discussi e accettati soltanto dopo un confronto dialettico tra i soggetti protagonisti,un confronto che in quest’epoca non può che essere transnazionale. Nella moderna “società dell’informazione” (e della conoscenza),  grazie alle nuove tecnologie informatiche, tutti gli attori sociali – e non soltanto i giornalisti o i cosiddetti media-men – ed i gruppi sono potenziali produttori di notizie (e non più soltanto “semplici” consumatori). A tal proposito, si fa sempre più complicato – per non dire, in molti casi, praticamente impossibile – il controllo dell’attendibilità delle fonti. Sono dunque sufficienti i vecchi codici deontologici ad abbracciare le attuali modalità della prassi comunicativa e la complessità delle nuove sfere di produzione simbolica? Evidentemente la risposta è negativa: le “vecchie” deontologie ed i “vecchi” codici, nati come tentativo di rendere scientifici (“esatti”, “positivi”) alcuni principi morali (ideali) considerati fondamentali, sembrano essere entrati in crisi. Detto in termini più espliciti, il tentativo di fare della morale una scienza “esatta” appare sempre più destinato al fallimento. E non è un caso che  sia nell’importante Risoluzione n°1003, adottata dal Consiglio d’Europa (1 luglio 1993) e relativa all’etica del giornalismo, che nella Carta dei doveri del giornalista (firmata a Roma in data 8 luglio 1993)  si faccia riferimento in  più punti – per la prima volta e con particolare enfasi – al concetto fondamentale di “responsabilità”, indissolubilmente legato alla libertà degli individui. Nella Carta del 1993 si afferma infatti, in modo chiaro ed inequivocabile, che “La responsabilità dei giornalisti verso i cittadini prevale sempre nei confronti di qualsiasi altra” e che “Il rapporto di fiducia tra gli organi di informazione e i cittadini è la base di lavoro di ogni giornalista”. Per ciò che riguarda, più specificamente, il contesto italiano c’è da dire che proprio in quest’ottica sono stati elaborati, negli anni passati alcuni, alcuni documenti di autodisciplina (Sole 24Ore nel 1987 e la Repubblica nel 1990) che purtroppo vengono spesso disattesi, in nome del diritto/dovere di cronaca e della “completezza” dell’informazione. Tuttavia, con una maggiore coscienza della complessità delle problematiche in questione, si inizia a prendere atto che è urgente una riflessione su alcuni principi etici fondanti; lo ripetiamo per l’ennesima volta che parlare soltanto di “regole scritte” (imposte), di diritti e doveri inviolabili non ha più senso o, per lo meno, i codici scritti vanno integrati lavorando a fondo sulla consapevolezza delle conseguenze – e quindi sulla formazione dei “nuovi” giornalisti – che i processi informativi e comunicativi comportano, ormai, a livello globale. Cfr. G.M.Fara, Etica e informazione, Vallecchi, Firenze 1992; N.Delai, A.Papuzzi, G.Piana, Informazione/comunicazione. Molti soggetti per un’etica mass-mediale, Cittadella, Assisi 1997.

[28] Cfr. F.Ferrarotti, Una fede senza dogmi, Laterza, Roma_Bari 1990; in questa linea di pensiero c’è anche chi enfatizza il concetto di “religione civile”: G.E.Rusconi, Possiamo fare a meno di una religione civile ?, Laterza Roma-Bari 1999.

[29] Cfr. E.Morin, É.-R.Ciurana, D.R.Motta (2003), Éduquer pour l’ère planétaire.La pensée complexe comme Méthode d’apprentissage dans l’erreur et l’incertitude humaines, trad.it., Educare per l’era planetaria. Il pensiero complesso come metodo d’apprendimento, Armando, Roma 2004.