Oltre lo storytelling: il Sociale, il digitale e “la Persona al centro”

La prima ragione della servitù volontaria è l’abitudine

Étienne de La Boétie

I diritti non sono che parole vane per chi non ha i mezzi per farli valere

Giuseppe Mazzini

La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita

Ernesto Rossi e Altiero Spinelli

 

Non prevedo mai un tempo di lettura…ma spero possa interessarvi ugualmente #CitaregliAutori

 

Da tanti anni continuiamo ad affrontare (?) questioni complesse, e di rilevanza assolutamente strategica per l’evoluzione e la crescita reale di questo Paese (e del Sistema-mondo, dal momento che appare evidente, ormai, come tutto sia interdipendente!), oltre che continuando a riprodurre sistematicamente, anche nelle istituzioni educative e formative, quello che ho definito – in tempi  non sospetti – l’ “errore degli errori” (la confusione tra “sistemi complicati” e “sistemi complessi”– cfr. Dominici P., 1995-1996 e sgg.),  seguendo logiche e strategie di breve periodo e, soprattutto, indossando, di volta in volta, diversi tipi di ‘lenti riduzionistiche’ e nella convinzione, quasi dogmatica, di poter “semplificare tutto”, anche ciò che non è semplificabile (cit.). Processi e dinamiche attivati, non soltanto a livello di discorso pubblico e di comunicazione politica, ma anche di narrazioni e/o storytelling: uno storytelling, sempre più sofisticato e raffinato, talvolta alimentato anche da studiose/i ed esperte/i.

All’interno, in ogni caso, di un dibattito pubblico segnato da una profonda polarizzazione (serie di polarizzazioni), che di certo non produce come effetto – e non ha come obiettivo –  quello del far comprendere e, men che meno, quello dell’approfondimento.

Anche tra coloro che, per lavoro/professione/vocazione (?), studiano e fanno ricerca, si tende a seguire/cavalcare temi, questioni, mode e trends del momento, più per essere sempre presenti nel racconto mediatico e dei social, che per fornire un contributo (concretamente) costruttivo e generativo; ma, soprattutto, si dibatte di tutto nella presunzione di poter essere “esperte/i di tutto” .

Nuove narrazioni e uno storytelling che rappresentano, di fatto, gli strumenti comunicativi (?) – le strategie, per essere più precisi – essenziali della nuova egemonia culturale, sia a livello organizzativo che di sistemi sociali. A tal proposito, spesso si dice: è un problema di storytelling e/o di comunicazione.

Ho la netta impressione che sia il contrario: forse si fa troppo (e si punto tutto su) storytelling – oltre a confondere la comunicazione con il marketing e la propaganda – e si crede che certi tipi di narrazione possano perfino sostituire la cd. realtà dei fatti e della prassi sociale (ma ci torneremo…).

Questioni complesse come l’educazione, la formazione, la cittadinanza e l’inclusione, la cittadinanza digitale (?) e le cd. agende digitali, già di per sé segnate da ambivalenza e contraddizione, sono state tematizzate, spiegate, affrontate – non soltanto in termini di scelte politiche – ricorrendo ad approcci tradizionali (per non dire altro…), fondati su riduzionismi e determinismi, su retoriche e parole-etichetta, oltre che su strategie di breve periodo che, molto spesso, coincidono con le logiche del controllo e dell’emergenza. E – mi ripeto – nel quadro di una reiterata confusione tra “sistemi complicati” (meccanismi) e “sistemi complessi” (organismi), di cui parlavo e dibattevo già alla metà degli anni Novanta.

Ma ripartiamo da quello che ho sempre considerato un “dato di fatto” e su cui peraltro ho lavorato a lungo in questi anni:

“[…]la stretta, strettissima, intima correlazione esistente tra comunicazione e complessità, tra comunicazione e organizzazione e, ancor di più, tra comunicazione e cittadinanza, tra comunicazione e democrazia; ma anche tra democrazia e visibilità/pubblicità/trasparenza/condivisione del potere” (ibidem)

E, nel far questo, mi piace sempre ricordare Norberto Bobbio (1995, 1*ed.1984) quando definisce la democrazia “come il governo del potere pubblico in pubblico”, riconoscendo nella “pubblicità” – opposta al “segreto” – uno dei cardini fondamentali della democrazia. Tuttavia, pur nella loro riconosciuta, oltre che basilare, importanza, i principi di visibilità e pubblicità servono a garantire (almeno dovrebbero…) “informazione” da parte della Pubblica Amministrazione verso i cittadini, ma non contemplano l’opportunità della “comunicazione” per/con i medesimi (->reciprocità/simmetria); dal momento che la comunicazione è “processo sociale complesso di condivisione della conoscenza” (def. del 1996) che implica accesso, trasparenza, simmetria, condivisione, impegno, coinvolgimento, negoziazione, partecipazione.

Tuttavia, non è inutile ribadirlo, affinché si verifichino (almeno) le condizioni dei principi/valori appena elencati (la loro traduzione operativa risulta ancora più complicata), è necessario che il processo comunicativo – sia a livello di comunicazione interpersonale, che di comunicazione organizzativa e dei sistemi sociali (in questa caso dallo Stato ai cittadini -> sfera pubblica) – coinvolga cittadini consapevoli con menti critiche e aperte,  teste ben fatte (cfr. Montaigne, poi Morin ->ruolo strategico di educazione e formazione), informati e competenti (non soltanto dal punto di vista “tecnico”), capaci di riconoscere e creare “connessioni” tra le variabili/i fenomeni. Perché – mi si passi quello che può sembrare uno slogan ma, almeno per chi scrive, non lo è – si può essere “sudditi” anche in democrazia…non conoscendo i propri diritti/doveri (la linea di confine tra cittadinanza e sudditanza è estremamente sottile); non conoscendo gli strumenti e i canali; non essendo sufficientemente alfabetizzati e (appunto) “competenti” per partecipare attivamente alla costruzione di una sfera pubblica autonoma, in grado di fare pressione sulla Politica e sul “Sovrano”(potere) e di incidere sui processi decisionali.

 

Le Persone, la Cittadinanza e il Sociale

A tali dimensioni problematiche, si aggiunga l’urgenza di capire se dietro la Società interconnessa/iperconnessa e l’economia della condivisione (Dominici P., 1998 e 2014), che sembrano, potenzialmente, in grado di garantire maggiori opportunità di un’eguaglianza delle condizioni di partenza per tutti gli attori sociali (senza tale pre-requisito come ripeto da anni – ogni discorso sulla meritocrazia e sulla centralità del Cittadino è soltanto “pura retorica”, peraltro ingannevole), non si nasconda in realtà anche il rischio di un ulteriore indebolimento del tessuto connettivo dei sistemi sociali e di una passività generalizzata da parte di individui (persone/attori sociali) sempre più interconnessi ma, in concreto, non abilitati ad essere protagonisti proattivi delle dinamiche innescate dal cambio di paradigma dettato dall’avvento del digitale (1996). Siamo di fronte ad un’apatia sociale, non soltanto politica, temuta e analizzata da numerosi classici delle scienze politiche e sociali e che trova conferme anche nel preoccupante fenomeno dell’astensionismo e, più in generale, della mancata partecipazione alla vita della πολις (polis) e della comunità. Una mancata partecipazione evidentemente riconducibile anche ad altre variabili.

Lo scenario risulta, inoltre, quanto mai complicato e di difficile lettura anche, e soprattutto, perché Scuola e Università non svolgono più da tempo la loro funzione essenziale di “ascensori sociali” e di “dispositivi” complessi in grado di costruire socialmente le Persone e i cittadini, di tessere la fitta trama di un civismo e di una coscienza collettiva, di un’identità e di un’etica condivisa, ormai, smarrite.

Ma il pericolo concreto è anche quello di un’omologazione culturale, vero e proprio terreno fertile per una civiltà della sorveglianza e del controllo sociale totale, in grado di ridurre ulteriormente la sfera dei diritti ed i margini di libertà del cittadino (concetto relazionale), ormai socialmente e politicamente riconoscibile soprattutto come consumatore.

Ciò nonostante, l’importanza del tessuto sociale, della qualità del “capitale sociale”, dei meccanismi e dei movimenti, delle forme di cooperazione e associazionismo, che oggi potrebbero trovare, nella Rete, l’infrastruttura e l’ecosistema fondamentale per autoriprodursi e intensificare i legami, proprio all’interno di reti che si riproducono all’infinito (si pensi al concetto di autopoiesi), non è in discussione.

Da sottolineare, inoltre, come il riconoscimento del valore della trasparenza avvenuto, ormai definitivamente, non soltanto a livello legislativo, spinga sempre più le stesse organizzazioni complesse (pubbliche e private) a ricercare una configurazione come “sistemi sociali aperti” (organismi), in grado di gestire (?) al meglio le dimensioni di una complessità (conoscenza) del tutto particolare come quella Sociale e Umana; aprendosi all’ambiente e, allo stesso tempo, ridefinendo il paradigma della sicurezza. Di conseguenza, tali processi implicano un ripensamento complessivo dei modelli organizzativi, del concetto stesso di “comunicazione” e, più in generale, l’esigenza forte di quella che, più volte in passato, abbiamo evocato come “nuova cultura della comunicazione”. Per provare ad “abitare la complessità” (ibidem), dal momento che “gestirla” è – a mio avviso – una “contraddizione in termini”.

Nella consapevolezza della complessità e della interdipendenza dei fenomeni trattati, l’analisi delle attuali sfide della cittadinanza (globale) e, nello specifico, della cittadinanza digitale, deve fare i conti con alcuni presupposti riguardanti il nuovo ecosistema (1996) e le mille implicazioni della cd. società/economia della conoscenza. Proviamo a partire da una possibile definizione:

«La società interconnessa è una società ipercomplessa, in cui il trattamento e l’elaborazione delle informazioni e della conoscenza sono ormai divenute le risorse principali; un tipo di società in cui alla crescita esponenziale delle opportunità di connessione e di trasmissione delle informazioni, che costituiscono dei fattori fondamentali di sviluppo economico e sociale, non corrisponde ancora un analogo aumento delle opportunità di comunicazione, da noi intesa come processo sociale di condivisione della conoscenza che implica pariteticità e reciprocità (inclusione). La tecnologia, i social networks e, più in generale, la rivoluzione digitale, pur avendo determinato un cambio di paradigma, creando le condizioni strutturali per l’interdipendenza (e l’efficienza) dei sistemi e delle organizzazioni e intensificando i flussi immateriali tra gli attori sociali, non sono tuttora in grado di garantire che le reti di interazione create generino relazioni, fino in fondo, comunicative, basate cioè su rapporti simmetrici e di reale condivisione. In altre parole, la Rete crea un nuovo ecosistema della comunicazione ma, pur ridefinendo lo spazio del sapere, non può garantire, in sé e per sé, orizzontalità o relazioni più simmetriche. La differenza, ancora una volta, è nelle persone e negli utilizzi che si fanno della tecnologia, al di là dei tanti interessi in gioco»[1].

 

Il cambiamento sociale e culturale: “prodotto” complesso di processi e meccanismi “dal basso” (Educazione)

Viviamo oltretutto, all’interno di un orizzonte socioculturale, di prospettive – di discorso e azione – ma, soprattutto, di strategie (di breve periodo) tuttora fondate su una consapevolezza assolutamente parziale della multidimensionalità, dell’ambiguità e dell’imprevedibilità (sistemica) che, da sempre, contraddistinguono i processi di innovazione e cambiamento.

Una consapevolezza, spesso soltanto dichiarata, che porta a ridurre, talvolta banalizzare, gli stessi concetti di comunicazione, organizzazione, condivisione, inclusione, cittadinanza, democrazia.

Con il rischio, tra i tanti, di determinare, in maniera irrecuperabile, le condizioni strutturali di un’innovazione tecnologica senza cultura. Anche su questo aspetto siamo tornati a più riprese. Ci limitiamo a ribadire che parlare di inclusione, cittadinanza, democrazia digitale senza tentare almeno di contrastare fenomeni e processi che le rendono difficilmente realizzabili (ostacolando l’innovazione aperta e inclusiva), equivale al legittimare i meccanismi di un contesto storico sociale sempre più segnato da disuguaglianze di carattere conoscitivo e culturale che definiscono in maniera netta la stratificazione sociale, anche a livello globale.

In fondo – mi ripeto – lo stesso discorso può essere sviluppato per la questione – assolutamente importante – del “merito” che, pur nella sua centralità, se non viene incrociato con altre variabili rischia di essere e di riguardare il merito di coloro che hanno più opportunità in partenza di accesso all’istruzione, alla conoscenza, alla cultura. Si pensi, in tal senso, a variabili complesse come la “povertà educativa” e/o l’analfabetismo funzionale, per troppo tempo sottovalutate e poco “narrate”, oltre che poco visibili mediaticamente.

(Ancora, non è inutile ribadirlo) Finché non sarà garantita l’eguaglianza delle condizioni di partenza, parlare di “merito”, di “meritocrazia”, ma anche di “cittadinanza” e “inclusione”, rischia di diventare un esercizio puramente retorico. In tempi non sospetti, abbiamo proposto la definizione di “Società Asimmetrica”(2003), proprio in una fase estremamente delicata di mutamento, in cui le narrazioni egemoni sulla Rete e sulla rivoluzione digitale presentavano, quasi in termini di nesso di causalità, la relazione tra digitale e partecipazione, tra digitale e fiducia – tuttora confusa, non soltanto in politica, sia con la popolarità on line che con una certa idea/visione di “immagine” e “reputazione” – tra digitale e inclusione; infine, tra digitale e cittadinanza.

E, nel prendere atto di questo ritardo culturale, non possiamo non ribadire con forza una nostra vecchia formula: non bastano “cittadini connessi”, servono cittadini criticamente formati e informati, educati al pensiero critico ed alla complessità, educati alla cittadinanza e non alla sudditanza. Educati ad una cittadinanza (stesso discorso vale per la costruzione sociale di una cultura della legalità e/o di una cultura della prevenzione: si costruiscono a scuola!) che – bene esser chiari – è fatta di diritti, che devono essere conosciuti (-> ruolo strategico della comunicazione – sempre confusa con il marketing – intesa come semplificazione, condivisione, accesso, trasparenza, servizio, inclusione etc.), ma anche di doveri.

In ogni caso, occorre agire e intervenire, con una certa urgenza, là dove si definiscono le condizioni strutturali di questa società diseguale (scuola e università); là dove si producono, elaborano, distribuiscono informazioni e conoscenza, le “vere” risorse strategiche del nuovo ecosistema. Con la centralità posta sui processi educativi e formativi. La libertà comporta responsabilità significative di cui non dobbiamo avere paura. E per (almeno) tentare di realizzare tutto ciò, solo e soltanto nel lungo periodo, istruzione ed educazione devono preoccuparsi di formare Persone e Cittadini in grado di sfruttare le opportunità determinate dall’innovazione tecnologica ma anche, e soprattutto, di contribuire ad un cambiamento sociale e culturale che non può non fare i conti con la famosa “questione culturale” e l’assenza di un’etica pubblica condivisa.

D’altra parte, una cittadinanza “vera”, attiva e partecipe del bene comune e, più in generale, il cambiamento culturale sono sempre il “prodotto” complesso, da un lato, di processi e meccanismi sociali che devono partire “dal basso”, dall’altro, dell’azione di quella società civile e di quella sfera pubblica, attualmente assorbite e fagocitate dalla politica, che ha tolto loro autonomia.

Servono politiche (lungo periodo) progettate e realizzate con una prospettiva sistemica (dimensione assente). Altrimenti, serviranno a poco anche agende digitali, processi inclusivi, piattaforme e dinamiche (concretamente) costruite nella logica della partecipazione, attivate da una Pubblica Amministrazione – questa la speranza e l’auspicio – divenuta, nel frattempo, sempre più trasparente ed efficiente. Il rischio – lo ripetiamo – è quello di costruire una cittadinanza/democrazia senza cittadini che è in grado di includere solo chi ha strumenti ed è capace di produrre/elaborare/condividere conoscenza.

La “Persona al centro”, il “Cittadino al centro” e l’urgenza di una nuova cultura della comunicazione (1996)

L’innovazione tecnologica è da sempre un fattore strategico di cambiamento dei sistemi sociali e delle organizzazioni ma, se non supportata da una cultura della comunicazione, da una visione sistemica della complessità e, a livello di decisore politico, da politiche sociali in grado di innescare e supportare il cambiamento culturale, si rivelerà sempre un’innovazione mancata.

La cd. “società della conoscenza” e il nuovo ecosistema globale sono destinati a diventare sempre più esclusivi e chiusi, anche in quei “luoghi” in cui non è ancora possibile erigere muri e barriere per gestire (?) la diversità, le disuguaglianze e i conflitti. La “Società Asimmetrica”, apparentemente aperta e inclusiva, in realtà garantisce opportunità di inclusione e mobilità solo in linea teorica e a livello di quadro giuridico di riferimento.

Parafrasando (e forzando) alcune parole, particolarmente significative, di Adriano Olivetti, il quale affermava “Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”, dobbiamo iniziare veramente a pensare/immaginare (progettare) le città, i territori, gli ecosistemi, le reti, le pubbliche amministrazioni, i servizi etc. per (e con) il Cittadino e non viceversa; servizi, ambienti, spazi sociali che pongano concretamente, al di là degli slogans, “il Cittadino al centro” (da sempre, preferisco parlare di “Persona al centro” – Persona come sistema e relazione -per tutta una serie di motivi su cui ritorneremo), mentre spesso l’impressione è che al centro ci sia ben altro, compreso lo stesso storytelling (da mezzo a fine) e le strategie di marketing.

L’impressione è che “al centro” ci siano soltanto lo scontro tra culture organizzative e tra saperi/competenze messe in condizioni di non cooperare e di non collaborare; ancora, l’impressione è che “al centro” ci siano differenti concezioni, culture e modelli della burocrazia, delle istituzioni, dello Stato, della Pubblica Amministrazione – nel frattempo, mai diventata “relazionale” – e, più in generale, dell’organizzazione: e, da questo punto di vista, sarebbe senz’altro perfino legittimo, oltre che più esatto e corrispondente alla realtà, parlare di “istituzioni al centro”, di “PA al centro”, di “organizzazione al centro”, perfino di “digitale al centro”; ma probabilmente sarebbero formule meno accattivanti, efficaci e persuasive.

Al di là di tutte le criticità, una Pubblica Amministrazione efficiente rappresenta senz’altro una “leva” strategica del cambiamento. Infine, l’impressione è che “al centro” ci siano la tecnologia (opportunità), le logiche di potere e di controllo, sempre più dominanti, gli interessi particolari, ma anche una visione ideale, e lontana dalla realtà, proprio dei cittadini destinatari di politiche e servizi; cittadini che, soltanto una volta educati e “preparati” alla cittadinanza, potranno anche essere (concretamente!) sempre più coinvolti nei processi decisionali.

Ma usare formule come “il cittadino al centro”, “il consumatore al centro”, “il cliente al centro”, “l’elettore al centro”, “la Persona al centro”, “l’internet delle persone”, “la centralità dell’ascolto”, il “nuovo umanesimo” etc. – attualmente perfino inflazionate, e non soltanto nel linguaggio pubblicitario, mediatico e politico – a meno che, come spesso accade, non le si consideri soltanto “etichette”/parole-chiave di successo (al pari di tanti altri concetti, sempre più spesso richiamati in qualsiasi tipo di testo, come complessità, multidisciplinarietà, visione sistemica, intelligenza collettiva, pensiero critico, ecosistemi, disintermediazione, resilienza, smart, “problema culturale”, innovazione aperta, gestione del cambiamento, engagement, processi orizzontali, imprese a rete, sharing economy, economia della condivisione etc.), significa realizzare servizi, strategie, politiche – ma anche applicazioni, siti, piattaforme, spazi pubblici etc. – concretamente immaginati e progettati sui e con i destinatari, qualunque sia la loro “natura”: persone, cittadini, clienti, elettori etc.

La questione centrale, come vado ripetendo da anni, non riguarda il fattore giuridicononostante le evidenze, continuiamo a credere che le leggi, e soltanto le leggi, siano l’unica soluzione ai problemi – o quello tecnologico in sé (digitale = efficienza, digitale = inclusione, digitale = inclusione/partecipazione/democrazia), bensì l’educazione, la formazione, la ricerca, il capitale umano (conoscenze, competenze, aggiornamento continuo etc.), le culture organizzative e i relativi modelli, le Persone che costituiscono le organizzazioni (sistemi sociali), alimentandone i flussi informativi e conoscitivi, modificandone costantemente spazi e processi: sì, proprio quelle Persone che possono resistere, contrastare o agevolare il cambiamento, accompagnare dinamiche e processi che non possono non destabilizzare e rendere dinamici ecosistemi che sono statici e (apparentemente) in equilibrio.

Diciamocelo chiaramente: per ora, siamo fermi all’illusione di una relazione meno asimmetrica con il potere, la politica e le istituzioni; per ora, siamo fermi ad un’immagine ideale, e idealizzata, del Cittadino e del Consumatore per i quali pensiamo e realizziamo strutture, servizi, modelli e pratiche partecipative che, al di là delle narrazioni, risultano sempre “calati dall’alto”; per ora, siamo fermi alla convinzione che il (continuo) ricorso alle leggi e alla tecnologia siano le uniche soluzioni ai problemi organizzativi, sociali e culturali di un Paese (stesso discorso si potrebbe fare per altri Stati-nazione) che – come più volte ripetuto – vive una crisi soprattutto culturale e di civiltà.

Un Paese sempre più alla ricerca anche, e soprattutto, di un’identità, oltre che di un rilancio economico (sociale e culturale, ancor prima), magari con un ruolo da protagonista (?), nell’economia digitale e dell’immateriale.

Un Paese che, al contrario, sembra trovarsi in una condizione di costante navigazione a vista, all’interno della quale ci stiamo forse accorgendo anche di tante false e fuorvianti narrazioni – e relativo storytelling – sul digitale, sull’inclusione, sulle riforme a costo zero (vecchissimo tema) e su un’innovazione inclusiva (Dominici 2000 e sgg.), raccontata come un’opportunità per tutti e a portata di mano: per ora, invece, siamo di fronte ad un’innovazione fondata sul principio di esclusività.

Con le seguenti aggravanti: 1) la poca consapevolezza che non può /non potrà esserci alcuna “cittadinanza digitale” senza garantire le condizioni e i prerequisiti della cittadinanza (rinvio ad altri contributi, anche datati, sui temi dell’educazione, dell’istruzione, della costruzione sociale della Persona e del Cittadino); 2) allo stesso modo, la poca consapevolezza che non ci possa/non ci potrà essere alcuna (vera!) partecipazione senza Cittadini consapevoli e criticamente educati/formati; 3) il grave ritardo nella “cultura della comunicazione” (comunicazione è complessità, è organizzazione, è cittadinanza, scrivevo alla metà degli anni Novanta) di questo Paese che continua a fare confusione, a livello organizzativo e sistemico, tra comunicazione e mezzi di comunicazione, tra comunicazione e connessione, tra comunicazione e marketing, tra comunicazione e informazione, tra informazione e conoscenza, tra tecnologia e metodologia, tra informatica e digitale etc. Con tutte le conseguenze del caso. Non ultime, quelle di Persone, Cittadini, consumatori, elettori che, contrariamente allo storytelling egemone, sono ben “lontani dal centro” dei servizi, dei processi, delle strategie, delle politiche (?) adottate.

 

Ripropongo alcune idee da sviluppare:

1)   promozione di programmi formativi mirati ad eliminare il gap tra il profilo del cittadino “reale” e quello “ottimale” (asimmetrie, cultural divide, questioni legate a cittadinanza e inclusione);

2)   promozione di programmi formativi mirati a ridurre/eliminare il digital divide e il cultural divide (sottovalutato) all’interno delle Pubbliche Amministrazioni; investire su formazione mirata e qualificazione dei dipendenti pubblici.

3)   Investire su formazione (non soltanto “tecnica”) e qualificazione del personale docente delle scuole;

4)   Investire (concretamente, e invertendo il trend degli ultimi anni) su ricerca e università, ridefinendo sia i percorsi didattico-formativi, troppo ancorati a vecchie logiche, che l’intero sistema di valutazione della didattica e della ricerca

5)   Promuovere l’uso di piattaforme collaborative e l’adozione di software open-source

6)   Promuovere progetti di social-networking

7) Rilanciare studi e ricerca anche in ambito umanistico e politico-sociale, al fine di porre le basi concrete per una cultura agente di cittadinanza e democratizzazione, oltre che fattore strategico di rilancio dell’economia.

 

 

N.B. Condividete e riutilizzate pure i contenuti pubblicati ma, cortesemente, citate sempre gli Autori e le Fonti anche quando si usano categorie concettuali e relative definizioni operative. Condividiamo la conoscenza e le informazioni, ma proviamo ad interrompere il circuito non virtuoso e scorretto del “copia e incolla”, alimentato da coloro che sanno soltanto “usare” il lavoro altrui.

Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle scorrettezze ricevute. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da tanti anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede. Buona lettura!

Immagine di copertina: opera di Jacek Yerka

[1] Cfr.P.Dominici, Dentro la Società Interconnessa. Prospettive etiche per un nuovo ecosistema della comunicazione, FrancoAngeli, Milano 2014, p.9.