In questi giorni, con una copertura mediatica praticamente inesistente, soprattutto se rapportata all’importanza delle questioni trattate (libertà di informare ed essere informati -> CITTADINANZA vs SUDDITANZA -> democrazia – rimando ad un vecchio post sulla relazione tra comunicazione e cittadinanza http://bit.ly/RoRScn), è in discussione l’approvazione della nuova legge sulla diffamazione. Come scrivevo già alla fine degli anni Novanta, anche nel caso della diffamazione, non servirebbero (non sarebbero servite…) nuove leggi e/o nuovi codici deontologici…si tratta di questioni che chiamano in causa i concetti stessi di libertà e responsabilità (correlazione “forte”), ma anche quelli di formazione e consapevolezza. Non soltanto, a mio avviso, la legge è sbagliata per diverse ragioni – lo spiegano molto bene Luca De Biase http://bit.ly/1BBgWOy e Arturo Di Corinto http://bit.ly/1HA9yXa e http://bit.ly/1BBwRfL – e sembra corrispondere più ad un tentativo di controllo dell’informazione e della Rete (e delle opinioni alternative — una vecchia teoria parlava di “spirale del silenzio”); ma, a mio avviso, rappresenta anche, e soprattutto, l’ennesima conferma di una mentalità diffusa di questo Paese convinto di risolvere tutto esclusivamente con il ricorso al Legislatore. Un Paese che, ai limiti del paradosso, è fondato culturalmente sul “principio di irresponsabilità” (Dominici 2003 e 2009), oltre che su una diffusa incoerenza dei comportamenti (ricordo sempre la formula ETICA vs ETICHETTA); un’irresponsabilità diffusa in tutti i settori, non soltanto in quello della comunicazione e dell’informazione, vera cifra della “questione culturale”, che legittima chi aggira le leggi, le regole e, perfino, le norme sociali condivise (cultura della furbizia). Si pensi, in tal senso, anche alla metastasi della corruzione che, come la cronaca degli ultimi decenni ha messo in luce, coinvolge non soltanto la cd. “casta”, bensì ampi settori della società civile che, probabilmente, continuano a credere nonostante tutto di poter avere vantaggi dalla “casta” stessa; un’irresponsabilità che si articola anche in comportamenti eticamente scorretti e non attenti neanche al principio di precauzione. Dunque, un’irresponsabilità diffusa che rende socialmente accettabile la violazione di leggi e norme. Accade così che la soluzione ai problemi, per certi versi inevitabile (ma, evidentemente, non è l’unica strada percorribile), sia sempre la medesima: il continuo ricorso a leggi e normative sempre più rigide e stringenti: intendiamoci bene, si tratta in molti casi di condizioni necessarie, addirittura fondamentali ma, come ampiamente dimostrato dalla storia sociale, politica ed economica di questo Paese, si tratta di condizioni/fattori non sufficienti. E così, anche nel settore dell’informazione e della comunicazione (particolarmente delicato), si crede di risolvere tutto con l’ennesima legge (con relative sanzioni e divieti), sempre all’insegna della vecchia logica dell’emergenza (così in tutte le aree della prassi sociale).
Una logica che, in questo caso, mette in discussione la stessa libertà di informare ed essere informati e, aspetto cruciale affinché si possa anche soltanto parlare di democrazia, di raccontare/denunciare “fatti” e realtà “scomode” per il potere, cioè per chi ha la responsabilità delle decisioni e, ancor di più, del Bene Comune, dell’interesse generale.
Ma sia chiaro – per non essere frainteso – il reato di diffamazione va punito – e le persone coinvolte possono già ricorrere alle vie legali – ma non con nuove norme e sanzioni che sembrano avere soprattutto l’obiettivo di “mettere paura” a ricercatori, giornalisti, blogger, cittadini poco “controllabili”, “voci fuori dal coro” educate alla cittadinanza e non alla sudditanza…(spero davvero di essere smentito nei fatti). I rischi di restrizione della libertà di informare e comunicare (processi complessi che richiedono formazione, consapevolezza, responsabilità), perfino di una censura, sono sempre dietro l’angolo…neanche troppo.
Approfitto per riproporre un mio vecchio articolo del 1997 in cui, pur non occupandomi nello specifico del reato di diffamazione, ponevo già allora diverse questioni, tuttora attuali, tra le quali quella del rischio del ricorso a nuove leggi e regole scritte che avrebbero rappresentato, di fatto, delle restrizioni della fondamentale libertà di informare ed essere informati…cioè di essere CITTADINI!
P.S. Mi scuso con chi lo avesse già letto, si tratta di un contributo (credo) utile anche per evidenziare come le questioni di fondo siano sostanzialmente le stesse; eppure, a distanza di anni, non sono state ancora risolte: perché, anche in questo caso, la questione è culturale e il semplice, pur necessario, ampliamento del quadro legislativo e normativo non è mai stato, non è e non sarà mai sufficiente.
Di seguito Il link al testo della petizione per chiedere di bloccare l’approvazione della nuova legge sulla diffamazione http://nodiffamazione.it/
L’etica ed il giornalismo: dai diritti-doveri alle responsabilità (articolo del 1997)
di Piero Dominici
La necessità di una riflessione sull’etica si avverte in modo ancor più urgente nel mondo della carta stampata e del giornalismo radiotelevisivo, settori nevralgici per la vita dei moderni sistemi democratici. In un momento storico in cui le spinte globalizzanti sono divenute inarrestabili (si parla di globalizzazione dell’economia, della cultura e delle informazioni) ed in cui l’”universo” degli eventi notiziabili è in mano a poche grandi agenzie di stampa internazionali, non si capisce perché non si debba provare a riflettere sulla possibilità di formulare alcuni principi etici condivisi che abbiano una prospettiva universale. Occorre ribadire con forza che non servono ulteriori regole scritte ed imposte “dall’alto” – regole che, peraltro, costituiscono in alcuni casi delle restrizioni della libertà di informare ed essere informati e che troppo spesso finiscono con l’essere violate – , bensì principi discussi e accettati soltanto dopo un confronto dialettico tra i soggetti protagonisti. Oggi peraltro, grazie alle nuove tecnologie informatiche, tutti gli attori sociali – e non soltanto i giornalisti o i cosiddetti media-men – ed i gruppi sono potenziali produttori di notizie (e non più soltanto “semplici” consumatori). E ciò sta modificando assetti e gerarchie. A tal proposito, si fa sempre più complicato – per non dire, in molti casi, praticamente impossibile – il controllo dell’attendibilità delle fonti. Sono dunque sufficienti i vecchi codici deontologici ad abbracciare le attuali modalità della prassi comunicativa e la complessità delle nuove sfere di produzione simbolica? Evidentemente la risposta è negativa: le “vecchie” deontologie ed i “vecchi” codici, nati come tentativo di rendere scientifici (“esatti”, “positivi”) alcuni principi morali (ideali) considerati fondamentali, sembrano essere entrati in crisi. Detto in termini più espliciti, il tentativo di fare della morale una scienza “esatta” pare destinato al fallimento. E non è un caso che, sia nell’importante Risoluzione n°1003, adottata dal Consiglio d’Europa (1 luglio 1993) e relativa all’etica del giornalismo, che nella Carta dei doveri del giornalista (firmata a Roma in data 8 luglio 1993) si faccia riferimento in più punti – per la prima volta e con particolare enfasi – al concetto fondamentale di responsabilità, indissolubilmente legato alla libertà degli individui. Nella Carta del 1993 si afferma infatti, in modo chiaro ed inequivocabile, che “La responsabilità dei giornalisti verso i cittadini prevale sempre nei confronti di qualsiasi altra” e che “Il rapporto di fiducia tra gli organi di informazione e i cittadini è la base di lavoro di ogni giornalista”. Tra l’altro, è proprio in quest’ottica che sono stati elaborati negli anni passati alcuni documenti di autodisciplina (Sole 24Ore nel 1987 e la Repubblica nel 1990). Con una maggiore coscienza della complessità delle problematiche in questione (comunicazione è processo complesso e non soltanto “tecnica”- o insieme di tecniche – per raggiungere un obiettivo) si inizia a prendere atto che è urgente una riflessione su alcuni principi etici fondanti; parlare soltanto di regole scritte (imposte), di diritti e doveri inviolabili non ha più senso o, per lo meno, i codici scritti vanno integrati lavorando a fondo sulla consapevolezza delle conseguenze che i processi informativi e comunicativi comportano e, quindi, sulla formazione dei “nuovi” giornalisti (e di coloro che, nei diversi settori, produrranno e si occuperanno di comunicazione). Il giornalismo (e, più in generale, la comunicazione) ha avuto un ruolo decisivo nello sviluppo della vita democratica e nel processo di formazione di un’opinione pubblica informata (cittadinanza) e consapevole dei propri diritti e dei propri doveri (problema delle asimmetrie). La più volte riecheggiata “morte di Dio”, decretata dal pensiero del Novecento, la frammentazione ed il relativismo radicale dei mondi intersoggettivamente condivisi e dei valori, l’approfondimento e la specializzazione dei diversi campi del sapere sono ormai “dati di fatto” che non possono essere più ignorati, anche perché, oltre ad aver esaltato il valore superiore della tolleranza, hanno soprattutto messo in discussione – a tutti i livelli della conoscenza umana – il concetto di verità. Questo “nostro” secolo ha decostruito ogni certezza ed ogni dogma: parlare di “verità” o, nel caso del giornalismo, di obiettività è divenuta un’operazione quanto mai difficile, per non dire audace; gli unici elementi che sembrano poter sopravvivere al relativismo delle scienze e delle esperienze sono appunto la comunicazione e l’informazione. Pertanto, le conoscenze, le verità e le esperienze hanno certamente il diritto di essere relative, ma ciò che sopravvive a questo diritto è il dovere della comunicazione e, quindi, dell’informare, favorendo l’accesso e la condivisione. In particolare, la professione giornalistica si trova a dover fare i conti con diversi problemi: (a) i rapporti con il potere politico – che la Rete sta già ridisegnando – e con quello economico (pubblicità) (b) la concorrenza della televisione e la cosiddetta teledipendenza (c) l’avvento di Internet e delle nuove tecnologie informatiche (nuove “forme” di distribuzione della conoscenza, nel lungo periodo) (d) il sensazionalismo e la ricerca dello scoop a tutti i costi (e) la tutela degli individui e della loro privacy (legge 675/96). A tal proposito, i recenti e tragici fatti di cronaca (si potrebbero fare molti esempi) hanno drammaticamente riproposto all’attenzione, non soltanto degli “addetti ai lavori” ma dell’opinione pubblica in genere, proprio le questioni centrali del rispetto della privacy e della dignità delle persone e, soprattutto, della tutela dei minori (si vedano, in particolare, la Carta di Treviso e la Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia).Tali questioni richiedono “nuove” responsabilità ed una consapevolezza maggiore della funzione assolta dai media all’interno dei sistemi sociali. Molte delle problematiche (etiche) ancora aperte del giornalismo ruotano proprio intorno alla questione a dir poco cruciale del diritto di cronaca. Le regole scritte e le relative sanzioni si sono dimostrate necessarie ma non sufficienti: in altre parole, il diritto di cronaca è un valore laicamente “sacro”, fondamentale per la vita dei sistemi democratici, ma l’esercizio di questo diritto deve essere responsabile, per poter essere concretamente libero. Non è possibile che, in nome di questo diritto inalienabile del giornalista (e/o del comunicatore), vengano sacrificati sull’altare dello scoop a tutti i costi il rispetto per la persona e, ancor di più, per il minore. Riferendosi ai numerosi casi di cronaca nera e giudiziaria, ciò dovrebbe valere, ad esempio, anche per gli stessi condannati: un limite, non imposto ma scelto consapevolmente, è necessario affinché l’informazione non diventi definitivamente spettacolo o, peggio ancora, fiction. I rischi che si corrono, in questo tipo di analisi, sono essenzialmente due: (1) esaltare il relativismo assoluto, che finisce in ultima analisi, per negare anche se stesso (2) preservare un tipo di comunicazione (e di informazione) “neutra”, legata soltanto a regole di tipo tecnico-operativo, che svuoterebbe il significato stesso del comunicare e dell’informare. La riflessione etica trova nella prassi del comunicare (e dell’informare) un universo di discorso quanto mai vasto ed è perciò chiamata ad un compito estremamente difficile: abbracciare la “nuova” complessità, costituita da modalità dell’agire del tutto originali ed innovative che si intrecciano con una fitta rete di diritti e di doveri. Il punto da cui si deve ripartire è il prendere atto che comunicazione e informazione rappresentano attualmente gli unici elementi in grado di unire una realtà problematicamente complessa. E nel far questo, è di fondamentale importanza non cadere nell’ambiguità della mancata distinzione tra regole tecniche e norme morali: cioè, il problema etico va affrontato evitando che le regole in senso tecnico possano essere confuse con le “regole” dell’etica della comunicazione.
(1997)