La società della conoscenza ha innescato un mutamento rivoluzionario di tutte le dinamiche socio-politiche e dei processi produttivi e culturali, che fa del capitale intellettuale e della produzione e distribuzione della conoscenza i suoi punti di forza; un’ennesima e straordinaria rivoluzione tecnologica – le cui origini vanno ricercate, peraltro, negli ultimi decenni dell’Ottocento – generata dal rapido progredire dell’industrializzazione che, a sua volta, aveva già determinato una crisi di controllo. I mezzi di comunicazione, all’interno del nuovo ecosistema comunicativo, sono diventati i protagonisti assoluti dei processi di produzione e diffusione della conoscenza preparando un terreno fertile su cui verrà definitivamente edificato il nuovo sistema-mondo interconnesso in tempo reale.
Oltre alla più volte richiamata marginalità della Politica, la liberalizzazione dei mercati mette ancora più in evidenza l’assenza di “istituzioni globali” realmente funzionanti e operative. L’economia globale, dunque, sta affrontando un processo di radicale ristrutturazione che implica il ridimensionamento del capitale fisico e il trionfo dell’offerta di servizi sulla vendita di beni e sugli scambi di proprietà: l’accesso è diventato la nuova misura dei rapporti sociali (Dominici). Oltretutto, dopo la recente crisi finanziaria mondiale, il capitalismo globale, caratterizzato dalla progressiva acquisizione dei vissuti sociali di ogni singolo cittadino/consumatore, sembra sul punto di legittimare anche nuovi modelli di scambio sociale. Individui e istituzioni sono coinvolti in un processo di commercializzazione di tutta la prassi che delinea uno scenario, per certi versi, inquietante nel quale vengono messe in discussione le strutture tradizionali del legame sociale.
Il sistema globale dell’informazione e della comunicazione è la variabile decisiva che, oltre ad aver inciso profondamente sulla struttura dei sistemi sociali, ha reso possibile il coinvolgimento sempre più massiccio di intere aree della società civile, in passato escluse, nei processi di definizione ed elaborazione della crisi delle società complesse. Al di là delle molteplici criticità, non ultime le profonde asimmetrie esistenti, le differenti arene mediatiche prodottesi, hanno contribuito ad accrescere il livello di conoscenza e di consapevolezza delle problematiche sociali anche da parte delle classi sociali più deboli, producendo una discorso di senso comune che, servendosi delle reti comunicative, si sta progressivamente transnazionalizzando, producendo in alcuni casi mobilitazioni e azioni politiche autonome sempre più sganciate dalla politica.
L’età della modernità radicale globalizzata, della modernizzazione riflessiva e della comunicazione totale, si presenta dunque come il tempo dell’indeterminatezza e dell’abbandono della gerarchia e dell’ordine; un Evo presente, sempre continuo, quasi dilatato, che pone all’ordine del giorno nuove questioni politiche, sociali, economiche che, appartenendo ad ordini di grandezza notevolmente superiori rispetto alle epoche precedenti, rendono di fatto primaria l’esigenza di una ricollocazione della Politica o, addirittura, di una sua reinvenzione. Si tratta di una sfera di discorso che deve riguadagnare i suoi spazi decisionali, essendo stata fin troppo ridimensionata, talvolta umiliata, nel suo ruolo e nelle sue funzioni, dal dominio dell’economia, dalla tecnocrazia, dal weberiano impietrimento nella meccanizzazione e, più in generale, dalla progressiva reclusione dell’esperienza vitale e dei vissuti sociali in istituzioni e procedure.
La complessità insita nel processo di globalizzazione ci obbliga, ancora una volta, a riformulare tutte le categorie dell’agire politico e ad allargare i nostri orizzonti di pensiero e di azione, elaborando una politica che non si limiti soltanto ad osservare le regole, bensì provi a cambiarle anche perché la stragrande maggioranza di queste stesse regole sono state definite in un contesto di Stato-nazione forte. Uno Stato-nazione che continua ad essere in profonda crisi e che si vede sempre più costretto ad erigere muri e barriere per gestire situazioni complesse, dovute essenzialmente ad un’incapacità di definire strategie transnazionali improntate a logiche di lungo periodo. Una debolezza anche, e soprattutto, della politica internazionale resa ancor più evidente dal predominio dell’economia finanziaria; ma il mercato mondiale non può, come finora è accaduto, essere lasciato andare alla deriva senza un progetto autorevole e credibile di sviluppo globale: «Dove il mercato è abbandonato alla sua autonormatività, esso conosce soltanto una dignità della cosa e non della persona, non doveri di fratellanza e di pietà, non relazioni umane originarie di cui le comunità personali siano portatrici» (Weber, 1922).
Serve, dunque, un ripensamento complessivo di teoria e prassi che si inquadra, dunque, nella prospettiva di una modernità radicale nella quale anche la dimensione della “riflessività” – intesa anche come autoanalisi, come presa d’atto sia di una complessità accresciuta, sia dell’esistenza di altre culture che della contingenza dell’appartenenza di determinati elementi a determinate culture (Luhmann, 1992) – mette ulteriormente in crisi le istituzioni di controllo e protezione. Contemporaneamente all’inadeguatezza dei vecchi schemi concettuali e all’accresciuta complessità dei sistemi sociali, rileviamo come la società moderna sia riuscita a dotarsi di mezzi di autodescrizione notevolmente superiori, dal punto di vista qualitativo, rispetto al passato. Anche se, su un altro versante strategico, non possiamo non rilevare come le tradizionali istituzioni educative e formative siano del tutto impreparate a fronteggiare tale complessità, educando e formando profili inadeguati.
Tuttavia, nonostante la loro funzione ormai strategica, comunicazione e produzione sociale di conoscenza possono soltanto accompagnare, rendendola “visibile” e oggetto di discussione pubblica, questa esplosione del mondo dell’artificialità e della tecnica non più subordinato alla natura e che si configura, a tutti gli effetti, come “natura” difficilmente gestibile. In altri termini, nella società ipercomplessa (Dominici, 2011), segnata socialmente e culturalmente dalla tirannia degli individui e dall’egemonia di valori anticomunitari, la dimensione di ciò che è tecnicamente controllato è divenuta ipertrofica rispetto a quella del non-tecnicamente-controllato.
Inoltre, nell’Evo della comunicazione totale, teoria e prassi (individuale e collettiva) non risentono più soltanto del condizionamento storico-sociale specifico di ogni singolo contesto o gruppo di riferimento, bensì risultano fortemente condizionate anche dal peso delle rappresentazioni (delle immagini del reale) offerte dai media (metafore attive) che costringono, in un certo senso, gli attori sociali a incorporare tutta l’umanità dentro loro stessi creando, peraltro, istantaneamente e costantemente, un campo totale di eventi interdipendenti (Dayan e Katz,1992) che ne influenza la percezione e, ancor di più, l’azione. La Rete, come scrissi in tempi non sospetti, ha radicalizzato ulteriormente certe dinamiche della vecchia società di massa (vedi communication research) e della tradizionale prassi sociale.
La modernità radicale è un’era ripiegata e schiacciata su sé stessa, così come schiacciati sul presente continuo si rivelano i saperi – e la conoscenza sociale – che provano ad elaborare, interpretare, metabolizzare le nuove modalità del conflitto e le mille contraddizioni del sistema-mondo; in un certo senso, la società degli individui, esito della radicalizzazione del processo di modernizzazione, si rivela “portatrice sana” di fenomeni estremamente contraddittori che, in un qualsiasi momento, ne potrebbero anche decretare l’implosione. Motivo per il quale, deve fare i conti con sé stessa. E la Politica è chiamata a questa ennesima sfida che presuppone necessariamente la riconquista del territorio e della prassi.
Le categorie, con le quali abbiamo interpretato la società industriale, incontrano qualche difficoltà nel tentativo di comprendere la modernità radicale e il processo di globalizzazione anche perché siamo passati da una modernizzazione lineare (della tradizione) ad una modernizzazione riflessiva (della società industriale e post-industriale) caratterizzata proprio dall’esplosione della dimensione politica.
Nell’era del mercato globale e della società della conoscenza, la produzione sociale di capitale viaggia di pari passo con la produzione sociale di rischi, anzi i rapporti di forza tra le due logiche si sono invertiti proprio a causa della riflessività che nega alle forze produttive l’opportunità di celare i loro effetti collaterali più latenti. I complessi e articolati meccanismi legati alla produzione sociale di conoscenza, supportati dalla Rete e dai social media – anche se le vecchie logiche di controllo e sorveglianza non hanno mai smesso di essere dominanti, con profonde ripercussioni in materia di privacy e libertà digitali – disvelano questa dimensione ricollocandola all’interno della nuova sfera pubblica che ha, pur tra mille difficoltà, l’opportunità di tematizzare questioni e istanze (provenienti anche dal basso) escluse, in un primo momento, dal dibattito pubblico.
La società degli individui, tra i molteplici aspetti, ripropone l’homo faber che, con i suoi atteggiamenti tipici, costituisce una delle icone della modernità: è riuscito a strumentalizzare l’intera realtà e, trascinato dalla fiducia nella portata onnicomprensiva della categoria mezzi-fini, si è convinto di poter trovare una soluzione a qualsiasi problema, identificando acriticamente la produzione/fabbricazione con l’azione. Gli attori sociali di questo eterno presente, ormai, interpretano qualsiasi comportamento sulla base del principio di utilità e sono quasi ossessionati dalla necessità di produrre e, soprattutto, consumare oggetti materiali, confondendo spesso “intelligenza” e “ingegnosità” (Arendt, 1958). Accade così che il rischio, letto anche come deviazione dalla norma, sia divenuto ormai una dimensione connaturata ai moderni Stati-nazione ed alla Politica – oltre che ai sistemi sociali; una Politica sempre più ridimensionata e costretta a prendere decisioni (centralità della sfera pubblica) che hanno ripercussioni non soltanto a livello locale, in quanto «la comunicazione del rischio è diventata riflessiva e quindi universale, poiché evitare di correre dei rischi o pretenderne il rifiuto è a sua volta un comportamento rischioso» (Luhmann, 1991).
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