Stimolato dalla riflessione di Isa Maggi su La 27esimaora del Corriere della sera e, più generale, dall’articolarsi del dibattito pubblico – che, purtroppo, non può non seguire ed adeguarsi alle fiammate emotive del sistema mediatico (Dominici,2000 e sgg.) – ho deciso di condividere questo mio saggio, estratto da un Rapporto di ricerca, ben sapendo di correre dei rischi dal momento che poco si adatta al formato del post di un blog. A tal proposito, avrei potuto ricavare diversi post da questo unico testo che, come si vedrà, è il risultato di uno studio comparativo rigoroso e piuttosto impegnativo; ma avrei reso frammentario il discorso, perdendo la prospettiva globale e sistemica che intendo, da sempre, perseguire nella mie attività di ricerca e formazione. Pertanto, mi scuso con tutt*per la sua lunghezza (spero di trovare, in ogni caso, qualche coraggiosa/o e motivata/o lettrice/lettore) – ripeto – so di rischiare ma lo spirito, come sempre, è quello di condividere, includere, coinvolgere, far uscire dalla “torre d’avorio” argomenti e tematiche troppo importanti per rimanere dominio/territorio dei cosiddetti esperti/addetti ai lavori o, peggio ancora, per essere lasciate alle derive della spettacolarizzazione mediatica e di spiegazioni riduzionistiche. Ritengo che tali questioni siano a dir poco strategiche ma che, allo stesso tempo, sia di fondamentale importanza inquadrarle in un discorso più complesso, e generale, di ripensamento di quello che ho chiamato “nuovo contratto sociale” (2003) e del concetto stesso di cittadinanza; un ripensamento/riformulazione che deve portare ad una traduzione operativa funzionale alla definizione, progettazione e realizzazione di proposte e strategie educative. Perché questo è il livello cruciale del cambiamento culturale che è in grado, nel lungo periodo, di innescare e accompagnare quello economico, politico, sociale. E, come dico sempre, non c’è alcuno spazio per l’improvvisazione…non sono sufficienti (necessarie, sì) campagne di comunicazione e/o hashtag più o meno indovinati: il livello strategico è quello concernente i processi educativi (la scuola, sopra ogni cosa, e le altre agenzie di socializzazione).
Perché, la questione è culturale! E i nostri giovani – fin dai primi anni di scuola – hanno sempre più bisogno di conoscere, vivere e applicare la “logica” (all’università è davvero difficile modificare una forma mentis già strutturata; p.e. insegnare a sviluppare/verificare logicamente le argomentazioni); hanno un disperato bisogno (scusate la ripetizione) di un “metodo” con il quale pensare, ragionare, sintetizzare, dare sistematicità alle tante (troppe?) informazioni ricevute (filosofia); di una formazione alla complessità e al pensiero critico, che formi ed educhi – quasi “addestri” – ad individuare le connessioni tra i fenomeni e i processi, tra i saperi e la vita vissuta…che metta in condizione, per esempio, di valutare criticamente le origini storico-sociali di norme e modelli culturali, di riflettere e distinguere ciò che è “natura” da ciò che è “cultura” e frutto di convenzione (dicotomia che andrebbe superata una volta per tutte!); di riconoscere nella diversità e nel pluralismo dei “valori” fondamentali e non dei “pericoli”. Come scritto anche in passato, per realizzare obiettivi così complessi, servono politiche di lungo periodo e un rilancio in grande stile degli studi umanistici e della formazione umanistica, a tutti i livelli (scuola, università, ricerca etc.); il resto arriverebbe quasi di conseguenza. Da questo punto di vista, anche l’acquisizione e il possesso delle cd. competenze tecniche e digitali (assolutamente importanti, chiariamolo) avrebbero ricadute ancor più significative su “teste ben fatte”, criticamente formate e curiose della complessità che le circonda. Serve urgentemente un “nuovo Umanesimo” che ponga la Persona, la sua formazione e la sua relazione con l’ALTRO, al centro (rinvio anche ad altri post, oltre che a saggi pubblicati). Ad essere in gioco sono le identità e le soggettività e, in questa prospettiva, non possiamo non rilevare l’assenza di modelli culturali adeguati al mutamento in atto. Ormai tutti lo ripetono, anche nei documenti ufficiali redatti da “esperti”, anche se sembrano essere più formule e slogan di successo… mancano le azioni/strategie di lungo periodo adeguate e la Politica pensa al “breve periodo” e con altre logiche.
Il saggio fornisce riferimenti bibliografici, al quadro normativo, a codici deontologici, a documenti importanti sulle questioni in discussione. E una (modesta) proposta personale di linee guida per chi opera nel campo dell’informazione e della comunicazione. Per coloro che fossero interessati alla riutilizzazione del contributo (in volume) o a sviluppare idee e progetti in proposito: piero.dominici@unipg.it
P.S. Riutilizzate e condividete i contenuti, ma citate sempre le FONTI
Premessa
La complessità della questione
Il presente contributo, che intende offrire una rilettura critica e sistematica di tutti i documenti più significativi prodotti dalle PP.AA. in materia di comunicazione di genere (nello specifico, manuali, linee guida, vademecum etc.), si articola, sostanzialmente, in due parti; nella prima, l’obiettivo è quello di contestualizzare la nostra analisi nel quadro di riferimento teorico-normativo, riconducibile a normative anche internazionali, codici deontologici e di autodisciplina, per verificare “come” e “se” viene affrontata la questione del genere, e dell’ottica di genere, da parte delle principali categorie professionali del mondo dell’informazione e della comunicazione. Nella seconda parte del contributo, invece, l’attenzione sarà posta, in particolare, sulle Linee guida già adottate e diffuse da alcune PP.AA., allo scopo di fornire una sintesi per punti problematici in grado di mettere in luce analogie, contraddizioni, ambiguità, prospettive etc. Pertanto, procederemo seguendo tale schema di discorso: (a) analisi e descrizione del quadro normativo internazionale ed europeo; (b) analisi e (breve) descrizione dei codici deontologici dei giornalisti e dei comunicatori; (c) analisi e sintesi (per punti) dei principali documenti prodotti dalle PP.AA. in materia di comunicazione di genere.
L’obiettivo è anche quello di provare ad arricchire la classica “cassetta degli attrezzi” fornendo, a partire dalla comparazione, gli strumenti di decodifica indispensabili per l’interpretazione di un tipo di complessità ormai protagonista della cosiddetta comunicazione pubblica e/o istituzionale. Perché, il genere è, senza dubbio, punto di svolta anche nella ricerca di una relazione meno asimmetrica tra PA e cittadino. Sullo sfondo, il tentativo di definire un approccio teorico generale, che prenda in considerazione le questioni deontologiche – strettamente correlate alla rappresentazione e percezione delle tematiche di genere – e la stessa etica della comunicazione, incrociandole con concetti, valori, pratiche e strategie riconducibili alla comunicazione istituzionale di genere. Le tematiche correlate alle pari opportunità e al genere – e la loro “pubblicità/visibilità” – costituiscono un’area del mutamento sociale e culturale, in atto a livello locale e globale, assolutamente strategica ove si gioca la partita più importante per provare ad uscire dalla crisi (non soltanto economica) e ripensare ad un paradigma di sviluppo fondato più sul modello cooperativo che su quello competitivo: la partita dei diritti, della lotta ad ogni forma di discriminazione, della cittadinanza come crescita culturale e viceversa (Balibar, 2012). Si tratta evidentemente di un’area della prassi che chiama in causa la questione fondante dell’eguaglianza delle opportunità e quello che una letteratura scientifica – peraltro, molto sensibile alle questioni di genere – ormai piuttosto articolata, oltre che autorevole, definisce “approccio delle capacità” (capability approach) (Sen, 1992,1999 e 2009; Nussbaum, 1997, 2002 e 2011). Laddove le capacità sono “libertà sostanziali” costituite da opportunità di scegliere e agire, a loro volta definite dalla combinazione di abilità personali e ambiente politico, sociale ed economico.
Il tentativo di operare una sintesi
Il presupposto fondamentale – lo ribadiamo – della nostra analisi consiste in una presa d’atto che, peraltro, non riguarda soltanto l’area di studi e ricerche su genere e pari opportunità: i codici deontologici e/o le vecchie etiche dell’intenzione – che, in passato, hanno ispirato anche documenti come linee guida e/o manuali operativi – non sono più sufficienti ad abbracciare la complessità della prassi comunicativa e informativa. Sul versante dei (tanti) documenti analizzati in materia di comunicazione istituzionale di genere, registriamo senza dubbio numerose analogie ed elementi di continuità: tale aspetto coinvolge i molteplici piani di discorso e analisi che vengono descritti nei testi visionati. Anche la comunicazione pubblica deve fare i conti con la dimensione etica – non solo perché le normative e i codici professionali sono condizione necessaria ma non sufficiente – ma anche perché comunicare significa anche “formare”, creare le condizioni per la costruzione di un consenso sociale relativo ad istanze e problematiche sociali importanti, a maggior ragione nella prospettiva dell’interesse generale e della pubblica utilità (Rolando, 2004); accompagnare il mutamento sociale e culturale, mediandone i conflitti e le criticità. E il problema non è soltanto di “tecnica della comunicazione”. Occorre fornire ai decisori, ma anche a tutti i soggetti coinvolti, gli strumenti necessari per progettare e valutare sempre meglio forme e modalità del comunicare, tenendo in considerazione valori e principi fondamentali. Nel campo delle tematiche di genere e, più in generale, delle Pari Opportunità va sottolineato come, pur avendo la discussione pubblica fatto registrare significativi passi avanti, ci sia ancora molto da lavorare e su più livelli problematici che non riguardano esclusivamente l’utilizzo non sessista della lingua (Europarlamento, 2009), in ogni caso fondamentale ad un primo livello. Carta stampata e media, con la loro lingua (Dardano,1994), per non parlare della pubblicità, fanno ancora largo uso di formule retoriche, topiche della narrazione, immagini, luoghi comuni che contribuiscono, talvolta inconsapevolmente, a rafforzare stereotipi non semplici da sradicare dal nostro sistema di orientamento valoriale e conoscitivo. Come già accennato, poi, nell’ottica delle pari opportunità, qualsiasi azione comunicativa deve far riferimento ad alcuni principi teorici fondamentali: equità, trasversalità e rappresentatività. Le pari opportunità sono, infatti, un valore assoluto da promuovere che chiama in causa molte altre questioni fondamentali. Tali istanze devono necessariamente avere “visibilità”, ma soprattutto essere realmente rappresentative dei target individuati e analizzati.
La comunicazione pubblica, oltre a farsi leva del mutamento socioculturale (Priulla, 2008; Rolando, 2003 e 2004, Rovinetti 2000) assume, in tal senso, una rilevanza strategica senza precedenti nel tentativo di realizzare un progetto senz’altro ambizioso: promuovere e sviluppare, non soltanto una comunicazione istituzionale attenta al genere, bensì una cultura attenta al genere. Si tratta di realizzare progetti e azioni che vedano gli attori coinvolti (in questo caso, le donne) come attori “protagonisti” del processo di cambiamento. Le campagne di comunicazione vanno evidentemente accompagnate, prestando particolare attenzione alla complessità dei processi educativi e di socializzazione e coinvolgendo istituzioni formali e informali, in una logica di network. Le azioni e le strategie di sensibilizzazione e coinvolgimento, funzionali al cambiamento di clima culturale, non possono più essere “calate dall’alto”: vanno, al contrario, costruite sulla conoscenza empirica dei destinatari ma, soprattutto, vanno progettate e realizzate insieme agli stessi (Bertolo, 2005), si potrebbe dire, habermasiamente, in maniera intersoggettiva. E questo aspetto, a nostro avviso, costituisce il vero salto di qualità – insieme alla questione di una valutazione attenta e rigorosa (ex ante, in itinere ed ex post) di ogni azione – per una Pubblica Amministrazione (Cammelli, 2004) realmente efficiente e vicina ai cittadini (Mazzoleni,2003; Priulla,2008). Nulla si può improvvisare in comunicazione, a maggior ragione in settori così delicati della vita pubblica e delle comunità.
Il quadro normativo internazionale ed europeo
Dunque, una volta considerate la complessità e l’intrinseca dinamicità degli argomenti trattati, possiamo provare a sviluppare il nostro discorso partendo, come detto, dall’analisi e descrizione (sintetica) della documentazione e dei testi normativi raccolti e visionati: lo scopo è quello di arrivare, successivamente, ad una lettura razionale e sistematica di questo materiale. Il primo elemento, comune un po’ a tutti i documenti analizzati – anche a livello di struttura del testo – è costituito dai riferimenti normativi fondamentali che legittimano e supportano l’azione e le strategie intraprese in materia. Si tratta di riferimenti normativi estremamente importanti che testimoniano come queste tematiche vadano ormai “lette”, analizzate, interpretate in una prospettiva che non può che essere quella internazionale, quanto meno europea. In conseguenza di quanto detto, non si può non ribadire l’importanza di un approccio multidisciplinare ad una questione – la discriminazione di genere – che, quasi paradossalmente rispetto a quanto osserviamo nell’offerta dei media (Capecchi, 2006), della pubblicità e della carta stampata, costituisce tema sensibile e molto trattato in documenti prodotti soprattutto dalle istituzioni comunitarie:
–ONU, Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna: il testo è stato adottato dall’Assemblea generale dell’ONU il 18 dicembre 1979. Si tratta di un documento di fondamentale importanza che dichiara, come obiettivi cruciali della convenzione, alcuni principi e dichiarazioni d’intenti che saranno successivamente adottati dai Paesi firmatari: 1) la condanna di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna; 2) il garantire alle donne, su una base di piena parità con gli uomini, l’esercizio e il godimento dei diritti dell’uomo (!) e delle libertà fondamentali; 3) l’adozione da parte degli Stati di misure speciali, comprese le misure previste dalla presente Convenzione, tendenti a proteggere la maternità; 4) la modifica degli schemi e dei modelli di comportamento socioculturale degli uomini e delle donne per giungere ad una eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di altro genere, che siano basate sulla convinzione dell’inferiorità o della superiorità dell’uno o dell’altro sesso o sull’idea di ruoli stereotipati degli uomini e delle donne; 5) la condanna e repressione del traffico e dello sfruttamento della prostituzione delle donne; 6) l’eliminazione della discriminazione nei confronti delle donne nella vita politica e pubblica del paese (diritto di voto, di essere eleggibili e di partecipazione alla vita di associazioni etc.); 7) la parità di diritti per quanto concerne l’educazione; 8) la parità di diritti nel lavoro; 8) la definizione di misure, da parte degli Stati, contro la discriminazione in campo sanitario, nella vita economica e sociale; 9) infine, particolarmente significativo l’Art.15 che recita: “Gli Stati parte riconoscono alla donna la parità con l’uomo di fronte alla legge”. Si tratta – come detto – di un documento strategico e straordinariamente attuale per le problematiche che abbraccia e che, purtroppo, ancora non trovano una soluzione definitiva (anzi!). Tuttavia, resta l’importanza di queste indicazioni e principi approvati e riconosciuti a livello di Nazioni Unite che, in quella sede, ha previsto anche l’istituzione di un Comitato per l’eliminazione della discriminazione nei confronti della donna.
–Obiettivo strategico J2 contenuto nella Piattaforma d’azione della IV Conferenza mondiale sulle donne, svoltasi a Pechino nel 1995, in cui l’ONU raccomanda la rappresentazione bilanciata e non stereotipata delle donne nei mass media;
–Risoluzione del Parlamento europeo del 14 ottobre 1987 sulla rappresentazione della donna nei mezzi di comunicazione di massa; la risoluzione sottolinea la rilevanza della raffigurazione e posizione della donna nei mezzi di comunicazione di massa
–Risoluzione n.1003 del 1 luglio 1993: approvata dal Consiglio d’Europa, pone l’attenzione sulla funzione del giornalismo e sulla sua attività etica. Viene sottolineata l’importanza dei seguenti principi: controllo, lealtà e correttezza etica.
–Risoluzione del Parlamento Europeo (18 gennaio 1994): il Parlamento Europeo ribadisce l’importanza del diritto alla segretezza delle fonti di informazione e della libertà di stampa e segreto professionale.
–Risoluzione del Consiglio d’Europa del 5 ottobre 1995 concernente l’immagine dell’uomo e della donna nella pubblicità e nei mezzi di comunicazione (OJ C 296 del 10/11/1995); tale risoluzione promuove la parità in tutti i settori della vita sociale, condannando esplicitamente la presenza di stereotipi sul sesso.
–Risoluzione del Parlamento europeo del 16 settembre 1997 (A4-0258/97) sulla discriminazione della donna nella pubblicità;
–V Programma comunitario (2000-2005) per la promozione della parità e pari opportunità tra donne e uomini: si auspica il superamento di immagini femminili negative e stereotipate nei messaggi pubblicitari, nelle informazioni e negli spettacoli trasmessi dai mass media;
–Direttiva CE 89/552 Television Without Frontiers Directive (TVWF): l’Unione Europea sottolinea la questione delle rappresentazioni di genere nei media, principalmente come esigenza di tutela dei minori. Responsabilità dei media nella rappresentazione del genere;
–Artt. 9 e 10 del Codice di autodisciplina pubblicitaria attualmente in vigore in Italia;
–Legge 7 giugno 2000, n. 150 Disciplina delle attività di informazione e comunicazione delle PP.AA.: disciplina la comunicazione esterna rivolta alle cittadine e ai cittadini, la promozione di conoscenze allargate e approfondite su temi di rilevante interesse pubblico e sociale;
–Obiettivo 3.5 della Strategia Quadro Comunitaria (2001-2005): l’Unione Europea affronta il tema della discriminazione delle donne nella pubblicità, enfatizzando il concetto di parità tra donne e uomini;
–Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento Europeo, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni: “Una tabella di marcia per la parità tra donne e uomini” (2006), Commissione Europea: documento europeo fondamentale che riconosce ai mezzi di comunicazione un ruolo strategico nella lotta contro gli stereotipi di genere.
–UNICEF, Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna, Comitato sui diritti dell’infanzia: si tratta della traduzione in lingua italiana della Convenzione adottata dalle Nazioni Unite nel 1979 e firmata dall’Italia l’anno successivo. Obiettivi esplicitati dell’importante documento: l’eliminazione di tutte le “forme di distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso che abbia come conseguenza, o come scopo, di compromettere o distruggere il riconoscimento, o il godimento o l’esercizio, da parte delle donne, quale che sia il loro stato matrimoniale, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo, su base di parità tra l’uomo e la donna”.
–Risoluzione “How marketing and advertising affect equality between women and men” (2008), Europarlamento. Documento che invita il Consiglio, la Commissione e gli Stati membri a produrre azioni contro gli insulti sessisti e le immagini degradanti delle donne e degli uomini nella pubblicità; anche in questo caso, il riferimento all’uso di stereotipi è esplicito
–Vademecum per evitare un uso sessista delle lingue (Marzo 2009), Europarlamento. Documento definito dall’Europarlamento con l’obiettivo di evitare l’uso sessista delle lingue. Il testo La neutralità di genere nel linguaggio usato al Parlamento europeo, distribuito dal Parlamento europeo, pone l’enfasi su “orientamenti intesi ad assicurare che in tutti i documenti parlamentari sia utilizzato come norma e non come eccezione un linguaggio neutro dal punto di vista del genere”.
–Survey on self-regulation for advertising and the portrayal of women and men in Europe. Documento redatto dall’EASA (European Advertising Standard Alliance).
–Convenzione di Istanbul, del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Istanbul, 11.05.2011). La Convenzione in materia di prevenzione e contrasto della violenza sulle donne, chiamata comunemente Convenzione di Istanbul, è stata approvata dal Comitato dei Ministri dei paesi aderenti al Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011 e che è stata aperta alla firma l’11 maggio 2011. Si tratta del primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che definisce un quadro giuridico completo finalizzato alla protezione delle donne contro qualsiasi forma di violenza. In particolare, gli obiettivi dichiarati di questo fondamentale documento – la cui importanza è testimoniata anche dal significativo coinvolgimento di paesi come la Turchia – sono i seguenti: a) proteggere le donne da ogni forma di violenza e prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica; (b) contribuire ad eliminare ogni forma di discriminazione contro le donne e promuovere la concreta parità tra i sessi, ivi compreso rafforzando l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne; (c) predisporre un quadro globale, politiche e misure di protezione e di assistenza a favore di tutte le vittime di violenza contro le donne e di violenza domestica; (d) promuovere la cooperazione internazionale al fine di eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica; (e) sostenere e assistere le organizzazioni e autorità incaricate dell’applicazione della legge in modo che possano collaborare efficacemente, al fine di adottare un approccio integrato per l’eliminazione della violenza contro le donne e la violenza domestica. La Convenzione mira, pertanto, ad individuare una strategia condivisa per il contrasto della violenza sulle donne, ma anche per la prevenzione della stessa, la protezione delle vittime e la perseguibilità penale degli aggressori. Tuttavia, nel quadro complessivo della ricerca di una maggiore uguaglianza tra donne e uomini, va sottolineato come l’aspetto più innovativo del testo sia rappresentato dal riconoscimento che la violenza sulle donne costituisca di fatto una violazione dei diritti umani, oltre che una forma di discriminazione. Nella Convenzione viene riconosciuta l’urgenza di azioni coordinate, sia a livello nazionale che internazionale, tra tutti gli attori coinvolti nella presa in carico delle vittime e, al tempo stesso, la necessità di finanziare adeguatamente le strategie per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno. Diverse altre le questioni affrontate: la protezione e il supporto ai bambini testimoni di violenza domestica, la penalizzazione dei matrimoni forzati, le mutilazioni genitali femminili, l’aborto e la sterilizzazione forzata. Da sottolineare, infine, il riconoscimento del ruolo fondamentale svolto dalla società civile e dall’associazionismo: si tratta di un “indicatore” importante di come stia progressivamente aumentando la consapevolezza che il mutamento sociale può (deve) essere determinato o, per meglio dire, innescato dal cambiamento culturale. Ancora una volta, la repressione e i relativi meccanismi adottati, pur necessari, non risolvono il problema, serve una strategia di lungo periodo! A tal proposito, la Convenzione di Istanbul attribuisce una funzione strategica alle azioni di sensibilizzazione delle opinioni pubbliche, con una particolare attenzione (a) al ruolo dei mass media ed al settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, anche se – questo forse è un limite del documento – non viene fatto esplicito riferimento ai social media; (b) alle azioni e alle campagne di educazione nelle scuole e nelle strutture di istruzione non formale; e, per ultima, ma non meno importante, l’enfasi viene posta sulla (c) formazione delle figure professionali. Sullo sfondo, chiarissima è l’enfasi posta sulla prevenzione ed ai media è richiesta una sensibilità particolare, in tal senso. Come noto, l’immagine delle donne fornita dai mezzi di comunicazione definisce e riproduce numerosi stereotipi di genere, fornendo anche immagini degradanti. In questa prospettiva, si richiede ai governi dei singoli paesi di spingere i media verso la strada dell’autoregolamentazione al fine di promuovere il rispetto e la tutela della dignità delle donne.
Partiamo dal primo documento: la convenzione ONU del 1979 fornisce la definizione di discriminazione nei confronti della donna ma non parla ancora di “genere”: «Ai fini della presente Convenzione, l’espressione “discriminazione nei confronti della donna” concerne ogni distinzione esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza, o come scopo, di compromettere o distruggere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio da parte delle donne, quale che sia il loro stato matrimoniale, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile o in ogni altro campo, su base di parità tra l’uomo e la donna»(ONU, 1979). Nel documento viene condannata la discriminazione nei confronti della donna in ogni sua forma e si intende promuovere una politica tendente ad eliminare la discriminazione nei suoi confronti; per arrivare all’Obiettivo strategico J2 – sempre citato nei documenti su genere e pari opportunità – contenuto nella Piattaforma d’azione della IV Conferenza mondiale sulle donne, svoltasi a Pechino nel 1995, in cui l’ONU ha raccomandato una rappresentazione bilanciata e non stereotipata delle donne nei mass media; ugualmente significativi i documenti dell’Europarlamento, su tutti la Risoluzione How marketing and advertising affect equality between women and men (2008) e il Vademecum per evitare un uso sessista delle lingue (Marzo 2009), per arrivare al Survey on self-regulation for advertising and the portrayal of women and men in Europe, documento redatto dall’EASA (European Advertising Standard Alliance): possiamo senz’altro affermare come si sia lavorato e prodotto molto nella prospettiva di arrivare all’individuazione e definizione, in primo luogo, delle forme di discriminazione di genere (inizialmente, come visto, il termine non viene neanche citato) e, in secondo luogo, alla realizzazione di una neutralità di genere nel linguaggio e ad una maggiore attenzione nella scelta delle immagini: attenzioni e precauzioni riprese e sempre più osservate, in particolar modo, nei documenti del Parlamento europeo. Ai mezzi di comunicazione – già protagonisti dei processi di costruzione sociale (Berger-Luckmann, 1966), di etichettamento e di inferiorizzazione sociale della diversità (Goffman,1961 e 1963) – viene, evidentemente, riconosciuta una funzione strategica anche nella decostruzione e nella lotta agli stereotipi di genere. L’Unione Europea, insomma, affronta la questione della discriminazione delle donne nella pubblicità e nei mezzi di comunicazione (e non soltanto), enfatizzando il concetto di parità tra donne e uomini e mostrando una grande sensibilità ed attenzione alla questione delle rappresentazioni di genere nei media, anche come esigenza di tutela nei confronti della nuove generazioni. Si parla esplicitamente di responsabilità dei media nella rappresentazione del genere (Direttiva CE 89/552 Television Without Frontiers Directive) e, da ciò, si evince inequivocabilmente la percezione, oltre che la consapevolezza, da parte delle istituzioni UE, della rilevanza del genere come snodo fondamentale del mutamento economico, sociale e culturale in atto. Nello specifico, è importante ricordare che, nel 2008, l’Ufficio di Presidenza ha recepito alcune linee guida definite dal Parlamento UE – specifiche per ogni contesto linguistico – sulla fondamentale importanza dell’adozione di un linguaggio neutro (?) dal punto di vista del genere. Così recita il documento: «Utilizzare un linguaggio neutro dal punto di vista del genere vuol dire evitare l’uso di termini che, in quanto implichino la superiorità di un sesso sull’altro, possono avere una connotazione di parzialità, discriminazione o deminutio capitis, giacché, nella maggior parte dei contesti, il sesso di appartenenza della persona interessata è o dovrebbe essere irrilevante» (Parlamento Europeo,2008,p.5).Tuttavia, il medesimo documento, nella parte intitolata Linee guida specifiche per l’italiano, dopo aver fornito precise indicazioni pratiche per la redazione di testi, termina con una formula che, peraltro, sembra richiamare molto da vicino quelle dei codici deontologici dei giornalisti sul diritto/dovere di cronaca, richiamato sempre a margine di tutti i principi e le tutele previste; una formula che mette in luce, ancora una volta, la complessità e l’ambiguità di tali questioni e la relativa difficoltà di individuare delle possibili soluzioni o “buone pratiche”: «Occorre tenere presente infine che, in assenza di un esplicito pronunciamento ufficiale, come indicato in precedenza, spesso l’uso del genere maschile e femminile è il riflesso di una particolare sensibilità della persona interessata. Vi sono ad esempio donne che preferiscono utilizzare la forma maschile della loro carica o professione. Sarà pertanto cura dell’autore o del traduttore attenersi alla loro volontà».
Per arrivare all’oggi, cioè alla fondamentale Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011, cui peraltro abbiamo già accennato, che nel capitolo III – dedicato alla prevenzione – all’Articolo 17 Partecipazione del settore privato e dei mass media, recita: «1)Le Parti incoraggiano il settore privato, il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i mass media, nel rispetto della loro indipendenza e libertà di espressione, a partecipare all’elaborazione e all’attuazione di politiche e alla definizione di linee guida e di norme di autoregolazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità; 2) Le Parti sviluppano e promuovono, in collaborazione con i soggetti del settore privato, la capacità dei bambini, dei genitori e degli insegnanti di affrontare un contesto dell’informazione e della comunicazione che permette l’accesso a contenuti degradanti potenzialmente nocivi a carattere sessuale o violento».
Appare senz’altro evidente come, al di là della sensibilità e della consapevolezza, più o meno accresciute, rispetto alla complessità del problema, le problematiche che vengono sollevate, nei vari testi analizzati, chiamino ancora una volta in causa una serie di questioni di cruciale importanza, anche per ciò che concerne le criticità legate ai temi della cittadinanza e della democrazia (le “pari opportunità” sono, da questo punto di vista, variabile decisiva): ci riferiamo, evidentemente, alla libertà, alla responsabilità, alla formazione e alle competenze di chi informa e di chi fa/produce comunicazione; ma anche, e soprattutto, all’alfabetizzazione e alle competenze dei destinatari e, più in generale, delle audience (sul tema delle asimmetrie informative e conoscitive e sulla relazione tra comunicazione e cittadinanza, cfr. Dominici 1998, 2005 e 2011). Questa è, allo stesso tempo, la forza e la debolezza, con le relative sfumature, dei testi normativi e giuridici, delle deontologie professionali e degli altri tipi di documenti ispirati, in ogni caso, a principi del “dover essere”: sono importanti perché fissano dei limiti/confini ma mostrano tutta la loro debolezza nel momento dell’applicazione pratica, essendo la prassi comunicativa, e lo stesso linguaggio, estremamente complessi e riconducibili a pratiche arbitrarie e convenzionali, a loro volta condizionate dal contesto (concetto di ecosistema della comunicazione), dal sistema di relazioni e dalle situazioni particolari (Wittgenstein,1953; Jakobson,1966; Searle,1969; Watzlawick et al.,1967; Habermas,1981;Bandura,1986) – come vedremo anche in seguito.
Le Carte deontologiche dei giornalisti
Passeremo ora in rassegna i principali codici deontologici dei giornalisti, anche in questo caso, allo scopo di verificare “come” e “se” la questione del genere venga affrontata e, soprattutto, se sia possibile trarne delle indicazioni utili rispetto ai nostri obiettivi iniziali. Procediamo, come in precedenza, in ordine cronologico evidenziando le caratteristiche salienti della documentazione analizzata:
–Carta Informazione e Pubblicità (14 aprile 1988): approvata da giornalisti, agenzie di pubblicità e associazioni di pubbliche relazioni (OdG, FNSI, Assorel, Assap, Ferpi,Aisscom, TP), si occupa in modo particolare del ruolo del giornalista e di pubblicità. Vengono sanciti i seguenti principi: riconoscibilità messaggi pubblicitari, divieto di far pubblicità con scopi speculativi, obbligo di correttezza.
–Carta di Treviso (5 ottobre del 1990) – aggiornata con il Vademecum del 1995 e, successivamente, il 30 marzo del 2006 con osservazioni del Garante protezione dati personali: approvata da FNSI, Ordine dei giornalisti e Telefono Azzurro, costituisce il primo documento di autoregolamentazione deontologica che impegna i giornalisti a norme e comportamenti eticamente corretti nei confronti dei minori. Principi ribaditi: tutela dei minori, rispetto della dignità e della persona umana, dell’ordine pubblico, del buon costume e del libero sviluppo psichico e morale dei minori.
–Carta dei doveri del giornalista (8 luglio 1993) – rif. Legge 69 del 1963 – Testo molto importante, rappresenta lo statuto completo della deontologia professionale. Approvato dall’Ordine dei giornalisti e dalla Federazione nazionale della stampa, fa riferimento esplicito ai seguenti principi/valori: divieto di pubblicare immagini violente o raccapriccianti, l’obbligo di tutelare la privacy dei cittadini e, in particolare, dei minori e delle persone disabili o malate. Importanti sono il richiamo alla distinzione tra informazione e pubblicità e il concetto di incompatibilità tra il lavoro giornalistico e interessi o incarichi che siano in conflitto con la ricerca rigorosa ed esclusiva della verità dei fatti. Si tratta dell’unico codice deontologico dei giornalisti che, richiamando la Costituzione, invita ad osservare diversi valori fondamentali, tra i quali la non discriminazione per sesso: rispetto della persona, della riservatezza, la non discriminazione per razza, religione, sesso, condizioni fisiche o mentali, opinioni politiche, la correzione degli errori e la rettifica, la presunzione di innocenza. Significativi anche il richiamo al dovere di mantenere il segreto professionale e il diritto dei cittadini a ricevere un’informazione sempre chiaramente distinta dalla pubblicità.
–Carta di Perugia (11 gennaio 1995): approvata dal Consiglio dell’Ordine regionale dei giornalisti, Federazione regionale dei medici e Ordine regionale degli psicologi, si tratta di una carta deontologica riguardante nello specifico il tema della comunicazione sulla salute. Grande enfasi viene data al concetto di responsabilità.
–Carta Informazione e Sondaggi (7 aprile del 1995): protocollo d’intesa approvato da Ordine dei Giornalisti, Associazione che comprende Istituti di Ricerche di mercato (ASSIRM), si occupa di regole di comportamento per la correttezza delle informazioni sui sondaggi. Il giornalista deve offrire al lettore tutti gli elementi che gli consentano una lettura critica dei risultati del sondaggio.
–Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio attività giornalistica (26 e 27 marzo 1998) – rif.Testo unico sulla privacy (D. lgs 196/2003). É legge come allegato al 196/2003 ed è stata approvato dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti. In questo testo, viene sancito il principio generale che chiunque ha diritto alla protezione dei dati personali che lo riguardano. Affronta in maniera abbastanza ambigua la questione dell’equilibrio nel delicato rapporto tra diritto di cronaca e protezione della sfera di riservatezza dei cittadini. Tra i principi riaffermati: dignità dell’interessato, riservatezza, identità personale, diritto alla protezione dei dati personali.
–Codice di autoregolamentazione TV e minori (29 novembre 2002): emanato con Decreto Ministero Comunicazioni 29 novembre 2002, tale codice tutela il minore nella sua veste di utente e fruitore del messaggio televisivo.
–Europa e informazione: la Carta di Gubbio (21 maggio 2004): approvata dall’Ordine dei Giornalisti, sancisce il principio della separazione del potere economico e mediatico da quello politico, a salvaguardia della democrazia; fa riferimento ai concetti di conflitto di interessi e incompatibilità. Vengono inoltre riaffermati i seguenti principi: la libertà dell’informazione, la libertà della ricerca, la libertà della comunicazione, la libertà di espressione culturale rappresentano diritti civili insopprimibili per tutti i cittadini dell’Unione europea. Riconosciuto il diritto di accesso alle reti.
–Carta dei doveri dell’informazione economica (8 febbraio 2005): approvata dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti e da Consob, disciplina le regole di informazione economica e definisce i principi di responsabilità e trasparenza nelle informazioni economiche.
–Codice di autoregolamentazione delle trasmissioni di commento degli avvenimenti sportivi (25 luglio 2007) – rif.Decreto del Ministero delle Comunicazioni 21 gennaio 2008 n.36, in G.U. 8 marzo 2008, n. 58. Approvato da Min. delle Comunicazioni, Min. delle Politiche giovanili, Min.Giustizia e Ordine nazionale dei giornalisti, Federazione Nazionale Stampa Italiana, Unione stampa sportiva italiana, Federazione Italiana Editori Giornali. Si tratta di un codice approvato dopo la morte dell’Isp.Raciti e si occupa di autoregolamentazione dell’informazione sportiva.
–Carta di Roma (12 giugno 2008): approvata dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti e dalla Federazione nazionale della stampa, si tratta di una carta deontologica molto importante e significativa avente per oggetto l’informazione su rifugiati, richiedenti asilo, vittime della tratta e migranti. Nel documento, si invita a prestare particolare attenzione all’adozione di termini giuridicamente appropriati, all’aderenza alla realtà dei fatti, evitando termini impropri e la diffusione di informazioni.
–Decalogo del giornalismo sportivo (31 marzo 2009): approvato dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, affronta il tema del confronto che i giornalisti hanno con società e organizzazioni sportive e con le autorità.
–Codice di autoregolamentazione per i processi in tv (22 maggio 2009): approvato da Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Agcom, Rai, Mediaset, RTI, Telecom Italia Media, FRT, Associazione Aeranti-Corallo, Fnsi, Cnog, critica apertamente i processi-show trasferiti dalle aule di giustizia in televisione e pone l’enfasi sui seguenti principi: richiamo alla differenza fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra accusa e difesa, sempre nel pieno rispetto dei diritti inviolabili della persona.
–Carta di Firenze (8 novembre 2011) – dedicata a Pierpaolo Faggiano, giornalista precario suicida e approvata dal Consiglio nazionale Ordine dei Giornalisti. Richiama tutti i principi deontologici fondamentali, ponendo l’accento su: riconoscimento e rispetto della dignità e della qualità professionale di tutti i giornalisti, dipendenti o collaboratori esterni e freelance. Il tema cruciale è quello della precarietà.
–Carta dei doveri del giornalista degli uffici stampa (10 novembre 2011): documento che disciplina le attività degli uffici stampa degli enti pubblici e privati e richiama, in particolare, il seguenti principio: autonomia dell’informazione indipendentemente dalla collocazione dell’Ufficio Stampa nell’ambito della struttura pubblica o privata.
Dalla rilettura delle carte deontologiche elaborate dalla categoria giornalistica, emerge chiaramente come la questione del “genere” o, comunque, dell’ottica di genere non venga minimamente affrontata: solo in qualche caso (cfr. Carta dei doveri del giornalista dell’8 luglio 1993) abbiamo potuto registrare un esplicito, ma generico, riferimento alla non discriminazione per sesso riconosciuta come valore fondamentale (anche nella Costituzione) o il riferimento alla tutela della sfera sessuale delle persone (cfr. art.11 del Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio attività giornalistica); per il resto tutti i codici deontologici (in molti casi, lo si evince anche dalla titolazione del documento) non si occupano della prospettiva di genere e delle relative problematiche, e ci riferiamo anche a quelli elaborati e approvati più di recente; logicamente, i documenti più datati non avrebbero potuto considerare il genere – o essere redatti nell’ottica di genere – essendo una tematica, in quel momento, ancora poco discussa e/o assente dalla copertura mediatica, oltre che dal dibattito pubblico italiano. Nelle Carte esaminate, il riferimento è sempre a principi e valori fondamentali – anche da un punto di vista etico, oltre che deontologico-professionale – e l’enfasi viene posta su diverse tutele previste, che vanno dalla “persona” al minore, all’immigrato, alla tutela delle vittime di tratta, della salute mentale e fisica etc., con una rilevanza particolare assegnata al concetto di dignità. Tutele e principi che vanno puntualmente a scontrarsi, non solo nei codici, con il diritto/dovere di cronaca. Dimensioni, queste, assolutamente fondamentali ma – lo ribadiamo – le carte deontologiche non entrano mai nel merito della cruciale questione di cui ci stiamo occupando, anzi tendono ad utilizzare spesso un linguaggio che alcune linee guida per la comunicazione di genere (lo vedremo in seguito) non avrebbero difficoltà a definire “sessista” o, quanto meno, costruito al maschile.
Va sottolineata, tuttavia, l’attenzione e la sensibilità della categoria giornalistica alle problematiche sociali che, di volta in volta, diventano centrali in virtù della copertura mediatica ricevuta: singolare, in tal senso, l’assenza di un testo specifico sulle discriminazioni di genere che rappresenterebbe un ulteriore passo avanti nella costruzione di una consapevolezza condivisa di genere.
Il contributo dell’autodisciplina pubblicitaria e le carte dei comunicatori
Il settore dell’autodisciplina e dei codici deontologici dei pubblicitari è quello che, senza dubbio, presta maggior attenzione al problema del genere, mostrandosi particolarmente sensibile alle relative problematiche. Non possiamo, tuttavia, non sottolineare come tale aspetto costituisca quanto meno un paradosso: infatti, pur evidenziando consapevolezza del problema ed essendo diversi i codici di autodisciplina del settore riferibili all’ottica di genere, non possiamo non registrare come l’universo anche simbolico della pubblicità continui ad utilizzare ed a promuovere stereotipi, luoghi comuni, immagini strumentali di figure femminili costantemente rappresentate come “richiamo sessuale”, oggetto del desiderio, spesso sottomesse all’altro sesso, altrettanto spesso in situazioni che richiamano i peggiori cliché riguardanti anche il mondo del lavoro e i ruoli istituzionali. Tuttavia, le norme di autodisciplina pubblicitaria, promosse anche da organismi internazionali, hanno avuto il merito indiscutibile di evidenziare come i messaggi pubblicitari potessero, in maniera più o meno corretta e/o subliminale, veicolare immagini lesive della dignità delle persone, e non soltanto delle donne. Numerose, in tal senso, le istituzioni che vigilano sulla effettiva applicazione delle norme di autodisciplina, anche se, spesso, si ha l’impressione che ci si sia talmente assuefatti ad un certo tipo di messaggi pubblicitari che la soglia di accettabilità sociale si sia notevolmente abbassata. Riportiamo di seguito alcuni documenti importanti in merito:
–European Advertising Standard Alliance, 1996, Survey on Self-Regulation for Advertising and the Portrayal of Women and Men in Europe, EASA Report, Bruxelles: nel 1996 l’EASA ha prodotto uno studio comparativo sulle raffigurazioni di uomini e donne che ha coinvolto 21 Stati membri
-Codice deontologico tecnici pubblicitari – Ass.Tecnici pubblicitari (23 marzo 1996): documento che promuove il valore della professionalità e della correttezza;
–Codice della Camera di Commercio Internazionale (ICC Code 1997): segnalo, in particolare, art. 4 “la pubblicità non dovrebbe permettere alcuna forma di discriminazione, inclusa quella basata sul sesso”;
–Reccomandation “Image de la Personne Humaine” – Bureau de Vérification de la Publicité, Francia (2001). Il documento promuove apertamente la lotta agli stereotipi sessisti e propone il concetto di “cosificazione” (riduzione della donna a funzione di oggetto);
–Codice dell’Autodisciplina pubblicitaria Italiana (56° ed. 2012) – a cura dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP), il quale verifica l’applicazione di regole che sono ispirate al Codice della Camera di Commercio Internazionale. Principi fondamentali promossi: no a violenza, volgarità e indecenza, rispetto credenze morali, civili e religiose; in particolare, l’art. 10 afferma anche che “la pubblicità deve rispettare la dignità della persona umana in tutte le sue forme ed espressioni”.
–La rappresentazione della donna in televisione – Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, Comitato Nazionale degli Utenti (2 marzo 2004). Il documento promuove una diversa rappresentazione femminile nei media e invita le emittenti a prestare attenzione alla figure femminili, soprattutto nei messaggi pubblicitari e nei programmi di intrattenimento.
–Codice deontologico e di buona condotta dei comunicatori pubblici – Associazione Italiana della Comunicazione Pubblica e Istituzionale: il documento sottolinea in particolare il principio di uguaglianza dei cittadini, assicurando “imparzialità e indipendenza nell’esercizio dei compiti e delle funzioni affidate, anche al fine di garantire la piena attuazione del principio della parità di trattamento dei cittadini”. Si parla di perseguimento dell’interesse pubblico e la comunicazione prodotta deve essere finalizzata a questo.
–Protocollo globale sull’etica nelle relazioni pubbliche – Global Alliance (febbraio 2003): si tratta di un codice etico e di comportamento professionale, in cui vengono riconosciute l’importanza della formazione professionale e della consapevolezza della responsabilità.
–Principi professionali e codici di comportamento delle relazioni pubbliche in Italia – Assorel (27 febbraio 2003): il documento si occupa di ruoli, funzioni e responsabilità dei consulenti e delle agenzie di Relazioni Pubbliche. Tra i principi deontologici promossi c’è il rispetto delle regole e delle leggi della comunicazione.
Linee guida e documenti sulla comunicazione di genere: il “caso Italia”
Sempre a proposito dell’uso non sessista della lingua (Sabatini, 1986 e 1987; Lepschy,1989), va sottolineato come nel nostro paese la questione sia ancora tutta da sviluppare e lo si comprende bene da come i media e la stampa, nonostante numerosi documenti (istituzionali e non) siano stati prodotti in merito, tendano ancora a produrre stereotipi e luoghi comuni sul genere femminile e ad utilizzare il maschile con funzione neutra (come noto, la lingua italiana non prevede il genere neutro). Sotto questo aspetto, nel campo della comunicazione istituzionale, la declinazione delle cariche al femminile è già ampiamente utilizzata in altri paesi europei, mentre in Italia è poco regolamentata e, come abbiamo visto, è lasciata alla responsabilità individuale delle pubbliche amministrazioni. Soltanto nel 2007, il Ministero per le riforme e le innovazioni nella Pubblica Amministrazione e la Ministra per le Pari opportunità hanno emanato una Direttiva sulle misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle Amministrazione pubbliche, nella quale si definiscono proposte per un uso non discriminatorio della lingua. Tutte le linee guida analizzate sono riconducibili ai medesimi testi e documenti prodotti a livello di Unione Europea e di ordini e associazioni professionali (giornalisti, comunicatori, pubblicitari etc.). Anche se è doveroso ricordare che nel 1987, a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per l’informazione e l’editoria – venne pubblicato Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini, testo che provocò un importante dibattito nel mondo dell’informazione e in quello accademico, fornendo una discreta visibilità e pubblicità all’interno della sfera pubblica: si trattava di un’analisi che metteva bene in luce il legame tra discriminazioni culturali e discriminazioni semantiche. Venne anche ripubblicato in seguito a cura della Commissione nazionale per la Parità e le Pari opportunità tra uomo e donna ed è certamente uno dei contributi più citati e tuttora adottati. Passeremo ora in rassegna i documenti più significativi in materia di linee guida per una comunicazione di genere, provando a fornire una chiave di lettura razionale e sistematica che ci permetta di individuarne punti di forza e criticità, elementi ricorrenti e differenze:
–Comunicazione istituzionale e pari opportunità. Linee guida per orientarsi – rif. Progetto Comunico Donna n. 157568 – Progetto finanziato dalla Regione Lombardia con il contribuito del Fondo Sociale Europeo e del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (http://bit.ly/1MFdc4D): Si tratta di una sorta di rapporto di ricerca, che presenta anche alcuni dati, dichiarando di voler essere anche una guida per orientarsi. Tra i valori promossi e la parole-chiave ricordiamo: superamento degli stereotipi, cambiamento culturale, trasversalità di genere, equità, rappresentatività dei target, linguaggio inclusivo e rispettoso dei due generi, coinvolgimento donne nelle azioni.
–Studio finalizzato all’analisi di best practices e alla redazione di Linee Guida per la comunicazione istituzionale in chiave di genere, in attuazione della L.R. 7/2007 della Regione Puglia: si tratta di un Report finale di ricerca (2009), completo e ben articolato, che parte dalle definizioni di comunicazione pubblica per arrivare alle azioni intraprese con riferimento alla comunicazione istituzionale di genere. Obiettivi dichiarati: rappresentare e dare visibilità a entrambi i sessi; utilizzare, nell’elaborazione dei testi, un linguaggio inclusivo dei due generi; superare l’uso strumentale, offensivo e oltraggioso dell’immagine femminile; introdurre nei progetti di comunicazione elementi che diano visibilità ai flussi migratori; stimolare il contributo e la partecipazione di donne professioniste al progetto di comunicazione.
–Raccomandazioni per lo sviluppo di una comunicazione istituzionale attenta al genere, Koinética, maggio 2008 a cura di R.E.P. (Rete Elette Pugliesi): si tratta di Linee guida agili ed estremamente sintetiche. I principi promossi sono: trasversalità, equità, rappresentatività. Indicazioni pratiche: usare multicanalità, chiarezza dei messaggi e, soprattutto, non diffondere e/o promuovere un’immagine strumentale della donna, facendo attenzione alle donne migranti. Nel documento si parla di fornire “occhiali di genere”.
–Linee guida per la valorizzazione dell’identità di genere e dell’immagine femminile nella comunicazione istituzionale – Regione Piemonte (http://bit.ly/1Awg5gz): anche in questo caso sono Linee guida articolate in punti, il documento risulta sintetico ed efficace; viene promosso un linguaggio inclusivo dei due generi; declinazione del linguaggio al femminile e nessuna discriminazione, prestando attenzione alla multietnicità; urgenza di superare l’uso strumentale, offensivo e oltraggioso dell’immagine femminile, intesa come richiamo sessuale: passivo oggetto di desiderio. Richiamo anche sull’importanza di evitare termini offensivi dell’identità di genere.
–Vademecum per l’uso del linguaggio non sessista – Provincia di Milano (http://bit.ly/1Ge2ePQ): nel documento viene posta particolare enfasi sul linguaggio, vengono perfino indicate “parole da evitare”; inoltre si forniscono consigli su come indicare le professioni al femminile. Il linguaggio deve risultare ampio e flessibile.
–Mìcomunìco. Comunicazione attenta al genere – Provincia di Milano (http://bit.ly/1FsvJz9): altro testo a cura della Provincia di Milano, scritto con linguaggio chiaro, il testo è estremamente sintetico anche nel dichiarare gli obiettivi: superare gli stereotipi, promuovere il cambiamento culturale; trasversalità di genere, equità, rappresentatività dei target; utilizzo di un linguaggio inclusivo e rispettoso dei due generi.
–Linee guida sulla Comunicazione orientata al genere. Consigliera Provinciale di Parità di Lodi (http://bit.ly/1Ljvtrc): va sottolineato che questo testo è stato adottato dalla Rete Nazionale delle Consigliere di Parità. Anche queste linee guida ritornano sulle stesse argomentazioni e principi: no all’uso strumentale di immagini femminili, evitare ogni richiamo di tipo sessuale; rendere visibile soggettività e presenza femminile nella realtà; utilizzare linguaggio inclusivo dei due generi; agevolare inserimento di donne di provenienza e cultura non italiane nel tessuto sociale; stimolare il contributo e la partecipazione di donne professioniste al progetto di comunicazione.
–Linee-Guida per la valorizzazione dell’identità di genere e dell’immagine femminile nella comunicazione istituzionale – Comune di Macerata (http://bit.ly/1CnQwob): Linee guida presentate in forma di elenco. Essenziali e pratiche, promuovono la valorizzazione dell’identità di genere e dell’immagine femminile nella comunicazione istituzionale, superando l’uso strumentale, offensivo e oltraggioso dell’immagine femminile. Tra le indicazioni: offrire visibilità a entrambi i sessi e utilizzare linguaggio inclusivo dei due generi.
–Brevi cenni sul linguaggio non sessista – Commissione per le Pari Opportunità – Comune di Sassari (25 maggio 2009): si tratta di linee guida che ricalcano, in tutto e per tutto, anche i riferimenti bibliografici dei documenti descritti in precedenza
Le Linee guida e il tentativo di operare una sintesi: caratteristiche essenziali e analogie
La catalogazione e l’analisi dei materiali fin qui elencati e descritti, relativi alla comunicazione istituzionale di genere, ci ha permesso di individuare analogie, differenze e criticità dei documenti stessi. Intanto, tre gli ambiti problematici particolarmente evidenti e significativi, sulla cui base abbiamo tentato di operare un’analisi più sistematica: (a) Linguaggio e contenuti (b) Canali e strumenti (c) Destinatari.
Sul piano del linguaggio e dei contenuti, le Linee guida e i vari testi analizzati (sulla comunicazione di genere) hanno evidenziato diversi elementi di continuità, aspetti ricorrenti, formule ripetute e, per certi versi, esse stesse stereotipate. Abbiamo potuto rilevare un costante e ripetuto richiamo a particolari accorgimenti, molto simili anche nella scelta dei termini e, perfino, degli aggettivi. Riportiamo di seguito le indicazioni e i suggerimenti più ricorrenti, vere e proprie “formule” caratterizzate da categorie concettuali anch’esse ripetute più volte:
-utilizzare un linguaggio chiaro e diretto, coerente con il target di riferimento;
-utilizzare un linguaggio inclusivo, evitando espressioni che potrebbero essere (involontariamente) anche offensive, e non soltanto dell’identità di genere (considerare etnia, cultura etc.);
-evitare scorrettezze terminologiche, facendo attenzione al significato esatto delle parole;
-fare attenzione all’uso monotono e ripetitivo di forme cristallizzate e della solita terminologia;
-limitare l’uso di figure retoriche e di perifrasi;
-limitare l’uso di termini eccessivamente tecnici e, in ogni caso, spiegarli;
-fare attenzione all’eccessiva emotività nella scelta dei termini, degli slogan, nella titolazione e nei commenti;
-la struttura delle argomentazioni deve essere chiara e logica;
-fare attenzione nella scelta e nell’uso delle immagini (foto e video).
-fare attenzione nella scelta e nell’uso di disegni e colori (spesso, sono sempre i medesimi, p.e. rosa, viola etc.);
-la figura femminile va presentata e raffigurata non soltanto nei ruoli tradizionali (interscambiabilità dei ruoli) e occorre prestare attenzione anche alla scelta dell’abbigliamento e dei colori;
-non presentare più la figura femminile come “richiamo sessuale” o come “oggetto del desiderio” – evitare la “cosificazione” della donna;
-le figure femminili presenti nei testi non devono avere una funzione “decorativa”: è consigliabile fare riferimento a persone, ruoli, professioni, situazioni concrete, reali.
-Costante anche il richiamo alla valorizzazione delle figure femminili come “soggettività autonome”, con un ruolo attivo nella società: occorre evitare ruoli stereotipati e situazioni di segregazione;
-rendere visibile la presenza delle donne nell’area delle decisioni, valorizzandone competenze ed esperienze
Rispetto ai canali di comunicazione ed agli strumenti, abbiamo riscontrato, ancora una volta, numerose analogie e corrispondenze anche nel lessico adottato. Anche in questo caso, ne riportiamo i punti più frequentemente rilevati e significativi:
-la scelta dei canali di comunicazione è fondamentale e va effettuata nella prospettiva della multicanalità;
-la scelta dei canali e degli strumenti di comunicazione va effettuata conoscendo i comportamenti e i consumi culturali dei target di riferimento;
-le azioni di comunicazione devono utilizzare old e new media, materiali on line e materiali off line;
-occorre essere consapevoli della molteplicità degli strumenti comunicativi utilizzabili; dare la precedenza all’utilizzo di quelli più accessibili a tutti i tipi di target;
-fondamentale il ruolo della Rete e, in particolar modo, del Web 2.0;
-considerare e sfruttare le opportunità e le potenzialità dei nuovi social network (già utilizzati da molte PP.AA. per fare customer satisfaction e coinvolgere i cittadini nelle decisioni – per ora, soprattutto a livello locale);
-in ogni caso, utilizzare canali di comunicazione in grado di raggiungere tutte le donne, prestando attenzione alla fasce più deboli (donne anziane, immigrate etc.)
Con riferimento ai destinatari, i documenti analizzati e prodotti dalle pubbliche amministrazioni convergono anche sulla definizione delle strategie di medio e lungo periodo:
-stimolare una conoscenza più approfondita ed una condivisione delle informazioni, dei temi, delle azioni intraprese tra tutte le istituzioni e i servizi coinvolti (logica di network);
-stimolare una conoscenza più approfondita dei fenomeni, anche da parte delle audience;
-promuovere l’accesso delle donne ai mezzi di informazione sia come fruitori che come operatori;
-coinvolgere le protagoniste delle azioni di comunicazione e/o delle campagne nella loro progettazione, realizzazione e valutazione;
-coinvolgere i soggetti responsabili nei processi decisionali, in una logica di sistema.
Oltre la deontologia. La centralità della dimensione etica
La descrizione e l’analisi della documentazione raccolta ci mette senz’altro nelle condizioni di provare a fornire una lettura critica di quanto emerso; una ri-lettura funzionale, perché no, anche ad un approccio alla complessità che intende fornire elementi per una possibile valutazione dei numerosi testi raccolti e catalogati. Quando, in una ricerca di questo tipo e con queste finalità, si affronta la questione dell’individuazione di possibili linee-guida per la comunicazione su un tema (il genere) così storicamente controverso, si entra evidentemente in un’area della prassi – non soltanto comunicativa – i cui confini appaiono sempre meno definiti e riconoscibili. L’ambito problematico – come abbiamo visto – diviene ancor più complesso nel momento della comparazione e del confronto con i codici deontologici di giornalisti, pubblicitari e comunicatori. Si tratta di una complessità legata a molteplici dimensioni che richiede, in ogni caso, un approccio alla complessità e una logica che non può che essere di sistema. Perché, l’oggetto “comunicazione di genere” è multidimensionale e chiama in causa più livelli di discorso: richiede, in altre parole, una nuova prospettiva epistemologica e una capacità di analisi più centrata sul sistema di relazioni tra le variabili coinvolte che sulle variabili stesse (Bateson, 1972). Inoltre, al di là della comunicazione di genere, quello dell’etica e delle deontologie (intenzione vs responsabilità), è già di per sé un terreno estremamente scivoloso e sconnesso che non si presta in alcun modo a ricette o soluzioni valide una volta per tutte. Tuttavia, ciò non deve impedire la ricerca di un innalzamento qualitativo del livello di consapevolezza – da parte di operatori e destinatari delle azioni – rispetto alla complessità e alle criticità che la prassi informativa e comunicativa comporta e che richiede urgentemente una formazione di più ampio respiro. Non è semplice, ancor di più quando si affrontano le problematiche di genere e, più in generale, le implicazioni di una democrazia paritaria tuttora incompiuta: esiste il rischio concreto, oltre che di non considerare tutte le variabili intervenienti, di confondere le regole in senso tecnico con le regole in senso etico dell’informare e del comunicare (Dominici, 1998); d’altra parte, l’innovazione tecnologica tende a condizionare sempre di più la progettazione e la realizzazione di qualsiasi azione comunicativa, non solo all’interno della prospettiva di genere. Anche su questo punto, occorre prestare attenzione: esiste il rischio di confondere il mezzo con il fine, di credere che le tecnologie della comunicazione siano, non solo l’infrastruttura organizzativa fondamentale, ma la comunicazione stessa, perdendo di vista il problema delle competenze e dei rapporti di potere.
In altri termini, la questione cruciale di una comunicazione responsabile attenta al genere si è resa ancor più urgente ma, allo stesso tempo – ce ne siamo resi conto nel nostro percorso – è aumentato il rischio di ridurre una questione così complessa e articolata ad un problema puramente linguistico o di tecnicalità nell’uso delle parole (Holmes – Meyerhoff,2003) anche se l’urgenza di individuare termini e categorie concettuali più adeguati e pertinenti all’oggetto considerato – con le relative definizioni operative – è reale[1].
Questo è uno degli elementi più ricorrenti non soltanto nelle linee guida analizzate. Peraltro, alcuni manuali operativi sembrano, quasi paradossalmente, in un certo senso favorire la proliferazione di stereotipi e pregiudizi sul genere, o comunque il loro rafforzamento e la loro capacità di mediazione simbolica e culturale. La soluzione – a nostro avviso – non può certamente essere nella definizione di una comunicazione “neutra” (che svuoterebbe il significato stesso del comunicare), nell’adozione di un linguaggio politicamente corretto o, peggio ancora, nell’individuazione di nuove forme di censura o magari “patenti” (Popper, Condry 1994) da assegnare a comunicatori, operatori e/o giornalisti “corretti”; soluzioni di questo tipo, al contrario, risulterebbero quanto meno fuorvianti e potrebbero configurarsi come un preoccupante ridimensionamento delle fondamentali libertà di informare ed essere informati. Non esistono – a nostro avviso – altre vie di uscita o scorciatoie: il nodo cruciale è la formazione rigorosa e multidisciplinare che deve andare ad integrare le tradizionali competenze tecniche e tecnico-linguistiche, che dovrebbero essere già in possesso delle suddette figure professionali.Fatte queste considerazioni e valutata la delicatezza del tema, non è certamente impresa semplice – come detto – ragionare sulla complessità dell’informare e del comunicare, a maggior ragione, in una prospettiva di genere partendo da un tipo di analisi che, in prima istanza, ha proprio l’obiettivo di ridurre tale complessità, fornendo anche alcune indicazioni operative per un esercizio più professionale e concretamente responsabile dell’attività informativa e comunicativa. Si tratta, in fondo, di individuare i “confini” di quella comunicazione che, oltre ad essere chiara ed efficace, deve essere in grado di emanciparci, allontanando i rischi di una comunicazione fondata sulla dissimulazione, orientata cioè verso una visione particolare e parziale della realtà.
I piani di discorso e i livelli di analisi da tenere insieme sono molteplici, come confermato dall’analisi dei materiali raccolti; così come molteplici sono gli approcci disciplinari che consentono di mantenere quella prospettiva sistemica necessaria proprio in virtù della natura sfuggente e ambigua dell’oggetto di studio. Come noto, i complessi processi di percezione (individuale e collettiva) e di costruzione/rappresentazione sociale del reale – nel nostro caso del “genere” – sono mediati simbolicamente dal linguaggio e dalla comunicazione.
Dunque, per poter arrivare a riflettere sul tema dell’etica dell’informazione e della comunicazione (Apel, 1973, 1992, 1997), fornendo poi indicazioni di carattere operativo è assolutamente necessario, per non dire propedeutico, tentare prima di chiarire alcune questioni riguardanti il rapporto tra linguaggio e realtà e, in secondo luogo, le funzioni che linguaggio e comunicazione assolvono all’interno dei sistemi sociali: riduzione della complessità, mediazione dei conflitti, gestione del rischio/incertezza (Dominici, 2011). Per entrare nel merito dell’analisi, è possibile sostanziare da subito tali questioni, ponendoci dei quesiti che – teniamo a precisare – non vogliono rappresentare, e di fatto non rappresentano, la semplice riformulazione delle ben note aporìe dell’etica della comunicazione (Fabris, 2004) e, più in generale, degli studi su linguaggio e comunicazione. Si tratta di domande le cui possibili risposte si rivelano, a nostro avviso, oltre che funzionali, assolutamente fondamentali per il tipo di lettura critica che intendiamo proporre. Altrimenti, la nostra analisi rischierebbe di rimanere ancorata su un piano puramente descrittivo, legato inevitabilmente soltanto ad una (presunta) correttezza tecnica e formale. Anche se – è bene chiarire – non si tratterà di risposte esaustive, quanto di suggestioni e spunti che avrebbero meritato ben altro approfondimento.
La comunicazione pubblica, non solo rispetto alle questioni di genere, non può più permettersi di trascurare la dimensione etica relativa alle azioni ed alle strategie comunicative che si vogliono intraprendere. Senza calcolare la valenza strategica della valutazione della comunicazione che, di fatto, costituisce il vero salto qualitativo verso una Pubblica Amministrazione più vicina alle cittadine ed ai cittadini. Si tratta – lo ribadiamo con forza – di un livello di analisi che va oltre i codici e/o le carte deontologiche dei giornalisti (Viali, 2001) e dei comunicatori (Scandaletti, 2003). Le variabili da considerare sono numerose: proviamo a richiamarle attraverso un elenco di domande – assolutamente trasversali rispetto ai diversi settori della comunicazione – formulate non in via teorico-astratta bensì sulla base dell’analisi dei testi effettuata. Si tratta di quesiti che hanno l’obiettivo di mettere in luce dove si annida l’ambiguità e l’ambivalenza, l’estrema difficoltà delle proposte deontologiche e delle linee guida di definire un quadro di riferimento concettuale, teorico e metodologico inevitabilmente complesso:
-è il linguaggio che prende forma a partire dagli oggetti a cui si riferisce oppure è il linguaggio a far esistere i propri oggetti, definendoli e rendendoli “argomenti del sapere”?
-Qual è il rapporto tra linguaggio, parole e oggetti denominati (genere, forme e modalità della discriminazione etc.)?
-E a seguire: qual è la relazione tra parole, oggetti e significati?
-È possibile, alla luce di una natura intrinsecamente complessa e sfaccettata, arrivare alla definizione di un linguaggio e di una comunicazione “neutri” ed equidistanti, assolutamente “oggettivi” e in grado di preservare i principi della correttezza, dell’obiettività e della responsabilità ?
-Come possiamo garantire – nello specifico, rispetto alle questioni di genere e delle pari opportunità – i valori della rappresentatività, della trasversalità e dell’equità ?
-E quale può essere il contributo (valore aggiunto) della prospettiva etica e, in particolare, dell’etica della responsabilità?
-Ed ancora: è possibile trovare un accordo sulle dimensioni non soltanto semantiche ma pragmatiche del comunicare il genere ?
-Infine, e la questione è strategica: esiste una correlazione – noi ne siamo convinti – tra formazione/possesso delle competenze/aggiornamento continuo e il comunicare in maniera eticamente responsabile, oltre che efficace ?
Per una comunicazione attenta al genere: tra arbitrarietà e ambiguità
Come noto, la realtà in cui viviamo e agiamo è una realtà che tendiamo a percepire come “naturale”, così come spesso identifichiamo come “naturali” processi che, al contrario, sono “culturali” – esiti di un processo di costruzione sociale (Berger – Luckmann, 1966) – e scaturiscono da complesse dinamiche di produzione sociale dei codici e dei simboli condivisi. Possiamo senz’altro affermare che questa realtà empirica è la risultante di un processo di semiosi illimitata in cui questa viene totalmente e completamente “etichettata”: in altri termini, il mondo intorno a noi viene ricoperto di etichette cariche di significato che di fatto attivano continui ed incessanti processi interpretativi anche in assenza di un interlocutore. Potremmo dire, richiamando una famosa metafora di Baudelaire, di trovarci proiettati, quasi gettati, all’interno di un’immensa foresta di simboli, nella quale la decodifica (interpretazione) dei significati semplici e complessi, manifesti e latenti, è operazione tutt’altro che scontata. Quando tentiamo di interpretare un comportamento, una situazione, un’immagine o un testo di qualsiasi genere, forse non siamo mai sufficientemente consapevoli delle numerose implicazioni e passaggi (logici, cognitivi, semantici e sociali) che questa operazione comporta. Sembra diventare un processo quasi istintivo che, tuttavia, segue modalità pre-codificate all’interno dei modelli culturali egemoni. Ciò avviene già ad un primo livello di base in cui le parole e i concetti, nel dare un “nome” agli oggetti ed ai processi, ne rendono possibile la definizione in loro assenza. Gli enunciati, invece, svolgono la funzione di mettere in relazione tali denominazioni, creando tra queste delle connessioni che accrescono la complessità interpretativa: infatti, le parole non possono essere pensate e decodificate che all’interno delle frasi, dei testi e delle situazioni concrete in cui vengono utilizzate. Pertanto, non è possibile pensare di isolare e decontestualizzare le parole e i termini al fine di individuarne un’interpretazione più corretta e/o dimensioni semantiche più convincenti. Allo stesso modo, dobbiamo essere consapevoli che, nel momento in cui si condivide un codice linguistico, qualsiasi parola, qualsiasi significato della parola costituisce di fatto un “prodotto sociale”. Viceversa, il significato testuale tende a configurarsi come preciso e concreto, anche se definito all’interno del sistema di regole e valori condiviso in un contesto storico-sociale. Altro aspetto importante riguarda il diverso valore informativo contenuto in ogni enunciato: cioè il rapporto tra parola e oggetto “etichettato” (denominato) non esaurisce mai la questione fondamentale del suo significato. Inoltre, le singole parole non hanno soltanto un rapporto di denotazione (denominazione) o riferimento con gli oggetti che designano, esse in maniera molto più articolata esprimono un senso. Tali variabili non possono essere sottovalutate (De Beaugrande –Dressler, 1994; De Mauro, 20006). Linguaggio e comunicazione, dunque, permettendo la condivisione delle risorse informative e conoscitive, rappresentano il vero valore aggiunto dell’azione sociale che si caratterizza essenzialmente come un problema di conoscenza e di gestione delle informazioni. Si avverte, in tal senso, l’esistenza di un vuoto etico (Jonas, 1979) che va necessariamente colmato con “nuove” responsabilità e con una rinnovata consapevolezza del potere e delle funzioni assolte dalla comunicazione e dall’informazione all’interno dei sistemi sociali e delle organizzazioni complesse (Invernizzi, 2000).
Nel caso della nostra ricerca, si tratta, in sostanza, di una sfida che le PP.AA. non possono permettersi di perdere, magari trascurando il loro ruolo educativo e di accompagnamento al mutamento sociale. La comunicazione – insieme all’affermazione di una cultura della comunicazione – può contribuire in maniera decisiva a promuovere una cultura attenta al genere ed alla valorizzazione delle differenze che potrebbe aprire ulteriori scenari e prospettive (Bimbi, 2003); ma può anche determinare il rafforzamento di quegli stessi stereotipi e luoghi comuni, non considerando le specifiche caratteristiche di destinatari, strumenti, situazioni, contesti etc.
Prima di addentrarci in considerazioni e indicazioni di carattere più specifico, ci sia permessa una considerazione di carattere generale: rispetto all’analisi condotta sulla comunicazione pubblica al femminile prodotta dalle PP.AA. – ma il discorso potrebbe essere allargato, tranquillamente, ad altri ambiti problematici – sembrano mancare ancora sia una vera e propria “cultura della comunicazione”, intesa come servizio e come condivisione di informazioni e conoscenze, che, dal punto di vista del modello organizzativo, la capacità di fare rete, di fare sistema. Nonostante alcuni segnali incoraggianti, legati alle innovazioni ed alle normative in materia di trasparenza e accesso, diversi sono i rapporti e gli studi che testimoniano un ritardo perfino nell’applicazione della 150/2000. Nello specifico, la percezione, con riferimento ai materiali analizzati, è ancora una volta quello di una sostanziale debolezza o, quanto meno, di un’inefficienza delle strategie di comunicazione con riferimento al genere. Sullo sfondo, risulta evidente la mancanza di una riflessione più generale e sistematica sulla comunicazione istituzionale, che costituisce un’ulteriore conferma del ritardo culturale del sistema-Paese rispetto a queste tematiche. Non è soltanto un “problema di comunicazione”, la questione è culturale ! E non riguarda esclusivamente l’Umbria, anzi! Con riferimento particolare alle istituzioni, alle organizzazioni complesse, perfino alla Politica, si rende necessaria una riflessione sul senso profondo del comunicare, un discorso che chiama direttamente in causa i principi-guida della comunicazione pubblica (Mancini, 20116; Faccioli, 2000; Grandi, 2001): ascolto, semplificazione (Fioritto, 1997), trasparenza, accesso, partecipazione, condivisione (Arena, 1999), inclusione (Bobbio, 2004), cittadinanza (democrazia). Di conseguenza, un’analisi critica va fatta anche su un tipo di comunicazione che, troppo spesso, sembra improvvisata (a tutti i livelli, istituzionali e non) e inscrivibile nella ben nota (purtroppo) logica dell’emergenza, che segna da sempre il nostro sistema-Paese. Ciò dipende, essenzialmente, dal fatto che la comunicazione, in generale, e, nel nostro caso, la comunicazione pubblica (istituzionale, interna ed esterna, politica, sociale etc.) continua ancora ad essere vista, riconosciuta e, soprattutto, percepita – da operatori e non – come uno strumento per l’emergenza e per la gestione della crisi: uno strumento fondamentale, magari indispensabile, ma per “fare/farsi pubblicità”, per promuovere la propria immagine o, peggio ancora, come uno strumento per coprire le inefficienze dei sistemi organizzativi e/o delle strategie adottate. Siamo ancora lontani dalla presa di coscienza che “comunicazione è organizzazione” e che qualsiasi azione comunicativa deve essere mirata, calibrata, continua nel tempo (soprattutto) e che deve essere sottoposta a valutazione ex ante ed ex post. Siamo ancora lontani dalla consapevolezza, di conseguenza, che la comunicazione pubblica può e deve senz’altro informare, educare, sensibilizzare, determinare comportamenti più corretti: ma può anche – ed è l’aspetto più complesso e affascinante – accrescere la capacità di mobilitazione dei soggetti deboli/discriminati (donne, immigrati, omosessuali, disabili, precari, lavoratori etc.), fornendo loro informazioni, conoscenze e, più in generale, strumenti per essere cittadini fino in fondo; questo, evidentemente, incrementando il capitale sociale e l’empowerment di tutti i soggetti coinvolti.
In conclusione, l’auspicio è che comunicazione e formazione (il Legislatore ha fornito, anche di recente, alcune risposte/ indicazioni importanti in merito) possano rappresentare sempre più, nel prossimo futuro, le risorse e i beni intangibili che consentono, in generale, alle istituzioni, ai sistemi sociali ed alle organizzazioni complesse e, caso della nostra ricerca, alle pubbliche amministrazioni di affrontare le problematiche sociali, politiche e culturali svolgendo quelle funzioni vitali di mediazione/gestione delle forme di conflittualità e di discriminazione. A tutela del principio delle pari opportunità, riconosciuto anche a livello costituzionale, e per la concreta realizzazione di una cultura attenta e sensibile al genere. A maggior ragione, in un contesto storico-culturale come il nostro, dove le norme e le varie forme di tutela giuridica non sono state in grado di eliminare – probabilmente, non lo saranno mai – o, quanto meno, di ridimensionare le varie forme di discriminazione e, soprattutto, di violenza contro le donne (i “diversi”, i soggetti deboli etc.), la comunicazione e la formazione rimangono quelle dimensioni assolutamente strategiche per la vita sociale, la Politica, per il risveglio di un civismo in grado di incidere sulla percezione (individuale e collettiva) e sui fenomeni di rappresentazione e autorappresentazione. Tre i livelli su cui incidere con strategie altrettanto specifiche: opinioni, atteggiamenti e comportamenti.
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–Carta di Treviso (5 ottobre del 1990) – aggiornata con il Vademecum del 1995 e, successivamente, il 30 marzo del 2006 con osservazioni del Garante protezione dati personali: approvata da FNSI, Ordine dei giornalisti e Telefono Azzurro.
–Carta dei doveri del giornalista (8 luglio 1993) – rif. Legge 69 del 1963 – Ordine dei giornalisti e Federazione nazionale della stampa
–Carta di Perugia (11 gennaio 1995), approvata dal Consiglio dell’Ordine regionale dei giornalisti, Federazione regionale dei medici e Ordine regionale degli psicologi.
–Carta Informazione e Sondaggi (7 aprile del 1995): protocollo d’intesa approvato da Ordine dei Giornalisti, Associazione che comprende Istituti di Ricerche di mercato (ASSIRM).
–Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio attività giornalistica (26 e 27 marzo 1998) – rif.Testo unico sulla privacy (D. lgs 196/2003).
–Codice di autoregolamentazione TV e minori (29 novembre 2002): emanato con Decreto Ministero Comunicazioni 29 novembre 2002.
–Europa e informazione: la Carta di Gubbio (21 maggio 2004): approvata da Ordine dei Giornalisti.
–Carta dei doveri dell’informazione economica (8 febbraio 2005): approvata dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti e da Consob.
–Codice di autoregolamentazione delle trasmissioni di commento degli avvenimenti sportivi (25 luglio 2007) – rif.Decreto del Ministero delle Comunicazioni 21 gennaio 2008 n.36, in G.U. 8 marzo 2008, n. 58. Approvato da Min. delle Comunicazioni, Min. delle Politiche giovanili, Min.Giustizia e Ordine nazionale dei giornalisti, Federazione Nazionale Stampa Italiana, Unione stampa sportiva italiana, Federazione Italiana Editori Giornali.
–Carta di Roma (12 giugno 2008): approvata dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti e dalla Federazione nazionale della stampa.
–Decalogo del giornalismo sportivo (31 marzo 2009): approvato dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti.
–Codice di autoregolamentazione per i processi in tv (22 maggio 2009): approvato da Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Agcom, Rai, Mediaset, RTI, Telecom Italia Media, FRT, Associazione Aeranti-Corallo, Fnsi, Cnog.
–Carta di Firenze (8 novembre 2011) – dedicata a Pierpaolo Faggiano, giornalista precario suicida e approvata dal Consiglio nazionale Ordine dei Giornalisti.
–Carta dei doveri del giornalista degli uffici stampa (10 novembre 2011), approvata da OdG e FNSI.
Documenti autodisciplina pubblicitaria e carte dei comunicatori
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–Codice deontologico tecnici pubblicitari – Ass.Tecnici pubblicitari (23 marzo 1996):
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–Reccomandation Image de la Personne Humaine – Bureau de Vérification de la Publicité, Francia (2001).
–Codice dell’Autodisciplina pubblicitaria Italiana (56° ed. 2012) – a cura dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP)
–La rappresentazione della donna in televisione – Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, Comitato Nazionale degli Utenti (2 marzo 2004).
–Codice deontologico e di buona condotta dei comunicatori pubblici – Associazione Italiana della Comunicazione Pubblica e Istituzionale.
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[1] Si veda in proposito il glossario della Commissione Europea, 100 Parole per la Parità, Lussenburgo (1998), che ha tradotto il vocabolario delle pari opportunità in tutte le lingue comunitarie.