Questo mio post, insolitamente breve, prende le mosse dalla lettura dell’interessante intervista di Massimo Gaggi a Walter Isaacson, pubblicata sul Corriere della sera di oggi con il seguente titolo «L’uomo che svelò Steve Jobs: “La tecnologia è umanista”», e dal relativo commento su FB. Diverse le questioni trattate: 1) la simbiosi tra arte e scienza (2) il superamento della divaricazione tra materie scientifiche e materie umanistiche (le migliori università, anche a suo dire, sono quelle che tentano di ridurre le distanze tra le discipline nei percorsi didattico-formativi offerti – rinvio ai tanti contributi sul tema) (3) l’urgenza di un adeguamento della scuola al “nuovo mondo”. Questioni su cui sono tornato frequentemente e di cui mi occupo da tempo, non soltanto a livello di ricerca scientifica. Temi e questioni di vitale importanza, non soltanto per l’università e la ricerca scientifica, ma anche e soprattutto per la realizzazione di società realmente aperte e inclusive.
Il nucleo centrale dell’intervista è racchiuso nella seguente affermazione: “Il vero valore creativo, soprattutto, nella rivoluzione tecnologica in corso, non viene dagli ingegneri, ma da chi sa connettere (!) le discipline umanistiche alla tecnologia, le arti alla scienza: per avere successo oggi servono conoscenze su tutti e due i fronti“
Pur tuttavia, continuo – non posso nascondervelo – a stupirmi del ritardo con il quale si prende atto di tali questioni (evidenze). C’è chi se ne occupa da una vita e ci sono studiosi che ci lavorano da decenni, avendo costruito i loro percorsi di ricerca su multidisciplinarietà e approccio alla complessità. Possibile che debba essere sempre qualche “guru” o visionario (non mi riferisco, evidentemente, a Isaacson ma a molti altri casi anche di presunti “esperti”…) a presentarci e “narrarci”, come originali e innovative, idee e proposte che vengono da esperienze di studio e ricerca sviluppate molto, ma molto prima…Media e rete riprendono e alimentano il flusso (la famosa “spirale del silenzio”), in molti casi semplificando e polarizzando il dibattito (?), facendo diventare un’idea o un tema “alla moda” – una parola-chiave da utilizzare sempre perché funziona, è convincente, affascina – spesso senza alcun rilievo critico…E nella stessa linea di discorso, non possiamo non interrogarci rispetto a come si costruiscano autorevolezza e credibilità – di persone e contenuti – nella Società Interconnessa (e ipercomplessa)? Si tratta di dinamiche già presenti nella società di massa ma che, probabilmente, il nuovo ecosistema amplifica a dismisura (1996).
Educare e formare alla complessità e al “pensiero critico” …e, come dico sempre, fondamentale la scuola, la “via obbligata” per la cittadinanza e l’inclusione. All’università è troppo tardi per avere #TestebenFatte. Ma, per la cosiddetta “società della conoscenza”, servono soltanto #saperi e #competenze tecniche? È la prassi relazionale, organizzativa e sociale a confutare ripetutamente questo “luogo comune”, che p.e. tanto condiziona (anche, ma non soltanto) gli indirizzi di studio e le scelte formative dei giovani. Un ritardo culturale pesante e su cui ho scritto molto (rinvio anche ad altri post).
Pensiamo piuttosto a come restituire credibilità a lauree e titoli di studio che sono di fondamentale importanza per comprendere e gestire la complessità del mutamento in atto e che, al contrario, continuano ad essere presentati e raccontati, non soltanto a livello mediatico, come “inutili”…con tutte le ricadute del caso.
Il problema è educare e formare #Persone preparate ma, ancor di più, abili ed elastiche mentalmente: educate e formate al “pensiero critico”, alla logica (da tempi non sospetti, parlo di “fare”/ “praticare” logica e filosofia fin dalle elementari) e, nella progressiva maturazione intellettuale, educate e formate a saper trasgredire e oltrepassare i confini disciplinari che rendono le conoscenze e i saperi incapaci di comprendere la complessità. Questa, a mio avviso, la grande sfida che ci attende tutt*: una sfida a dir poco impegnativa, destinata ad avere ricadute a tutti i livelli, qualora venissero perseguiti tali obiettivi (lungo periodo). Ricadute significative per la trasparenza e l’efficienza dei sistemi (culture organizzative “aperte” e cooperative), ma anche per i diritti di cittadinanza, i diritti umani, la democrazia e perfino per il nostro modo di guardare, incontrare, comprendere l’ALTRO, sapendo riconoscere nel pluralismo e nella diversità delle opportunità e non dei rischi. Argomenti che vanno sciolti e sviluppati e su cui tornerò anche in futuro.
Chiudo con le parole di un punto di riferimento importante per la mia formazione e i percorsi di ricerca intrapresi; parole che mi/ci fanno sentire meno sol* in questo viaggio dentro la complessità della vita (conoscenza), sintetizzando e rafforzando una prospettiva portata avanti da molti anni:
“Nel corso del diciannovesimo secolo è cominciata una dissociazione, divenuta oggi disgiunzione, tra due componenti della cultura, quella scientifica e quella umanistica. La cultura scientifica produce conoscenze che non vanno più al mulino della cultura umanistica, la quale non ha che vaghe conoscenze mediatiche degli apporti capitali delle scienze alla conoscenza del nostro universo fisico e vivente. Ma la cultura scientifica conosce oggetti, ignora il soggetto che conosce e manca di riflessività sul divenire incontrollato delle scienze. La parcellizzazione delle conoscenze in discipline e sotto-discipline aggrava l’incultura generalizzata. Di qui la necessità di stabilire comunicazioni (!) e legami fra le due branche separate della cultura […] La vulgate tecno-economica dominante considera la cultura umanistica senza interesse o un puro lusso, spinge per ridurre i corsi di storia, quelli di letteratura, e per eliminare, come chiacchera, la filosofia. L’imperialismo delle conoscenze calcolatrici e quantitative progredisce a scapito delle conoscenze riflessive e qualitative” (Edgar Morin, 2015)
Lo ripeto: questioni che riguardano da vicino non soltanto scuola e università
immagine: opera di Caspar David Friedrich