L’innovazione di un Paese è la sua cultura della responsabilità

Come sempre, come ogni volta…i discorsi di sempre, i discorsi di ogni volta…quelli di un Paese (istituzioni, politica, classe dirigente, sistema dei media e dell’informazione, opinioni pubbliche, società civile, agenzie di socializzazione etc.) incapace di costruire una vera cultura della sicurezza e della prevenzione; incapace di costruire una cultura condivisa della responsabilità che non è fatta soltanto di leggi e opportunità tecnologiche. La consueta irresponsabilità diffusa a tutti i livelli: la storia di questo Paese è segnata da disastri ed emergenze continue che, puntualmente, ne dimostrano l’arretratezza culturale, soprattutto in termini, appunto, di assenza di una cultura della prevenzione e della sicurezza, di una cultura della responsabilità che non può, evidentemente, essere costruita o imposta per legge.

Storicamente, attendiamo sempre che succeda qualcosa di grave e drammatico per agire, per prendere decisioni, per pianificare qualcosa; da sempre, ben preparati e competenti nel gestire ed affrontare le emergenze di qualsiasi tipo, mostriamo tutta la nostra debolezza, incapacità, mancanza di volontà (non soltanto politica) nel definire e realizzare le condizioni “empiriche” e strutturali della prevenzione (-> centralità strategica dell’educazione e della scuola).

La “questione culturale” – e il problema della responsabilità – è (dovrebbe essere) al centro, sempre! Anche con riferimento ad altre problematiche importanti e delicate come la corruzione, la legalità, i valori del pluralismo, della diversità e della convivenza, la cittadinanza, l’inclusione etc. Ai nostri giorni se ne parla sempre più spesso e già questo potrebbe apparire come un primo, timido, segnale di cambiamento culturale e di mentalità: in realtà, con lo scorrere degli eventi, tutto ritorna e sembra ricadere nell’oblio e ci si accorge come, la maggior parte delle volte, si tratti di discorsi e analisi che vengono opportunamente sviluppati in prossimità dell’evento disastroso, dell’emergenza e/o della situazione rischiosa; discorsi e analisi che vengono poi, altrettanto puntualmente, abbandonati quando svanisce l’ondata emotiva e i riflettori del sistema mediatico e dell’informazione si spostano su altre questioni. Vecchia storia…una vecchia storia che lascia una grande amarezza e senso di impotenza in tutti, ma ancor di più in coloro che da tanti anni si sforzano di sottolineare/evidenziare gli errori strategici di un Paese che, solo a parole, mostra di aver compreso la valenza strategica della ben nota “questione culturale”.

Lo ribadisco ancora una volta ed è con rammarico che lo faccio da vent’anni a questa parte: siamo ben al di là di ogni discorso sul controllo e la razionalità nelle organizzazioni e nei sistemi sociali; siamo ben al di là di ogni discorso e narrazione sulla tecnologia e sul digitale come soluzioni di tutti i problemi. E dobbiamo rapidamente prendere atto, ancora una volta, che non ci potrà essere “vera” innovazione, quella sociale e culturale, se non riusciremo a fare i conti, concretamente, con la “questione culturale” e con una “cultura della irresponsabilità” (nel 2009, proposi in tal senso e nell’ambito di una ricerca, la definizione di “società dell’irresponsabilità”) che continua, oltre che a produrre regolarmente emergenze di ogni tipo, a fare molte più vittime di qualsiasi disastro o evento catastrofico.

E tutto ciò, non è inutile ribadirlo, si verifica ben al di là (anche) di un quadro normativo e giuridico complesso e articolato – forse, eccessivamente articolato – come il nostro. Anzi spesso “le cose” accadono proprio nel rispetto, almeno formale, delle normative e delle procedure previste. Ecco perché, peraltro in uno scenario complessivo di nuove diseguaglianze e asimmetrie, la questione è soprattutto “culturale”: si tratta dell’ostacolo più difficile da affrontare anche con riferimento a quella che ho definito “innovazione inclusiva”.

Scrivevo diversi anni fa: “La società della conoscenza, da un lato, è in grado di definire le condizioni e i modelli interpretativi per affrontare il rischio, l’incertezza, la complessità, l’imprevedibilità dei sistemi e delle organizzazioni, dandoci perfino l’ILLUSIONE del CONTROLLO TOTALE sull’AMBIENTE e sugli ECOSISTEMI; dall’altro, non ha ancora realizzato pienamente quei MECCANISMI SOCIALI di (AUTO)PROTEZIONE dall’IMPREVEDIBILITÀ dei comportamenti individuali e/o collettivi, spesso dettati – a tutti i livelli della catena decisionale e delle responsabilità – da una razionalità soltanto apparente e, in ogni caso, da una RAZIONALITÀ LIMITATA”.

E come sempre, come ogni volta, il Paese non potrà che ripartire dal messaggio forte, fortissimo, di PERSONE comuni che, nel silenzio, senza pensare in alcun modo alla propria visibilità e immagine, hanno dato e stanno dando tutto per aiutare, soccorrere, sostenere, comprendere chi sarà segnato per sempre da un dolore immane che non ha e non può avere giustificazioni…

 

L’ho scritto di getto, ho scritto ciò che sentivo…da una parte, combattuto se restare in silenzio di fronte a tanta sofferenza; dall’altra, con la speranza che questi eventi, così drammatici, lascino almeno un segno indelebile anche, e soprattutto, nella coscienza e nella memoria di chi non è stato coinvolto in maniera diretta. Il cambiamento culturale…i processi dal basso…chissà…Ora il rischio più grande sarà, ancora una volta, quello dell’oblio: un OBLIO anche, e soprattutto, delle RESPONSABILITÀ.

 

E desidero condividere, con chi leggerà questo breve contributo, una vecchia dedica.

«Questo volume è dedicato alle vittime del terremoto del 6 aprile con lo sguardo rivolto a quelle di tutte le catastrofi (naturali e non) e con l’auspicio che la loro memoria resti ben salda nelle persone, nelle istituzioni e, soprattutto, nella politica, che è chiamata a decidere con competenza, senso di responsabilità e nell’interesse del Bene comune. Affinché possa realizzarsi anche la ricostruzione del paesaggio sociale e culturale di chi è stato duramente colpito da questi eventi disastrosi. Affinché la cd. società della conoscenza non si configuri come società dell’ignoranza e della mancanza di competenze. Affinché, nei sistemi sociali, l’imprevedibile e l’incerto non scaturiscano da azioni irresponsabili e da condotte irrazionali (o, per meglio dire, solo apparentemente razionali). Il mutamento che stiamo vivendo su scala globale richiede, d’altra parte, un’attenta valutazione delle conseguenze delle proprie azioni da parte di istituzioni e organizzazioni complesse, ma anche da parte di ogni singola persona. Una responsabilità fondata su criteri di razionalità che deve oltrepassare la sfera delle norme e delle sanzioni definita dal diritto (nazionale e internazionale). Ognuno è chiamato, nel rispetto dei propri ruoli, a fare la propria parte.

Un pensiero particolare poi è rivolto ai giovani studenti universitari che hanno perso la vita quel giorno: la loro morte non può avere alcun senso né tanto meno alcuna giustificazione. Può, tuttavia, farsi “segno” della speranza che quanto accaduto aiuti a prendere finalmente consapevolezza che è proprio dai giovani e dall’Università che può ripartire il sistema-Paese. La loro formazione critica, seria, rigorosa, consapevole delle implicazioni, può davvero costituire l’unico vero antidoto a quella che abbiamo definito la società dell’irrespon­sabilità.

 

Infine, un pensiero a mio padre che, attraverso i comportamenti, mi ha fatto comprendere la responsabilità e il valore della coerenza.»

 

 

P.D.

 

 

 

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Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle scorrettezze ricevute. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da tanti anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede. Buona condivisione!