24 agosto
Ho voluto attendere la fine di questa giornata…
In questa giornata così particolare e difficile, fatta di ricordi, di sofferenze, di dolore ma anche di legami forti…ho pensato, augurandomi possa interessare e stimolare una riflessione, di condividere un brano estratto da una ricerca del 2009, pubblicata con il titolo “La società dell’irresponsabilità”: un concetto ed una definizione che ho proposto diversi anni fa, proprio a voler sottolineare la centralità della “questione culturale” ed educativa. La società dell’irresponsabilità, come affermato in tempi non sospetti, è “il connotato essenziale del mutamento in corso, sempre più permeato da processi di individualizzazione, dall’egemonia di valori individualistici e da una superficialità/incapacità di valutare le conseguenze dell’azione sociale (individuale e collettiva). Un preoccupante vuoto etico in grado di incidere sui meccanismi della fiducia e della cooperazione sociale e di determinare spaesamento e insicurezza, fornendo delle basi a dir poco precarie a un ordine sociale già caratterizzato dalla debolezza delle istituzioni e, in generale, dei sistemi di appartenenza”.
Con un pensiero particolare rivolto a tutte le vittime dell’irresponsabilità e a tutte/i coloro che ‘terremotati nell’animo’ lo saranno per sempre…
“L’ipercomplessità dei sistemi sociali e la nuova rischiosità del rischio richiedono una rinnovata consapevolezza della centralità strategica della comunicazione, che non consiste soltanto nell’attenzione rispetto all’utilizzo (più o meno consapevole) ed al comportamento dei mezzi di comunicazione presenti in un dato contesto. Numerose sono le variabili ed i momenti di mediazione e di filtro all’interno della complessità dei flussi comunicativi. Ad essere chiamata in gioco non è soltanto la dimensione tecnologica dei mezzi e il loro utilizzo tecnicamente corretto ed efficace, ma una visione più globale, impegnativa e sofisticata del comunicare che implica una progettualità forte alle spalle, senza la quale perde di significato per arrivare successivamente ad una perfetta coincidenza con la neutralità – appunto – tecnica del mezzo; il comunicare è, pertanto, da intendersi come la capacità (individuale e collettiva) di gestire una molteplicità significativa e sfuggente d processi di varia natura legati in maniera sistemica l’uno all’altro, proprio mediante l’interazione (comunicativa) di competenze e abilità che, razionalmente, devono essere orientate alla condivisione delle informazioni e, ad un livello più complicato, dei saperi. Si tratta di questioni così decisive che vanno poi ad incrociare da vicino la democrazia e l’essere cittadini fino in fondo”(cit.).
“La comunicazione, la cattiva comunicazione, così come l’informazione irresponsabile e finalizzata più alla spettacolarizzazione che all’approfondimento possono generare paure e allarme sociale, scatenare conflitti, alimentare pregiudizi e stereotipi, mettere in crisi interi sistemi produttivi, accrescere la percezione di insicurezza e precarietà (si potrebbero fare molti esempi in merito); ma sono anche in grado di incidere, in maniera assolutamente invasiva e capillare, sui processi conoscitivi e percettivi delle tradizionali reti di interazione sociale e dei nuovi social networks (reti), che innervano la sfera pubblica e vanno a costituire quell’opinione pubblica di fatto legittimata a definire e condizionare l’agenda della politica”.
“Il principio della responsabilità, che riguarda da vicino la libertà di ogni cittadino, il suo essere portatore di diritti ma anche – e soprattutto – di doveri, non può e non potrà mai essere imposto per legge, così come le competenze e la professionalità spesso non possono essere garantite da titoli o certificazioni (questo aspetto chiama direttamente in causa scuola e università): non esiste sistema di controllo e/o certificazione che possa garantirci fino in fondo rispetto alla qualità, all’efficienza, e all’efficacia di qualsiasi genere di impresa umana”.
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Come sempre, senza “tempi di lettura”
Percorsi di ricerca dal’95
Aporie e contraddizioni della (iper)complessità sociale:tra percezione,vulnerabilità dei sistemi e amplificazione sociale del rischio
Proprio mentre stavamo terminando di aggiornare – aggiornamento richiesto, evidentemente, dai recenti eventi catastrofici che non potevamo non considerare nella nostra analisi – la parte riguardante le considerazioni preliminari all’opera, il “6 aprile” è tornato improvvisamente d’attualità nell’agenda del sistema dell’informazione per l’ennesima vicenda di corruzione e, peggio ancora, di irresponsabilità (diffusa) riguardante tutti i livelli della società, dalla classe politica a quella dirigente, per arrivare a parti importanti della stessa società civile. L’Aquila, quindi, di nuovo sotto i riflettori dei media[1] con una copertura non soltanto mediatica e giornalistica, che è senz’altro destinata a crescere ulteriormente nelle prossime giornate in cui si ricorderà l’anno trascorso dal tragico evento disastroso. Nel frattempo, è stato aperto un ulteriore filone d’inchiesta da parte della magistratura sugli appalti per la ricostruzione post-terremoto che, questa volta, vede coinvolti anche i vertici della Protezione Civile. Inutile dire che non ci addentreremo in analisi, inchieste e valutazioni che spettano soltanto alla magistratura: tuttavia, registriamo – non potendo fare altrimenti – il rinnovato interesse per L’Aquila e il “suo” terremoto che, in questo caso, ci si augura possa rivelarsi un interesse non soltanto mediatico. Siamo di fronte, infatti, ad un disastro che, inopportunamente, è stato rimosso in poco tempo dall’agenda dei media e dallo sguardo dell’opinione pubblica, oltre che dalla stessa sfera pubblica. Nel frattempo, l’ennesima catastrofe – le cui conseguenze, anche in questo caso, non chiamano in causa esclusivamente la “natura” – si è abbattuta sulla già martoriata Haiti (per non parlare del successivo, e altrettanto disastroso, terremoto in Cile o della tempesta, che ha causato molte vittime, in Francia) con centinaia di migliaia di persone sepolte sotto le macerie e l’impossibilità di qualsiasi comunicazione con l’esterno che rende estremamente complicati i soccorsi, il loro coordinamento, la definizione di una strategia realmente efficace. D’altra parte, in presenza di eventi così disastrosi, che richiedono una grande capacità di coordinamento e gestione di risorse e strumenti (lo stesso discorso è, evidentemente, applicabile al management di tutti i tipi di rischio ed emergenza), il primo livello problematico da affrontare riguarda proprio il ripristino e/o il potenziamento dei molteplici canali che consentono la comunicazione e il passaggio di informazioni e conoscenze: in altre parole, è di fondamentale importanza, per non dire strategico, togliere i sistemi (e, a livello micro, le organizzazioni complesse) dal loro stato di improvviso isolamento informativo.
La sola eccezione, anche in questo caso, è costituita dalla Rete (Twitter, Facebook e Skype soprattutto), unico meta-canale in grado ancora una volta di oltrepassare l’inevitabile (almeno, in questo tipo di situazioni ed emergenze) blackout informativo e di riattivare circuiti e flussi informativi, così decisivi per i sistemi e la loro organizzazione. A voler confermare ancora una volta, soprattutto considerando la natura complessa e sistemica[2] delle dinamiche, quanto la comunicazione e le informazioni – e la loro gestione – siano davvero, nel concreto, la variabile strategica in grado di paralizzare, o comunque rendere inefficiente o inattivo, un sistema[3], di qualsiasi tipo esso sia. Molte sono le considerazioni che, puntualmente, sorgono spontanee in questi casi, così come differenti risultano gli spunti per un’analisi che non può non legarsi ad un approccio interdisciplinare e multidisciplinare[4] richiesto dalla drammatica complessità di questo tipo di eventi, spesso, nelle conseguenze e nelle implicazioni, “locali” e “globali” allo stesso tempo. Una complessità che riguarda da vicino la nuova tipologia dei rischi e delle emergenze che caratterizzano, a livello macro, il sistema-mondo e i singoli sistemi sociali (interconnessi) e, a livello micro, le organizzazioni complesse e la prassi sociale. Una complessità[5] che lo stesso sapere scientifico ha dimostrato non poter essere più definibile e analizzabile (ridotta) ricorrendo ai “vecchi” paradigmi del determinismo monocausale, essendo la risultante di innumerevoli fattori causali ed essendo caratterizzata da molteplici ripercussioni valutabili soltanto diacronicamente e in differenti intervalli di osservazione. Allo stesso tempo, non possiamo non rilevare come le dimensioni fondamentali del rischio[6], del pericolo, dell’emergenza e dell’insicurezza (ma si potrebbero utilizzare anche altre categorie concettuali) risultino sempre più connaturate ai sistemi sociali, con la loro intrinseca capacità di incidere sui meccanismi sociali della paura (ormai “condizione esistenziale”) e della fiducia.
La nuova complessità sociale e – quella che Ulrich Beck ha definito – la “nuova rischiosità del rischio” definiscono così una serie di scenari ancora più ambigui, incerti e imprevedibili nei quali la discussione pubblica e le valutazioni di carattere culturale assumono una rilevanza strategica, generando un nuovo clima morale in politica: «Negli ultimi due secoli al posto della tradizione è subentrato il giudizio degli scienziati. Tuttavia, quanto più la scienza e la tecnologia compenetrano e modellano su scala globale l’esistenza, tanto meno – e ciò è paradossale – l’autorità degli esperti è data per scontata. Nei discorsi sul rischio, nei quali vengono sollevate anche questioni di (auto)limitazione normativa, i mass media, i parlamenti, i movimenti sociali, i governi, i filosofi, i giuristi, gli scrittori, ecc. ottengono un diritto di parola»[7]. Vedremo in seguito come, nel caso specifico della nostra ricerca, sono stati coinvolti, nel tentativo (non riuscito) di approfondimento/lettura critica dell’evento catastrofico, soltanto alcuni tipi di “esperti”. Oltretutto, le poche volte in cui ciò si è verificato, l’intervento/parere dell’esperto non è praticamente mai riconducibile all’area delle scienze sociali. È un elemento che deve far riflettere, in primo luogo, perché – come sostiene lo stesso Beck – proprio il calcolo del rischio (e quello dei disastri) “collega le scienze della natura, della tecnica e della società”; in secondo luogo, perché il tipo di rappresentazione mediatica – perfino banale ribadirlo – incide in maniera assolutamente significativa sull’analisi del rischio e/o del disastro, sul modo di affrontarli, di accettarne le possibili ed ulteriori conseguenze, di ripartirne equamente effetti collaterali e costi, nonché di definire le relative azioni e strategie. L’invenzione sociale del patto sul rischio, fondata sulle “idee di controllabilità e compensabilità delle insicurezze e dei pericoli prodotti dal sistema industriale” [8], tende così a indebolirsi sotto i colpi di un’insicurezza prodotta artificialmente e auto fabbricata dalla stessa società ipercomplessa (2005).
La vita – e l’evoluzione – dei moderni sistemi sociali complessi si lega sempre più, in tal senso, alla variabile strategica della percezione (individuale e collettiva) che la politica nel suo complesso e, soprattutto, i policy makers devono necessariamente tenere nella giusta considerazione. Come noto, infatti, si tratta di una dimensione ormai anche “riconosciuta” come fondamentale e profondamente condizionata dai processi di rappresentazione della realtà, dalle possibilità di accesso alle informazioni/conoscenze, nonché dalle narrazioni, soprattutto quelle mediali, che sulla realtà stessa vengono prodotte.
Nella cd. società della conoscenza e nell’economia della conoscenza[9], la comunicazione e, nello specifico, il sistema dell’informazione assumono così una funzione ancor più decisiva che in passato, anche per ciò che concerne la capacità da parte dei sistemi e delle organizzazioni complesse di gestire il rischio (risk management) e le situazioni di crisi/emergenza/incertezza (crisis management); più in generale, possiamo ormai affermare l’esistenza di una stretta correlazione tra comunicazione (condivisione della conoscenza) e riduzione della complessità del reale a livello sia micro che macro[10].
Partendo da questi presupposti, soltanto in apparenza – o ad una lettura superficiale – scontati e banali – a maggior ragione se consideriamo quelli che sono anche riconosciuti come i connotati della fase di mutamento globale in atto e in costante divenire[11] – il presente saggio, in primo luogo, si pone come obiettivo principale quello di indagare il ruolo svolto dal sistema dell’informazione e, nel nostro caso particolare, dalla “grande stampa” analizzandone, in maniera quanto più possibile obiettiva e rigorosa, il resoconto e l’eventuale tentativo di analisi dell’accaduto. Tuttavia, è bene chiarire da subito che tale analisi ha svolto, evidentemente, anche e soprattutto la funzione essenziale di supporto empirico alle tutt’altro che scontate argomentazioni sviluppate nel corso del saggio, rispetto a problematiche così impegnative che, in ogni caso, non avrebbero potuto trovare tutte, in questa sede, il necessario approfondimento. Quindi, abbiamo posto l’attenzione, non soltanto sul “che cosa è stato raccontato” (in termini più quantitativi) e/o su quali siano stati i protagonisti della narrazione (compresi i cd. esperti), ma anche, e soprattutto, sul “come è stato raccontato” il disastro. Un’analisi critica, condotta sulla base di dati empirici, in grado di evidenziare anche quale tipo di approfondimento sia stato condotto dalla carta stampata e, soprattutto, quali “saperi esperti” siano stati coinvolti nell’analisi e nell’interpretazione dell’evento catastrofico. Il che ci ha consentito di operare ulteriori inferenze rispetto a ciò che emergeva dall’analisi dei dati.
Da questo punto di vista, L’Aquila – ennesimo disastro non attribuibile purtroppo alle sole “forze della natura” come, peraltro, stanno confermando le perizie dei tecnici e le prime richieste di rinvio a giudizio formulate dalla magistratura – ma anche quello che, in questa sede, abbiamo definito il terremoto di carta (cioè, la narrazione/rappresentazione fornita dalla “grande stampa”) hanno messo in evidenza ancora una volta – ed è ciò su cui tenteremo di argomentare razionalmente senza pretesa alcuna di esaurire il dibattito (anzi !) – il preoccupante ritardo culturale del nostro sistema-Paese nel favorire la diffusione di quella famosa “cultura della prevenzione”, legata inscindibilmente alla questione altrettanto centrale (vitale) della “responsabilità”. Una questione che va ben al di là di qualsiasi sistema di norme e sanzioni, di qualsiasi legge o codice deontologico-professionale, una questione che non richiede una semplice adesione formale a dei valori/principi e che riguarda tutti, senza esclusioni: individui, persone, attori sociali, strutture, istituzioni. Di qui anche la scelta, impegnativa, di inserire già nel titolo del volume, la definizione di società dell’irresponsabilità[12], che può per certi versi apparire “forte” o, comunque, carica di un giudizio di tipo morale che, invece, non intende caratterizzarla in alcun modo. Si tratta di una scelta legata a quello che è – a nostro avviso – il “connotato” essenziale (l’irresponsabilità) dell’attuale società del rischio, sempre più basata su processi di individualizzazione[13] e su valori individualistici, oltre che su una preoccupante debolezza delle istituzioni sociali, del tessuto sociale e, in generale, dei sistemi di appartenenza. Stiamo attraversando un’epoca in cui il problema del controllo dei sistemi sociali si è radicalizzato, dal momento che gli stati-nazione non riescono più ad essere neanche “garanti” di ciò che accade, non soltanto a livello economico, ma anche politico e sociale; fanno una grande fatica ad esercitare la loro funzione di controllo e gestione di fenomeni e processi sempre più interconnessi ed estesi su scala globale[14], in un contesto che, anche secondo altri osservatori, appare configurarsi a tutti gli effetti come una forma di “irresponsabilità organizzata”. Anche a livello individuale, tutti siamo/sembriamo, almeno apparentemente, “più liberi di” ma non tutti avvertiamo l’importanza di valutare criticamente e con attenzione le conseguenze delle nostre azioni, che non sono mai slegate dal contesto storico-sociale di riferimento.
Volendo estremizzare, e allo stesso tempo semplificare il “concetto”, intendiamo sostenere che la società della conoscenza, da un lato, ci ha messo senz’altro in condizione di affrontare meglio – in termini di efficienza ed efficacia – il rischioso, l’incerto, il complesso, dandoci perfino l’illusione del controllo totale sull’ambiente: dall’altro, non ha ancora realizzato pienamente – e, forse, mai vi riuscirà – quei meccanismi sociali[15] di (auto)protezione dall’imprevedibilità dei comportamenti individuali e/o collettivi, spesso dettati da una razionalità soltanto apparente. Siamo di fronte, cioè, ad una società del rischio che, pur conservandone alcune caratteristiche, è notevolmente cambiata da quella descritta e analizzata da Ulrich Beck ormai più di vent’anni fa[16] (Beck stesso ne prende atto). In tal senso, L’Aquila costituisce a tutti gli effetti una sorta di “paradigma” di questa nuova rischiosità della società del rischio e di questa nuova complessità sociale che, per certi versi, costringe gli analisti e la stessa comunità scientifica a ripensare il modello interpretativo e i relativi approcci teorici[17]. In questa linea di discorso, la società irresponsabile, a cui stiamo facendo riferimento, è una società costituita da individui “isolati”, spesso guidati da interessi egoistici e da una razionalità irrazionale, che si vedono proiettati nella prassi sociale solo ed esclusivamente come “individui”. Paradossalmente, la tecnica, l’innovazione e il progresso tecnologico si sono rivelati fondamentali strumenti per il controllo, o quantomeno per il contrasto, della “forza imprevedibile della natura” e, più in generale, per la gestione dell’instabilità dei sistemi sociali; ma – lo ribadiamo – non si sono rivelati strumenti in grado di supportare e garantire altrettanta efficacia nella gestione di quella imprevedibilità realmente imprevedibile e assai difficilmente controllabile: l’imprevedibilità correlata ai comportamenti umani, sociali, individuali e collettivi; l’imprevedibilità che nessun sistema giuridico e nessuna legge o sanzione codificata è in grado di eliminare. In altre parole, la sicurezza, la gestione del rischio, perfino l’efficienza e l’efficacia dei sistemi sociali e organizzativi, sono variabili complesse sempre più legate all’innovazione tecnologica, che tuttavia trovano un ostacolo insormontabile in quell’area della prassi costituita dall’azione sociale irresponsabile, che va al di là di ogni percorso formativo-professionalizzante e/o di ogni competenza acquisita. Si tratta di un ritardo culturale che consiste anche nel non considerare, o per meglio dire, nel non voler prendere coscienza che la natura degli eventi e dei processi con cui interagiamo è sempre più complessa, multidimensionale e sistemica[18]. E, come tale, richiede un approccio, strumenti di analisi e modalità operative che non possono che essere altrettanto complessi per poter incidere e rendere realmente efficaci le scelte e le strategie di policy[19]. In linea con quanto detto, L’Aquila e il terremoto di carta – come vedremo – hanno anche confermato la poca considerazione di cui godono le scienze sociali in generale, soprattutto con riferimento all’analisi complessiva ed alla gestione dei rischi e dei disastri. E l’urgenza di un approccio sistemico alla (iper)complessità che ci richiede, tra le altre questioni, di ripensare a fondo educazione, istruzione e formazione (1998). Come ultima istanza, ma non per questo meno significativa, L’Aquila e il terremoto di carta hanno messo in luce, ancora una volta, la scarsa considerazione che il sistema-Paese attribuisce all’Università, il mancato riconoscimento del suo fondamentale ruolo pubblico, funzionale alla crescita, all’innovazione tecnologica, al progresso morale e culturale di una Stato-nazione. Ma su questo punto cruciale, rimandando evidentemente al dibattito pubblico che ci si augura scaturisca anche dal presente lavoro, ci siamo limitati a registrare il silenzio assordante della carta stampata (non soltanto…) sulla questione, che non fa altro che testimoniare quanto il destino dell’Università sia realmente considerato (poco) strategico per le sorti del Paese. Infatti, tra i protagonisti della narrazione e della successiva discussione pubblica, pochi, pochissimi, dopo il 6 aprile, si sono infatti resi conto dell’importanza dell’Università – non soltanto in termini economici – della sua rilevanza strategica per la vita e la ricostruzione reale dell’Aquila (città universitaria) e dell’Abruzzo. Tuttavia – lo ribadiamo – quest’ultimo punto così significativo, pur essendo emerso anch’esso dall’analisi del contenuto, non è stato approfondito in questa sede per evidenti motivi anche se accompagnerà sullo sfondo tutta la nostra analisi. Si è trattato, in ogni caso, di una rappresentazione/narrazione che ha profondamente condizionato – e continua a condizionare – la percezione individuale e collettiva, nonché i complessi processi di costruzione, accettabilità sociale, amplificazione sociale del rischio[20] oltre che, conseguentemente, le decisioni politiche in merito. L’analisi – come già accennato – ha preso spunto da uno studio empirico sulla “grande stampa” realizzato attraverso la tecnica dell’analisi del contenuto come inchiesta: tale rilevazione, dal punto di vista dell’intervallo di tempo, è stata condotta nei dieci giorni immediatamente successivi alla scossa, proprio allo scopo di effettuare quasi un’istantanea del disastro e della conseguente situazione di emergenza venutasi a creare. I dati emersi hanno evidenziato, pertanto, una serie di spunti di riflessione, di seguito elencati, che si spera possano contribuire ad approfondire la discussione, anche al di là dell’ambito accademico: 1) la narrazione della carta stampata – tipicamente caratteristica (connotativa) e analoga a quella riguardante altri eventi disastrosi/catastrofici e/o situazioni di crisi[21] – ed il suo fondamentale ruolo nella rappresentazione del terremoto, oltre che nella costruzione sociale del rischio e dell’insicurezza[22]; (2) il ruolo assolutamente marginale riconosciuto alle scienze sociali e, di conseguenza, lo spazio residuale a loro riservato nell’analisi, nella spiegazione e nella gestione complessiva di questo e di altri disastri; (3) le caratteristiche essenziali della copertura offerta dai quotidiani: una narrazione soprattutto “emotiva” (vedremo in che termini), sostanzialmente riduzionistica nell’individuazione delle cause, con un debole tentativo di approfondimento riconducibile ad un’unica dimensione, quella tecnica e di natura tecnicistica. In tal senso, il sistema dell’informazione non ha saputo tenere nella giusta considerazione – neanche offrendo adeguata visibilità – le istanze concrete della popolazione duramente colpita e, perché no, le istanze e le problematiche degli stessi soccorritori; (4) è mancato, d’altra parte, anche il tentativo di una lettura più complessa e globale che vedesse coinvolti i diversi “saperi esperti”; (5) come detto, oltre alle scienze sociali, è scomparsa dalla copertura anche l’Università, ennesima “vittima” di un disastro non soltanto naturale.
Da sottolineare come le scienze sociali siano state completamente escluse dal ventaglio dei saperi esperti chiamati ad analizzare, valutare, definire delle possibili strategie di risposta all’emergenza e di management del rischio, che devono possibilmente coinvolgere tutti gli stakeholders: ciò risulta quanto meno paradossale, proprio perché ci troviamo di fronte ad un particolare genere di evento la cui “natura” – lo ripetiamo – è palesemente complessa e non concerne esclusivamente (anzi) problematiche tecniche, pur fondamentali.
Dobbiamo considerare che le catastrofi e i disastri, con le dimensioni sociali fondanti della fiducia e del rischio, sono eventi che da sempre caratterizzano la storia e il percorso evolutivo dei sistemi sociali; tuttavia, quello che non possiamo non registrare è come, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, proprio in virtù delle nuove potenzialità offerte dalla tecnica e dall’innovazione tecnologica, si sia diffusa la convinzione/percezione che la gestione dell’imprevedibile sia ormai un obiettivo quasi centrato, a portata di mano. In realtà, le cose non stanno esattamente così e il frequente ripetersi di eventi catastrofici, la cui dirompente capacità di provocare danni a cose e persone è spesso strettamente legata proprio alla dimensione artificiale del reale (all’intervento del genere umano), è lì a dimostrarlo. È bene chiarire da subito, in tal senso, che non si intende mettere in discussione – e non sarebbe comunque questa la sede – gli straordinari progressi determinati dal sapere scientifico e dalla tecnologia, ma certamente ci sentiamo di poter affermare che proprio la convinzione di poter gestire, comunque e sempre, l’imprevedibile (rischio/incertezza/complessità) ha reso tale dimensione ancora più rischiosa e complessa. L’intervento dell’uomo e quello delle istituzioni non sempre si sono rivelati (si rivelano) funzionali alla cosiddetta riduzione della complessità, anzi la percezione è che ne determinino l’accrescimento e un’ipertrofia difficilmente controllabile.
La vulnerabilità dei sistemi[23] è anche, e soprattutto, una vulnerabilità sociale, strettamente correlata al contesto storico-sociale di riferimento e, in particolare, alle condizioni sociali di esposizione al rischio: su tutte queste dimensioni, i mezzi di comunicazione e, nello specifico, il sistema dell’informazione esercitano un condizionamento ed una capacità di persuasione senza precedenti che incide su percezioni, atteggiamenti, comportamenti, credenze, immagini della realtà. Con evidenti, oltre che facilmente intuibili, ripercussioni per ciò che concerne le categorie della fiducia (e della capacità di reazione), della paura[24], dell’insicurezza, del pericolo e, appunto, dello stesso rischio.
In altri termini, quella che sembra configurarsi come una sorta di “nuova” società del rischio e di “nuova” complessità sociale, si caratterizza – rispetto ai sistemi che l’hanno preceduta – oltre che per una sfera della prassi (individuale e collettiva) radicalmente dilatata e priva di confini/limiti riconoscibili[25], per l’assoluta centralità del sistema dell’informazione e, in generale, delle nuove forme della comunicazione/interazione mediata che producono un “mescolarsi continuo di differenti forme di esperienza”[26]. Tali dimensioni sono in grado di incidere profondamente, oltre che sui processi di apprendimento sociale e di modellamento[27], sui meccanismi che portano alla definizione, interpretazione, rappresentazione e percezione del rischio e, conseguentemente, ne determinano la sua accettabilità sociale[28].Occorre, pertanto, prestare attenzione a non cadere nell’errore anche metodologico di un’analisi della vulnerabilità monodimensionale e riduzionistica: i sistemi, come noto, sono sempre articolati in sottosistemi che presentano delle loro specificità e criticità. La vulnerabilità, infatti, è costituita da molteplici livelli di interazione critica e, soprattutto, non è legata soltanto all’esposizione (exposure) – più o meno significativa – dei sistemi stessi ai disastri, ma anche alla sensibilità/flessibilità (sensitivity) ed alla resilienza (resilience), intesa come capacità di resistenza e risposta, che questi mostrano nell’affrontare i rischi e gli eventi disastrosi. Le diverse “forme” di vulnerabilità (umana, sociale, biofisica, ambientale etc.) sono tutte collegate e correlate. I processi decisionali e le politiche, a tal proposito, richiedono con urgenza lo sviluppo di un dialogo sempre più intenso e “aperto” tra la scienza (i saperi scientifici) e, appunto, i decision makers. In tal senso, si rivelano di grande importanza le strutture istituzionali che hanno come obiettivo prioritario proprio quello di collegare l’analisi della vulnerabilità con i complessi processi di decision making. Fondamentale, a tutti i livelli di analisi ed intervento, la credibilità e la legittimità dell’informazione prodotta.
Occorre, inoltre, essere consapevoli che «Nella società del rischio dobbiamo concepire rapporti di definizione analoghi ai rapporti di produzione teorizzati da Karl Marx. I rapporti di definizione della società del rischio comprendono quelle norme, istituzioni e capacità specifiche che strutturano l’identificazione e la valutazione del rischio in uno specifico contesto culturale. Sono la matrice di potere giuridica, epistemologica e culturale in cui si svolge la politica del rischio»[29]. Ad essere coinvolta – oltre naturalmente agli stessi processi cognitivi – è anche quella che potremmo definire l’agenda cognitiva degli attori sociali, sempre più strutturata da processi comunicativi mediati che si rivelano assolutamente egemoni rispetto alle esperienze dirette della realtà, cioè senza filtri o mediazioni[30]. Anche la valutazione della percezione, ormai, si configura sempre più come variabile strategica per l’evoluzione dei sistemi sociali e delle organizzazioni complesse, dal momento che incide in maniera decisiva sulla loro resilienza.
E, da questo punto di vista – lo ripetiamo – non ci stancheremo mai di richiamare l’attenzione sul ruolo essenziale del sistema dei media, sulla carta stampata e, più in generale, sull’industria culturale: non solo per ribadire con i numeri e dati alla mano, quanto la copertura di una tematica[31] sia fondamentale anche e soltanto per stabilirne l’esistenza nell’arena pubblica e per la sfera pubblica; ma anche per sottolineare, ancora una volta, come tale copertura contribuisca a definire quel clima sociale con cui la Politica non può non fare i conti, cavalcando essa stessa l’emotività e i sentimenti di paura e insicurezza oppure rimanendone condizionata nelle scelte e nelle strategie adottate.
Nell’analisi e gestione dei rischi e delle emergenze, dimensione biofisica, dimensione biologica e dimensione socioculturale non possono più essere pensate, definite, analizzate e valutate separatamente. Si ripropone ancora una volta l’esigenza/urgenza di ricorrere ad una logica della complessità in grado di andare oltre la tradizionale dicotomia natura/cultura[32] e di ripensare, una volta per tutte, le complesse dinamiche (si pensi ai concetti di autopoiesi[33], di entropia e di riorganizzazione permanente) che caratterizzano i sistemi sociali ipercomplessi, sempre alimentati e, allo stesso tempo, minacciati dal disordine. Si tratta di una prospettiva che riguarda da vicino tutto il processo della conoscenza e l’evoluzione dei modelli di analisi e interpretazione del reale.
La nostra analisi intende, in questa linea di discorso, fornire una serie di spunti di discussione utili non soltanto per l’esperto o l’addetto ai lavori e si pone l’obiettivo di rappresentare un luogo di riflessione critica in grado di incidere e stimolare il dibattito pubblico, anche su questa dimensione problematica fondamentale che, chiaramente, si colloca al di là dello specifico “oggetto di studio” della ricerca.
Il testo della ricerca, non soltanto con riferimento a questo brano estratto, è arricchito di tabelle, grafici e modelli che, in questa sede, non ho potuto riportare. Di seguito, i riferimenti bibliografici di quelli presenti in questa parte del volume:
Fig.1: Modello dell’amplificazione sociale del rischio
Fonte: R.E.Kasperson, O.Renn, P.Slovic et al., (1988), “The social amplification of risk: A conceptual frame work”, in Risk Analysis, 8: 177-187.
Fig.2: Risk Hazards framework (common to risk application): concept of vulnerability commonly implicit – Fonte: B.L.Turner II, R.E.Kasperson, P.A.Matson et al. (2003).
Fig.3: Pressure and Release Framework with emphasis placed on social conditions of exposure; concept of vulnerability usually explicit – Fonte: B.L.Turner II, R.E.Kasperson, P.A.Matson et al., (2003).
Fig.4: Vulnerability framework – Fonte: B.L.Turner II, R.E.Kasperson, P.A.Matson et al. (2003).
Fig.5: Details of the exposure, sensitivity, and resilience components of the vulnerability framework – Fonte: B.L.Turner II, R.E.Kasperson, P.A.Matson et al. (2003).
#CitaregliAutori
[1] L’agenda dei media, soprattutto in presenza di catastrofi, disastri ed emergenze di varia natura, tende generalmente, dopo l’iniziale fiammata emotiva, caratteristica della copertura quotidiana realizzata nelle primissime giornate, a rimuovere questo tipo di eventi dalla propria tematizzazione, tornando poi ad occuparsene soltanto in occasione di eventi particolarmente significativi o dalla particolare valenza simbolica; la società mediatica dell’immagine, tuttavia, si alimenta anche di situazioni che possono originarsi soltanto a partire da una profonda conoscenza dei meccanismi del media system e, in generale, della comunicazione: in tal modo, questi stessi eventi/situazioni riescono a guadagnarsi una certa visibilità all’interno dell’arena mediatica che non può non trasformarli in notizia e/o tema di discussione pubblica. Questo è un aspetto estremamente interessante: siamo di fronte ad un processo di ribaltamento delle gerarchie all’interno del circuito mediatico, che non deve essere sottovalutato e che riguarda da vicino l’evoluzione della democrazia e, nello specifico, dei moderni regimi democratici. Comprenderne definitivamente la logica è di fondamentale importanza. Da questo punto di vista, si pensi, solo per fare un esempio concernente L’Aquila, alla cosiddetta “protesta delle 1000 chiavi”, che è riuscita (intelligentemente) a costringere media e carta stampata – non senza polemiche riguardanti il comportamento di alcune testate giornalistiche – a tornare sull’argomento della ricostruzione, con particolare riferimento alla parte storica della città abruzzese. Si tratta, d’altra parte, di una problematica complessa che, tra le tante, chiama in causa direttamente anche le questioni, altrettanto decisive, riguardanti i diritti umani, i diritti di cittadinanza e il loro riconoscimento. Va ricordato che su queste tematiche oggetto del nostro studio, esiste – come noto – una letteratura scientifica, soprattutto straniera (principalmente in lingua inglese, ma non soltanto), assolutamente vasta e sviluppata, costituita da saggi, riviste specialistiche e rapporti di ricerca, di cui abbiamo tentato di utilizzare e restituire, in maniera sistematica e razionale, alcuni percorsi interpretativi e di ricerca utili ed, evidentemente, funzionali alla nostra analisi critica.
[2] Cfr. V. De Angelis, La logica della complessità. Introduzione alla teoria dei sistemi, Bruno Mondadori, Milano 1996; per approfondire: Bertalanffy von L. (1968), General System Theory: Foundations, Development, Applications, trad.it., Teoria generale dei sistemi, Isedi, Milano 1975.
[3] Sul concetto di “sistema”, fondamentale nelle scienze sociali, cfr. T. Parsons (1951), The Social System, trad.it., Il sistema sociale, (intr. di L. Gallino), Comunità, Milano 1965; N. Luhmann (1984), Soziale Systeme, Suhrkamp, Frankfurt 1984, trad.it. Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Il Mulino, Bologna 1990.
[4] Cfr. T. McDaniels, M.J. Small, Risk Analysis and Society: An Interdisciplinary Characterization of the Field, Cambridge: Cambridge University Press, 2004. Sulla necessità di molteplici prospettive d’analisi si veda anche: D. Sarewitz, R. Pielke, M. Keykhah (2003), “Vulnerability and Risk: Some Thoughts from a Political and Policy Perspective”, in Risk Analysis, Vol. 23, No. 4 (2003).
[5] Sul tema importante della “complessità” segnaliamo l’interessante raccolta di saggi: AA.VV. (1985), La sfida della complessità, G. Bocchi e M. Ceruti (a cura di), Bruno Mondadori, Milano 2007 (nuova ed.).
[6] Per certi versi, la categoria concettuale “rischio” rappresenta una vera e propria risposta culturale dei sistemi all’indeterminatezza del reale; una reazione che, già ad un livello di definizione dell’incerto, si basa sul mito ossessivo, tipicamente moderno, del controllo totale dell’imprevedibile e sull’egemonia della ragione e del calcolo. Il progressivo distacco dai sistemi di orientamento valoriale e conoscitivo ancorati alla tradizione e la condizione di costante e ambivalente mutamento dei sistemi completano il quadro analitico spalancando le porte della modernità radicale all’insicurezza ed alla precarietà (o flessibilità). Su questi temi si veda: R. Sennett (1998), The Corrosion of Character: The Personal Consequences of Work in the New Capitalism, trad.it., L’uomo flessibile: le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 2000.
[7] Cfr. U. Beck (2007), Weltrisikogesellschaft. Auf der Suche nach der verlorenen Sicherheit, trad.it., Conditio Humana. Il rischio nell’età globale, Laterza, Bari 2008, p.13.
[8] Ibidem p.15.
[9] Particolarmente originale l’analisi di Y. Benkler (2006), The Wealth of Networks. How Social Production Transforms Markets and Freedom, trad.it., La ricchezza della Rete. La produzione sociale trasforma il mercato e aumenta le libertà, Università Bocconi Ed., Milano 2007. Tra i “classici” contemporanei cfr. M. Castells (1996), The Information Age, Economy, Society and Culture. The Rise of the Network Society, Blackwell Publishers, Oxford, trad.it., La nascita della società in Rete, Università Bocconi Editore, Milano 2002 (vol.I); per un’analisi interessante anche in chiave economica: E.Rullani, Economia della conoscenza. Creatività e valore nel capitalismo delle reti, Carocci, Roma 2004.
[10] Su questa tematica ci permettiamo di rimandare al nostro P. Dominici (2005), La comunicazione nella società ipercomplessa.Istanze per l’agire comunicativo e la condivisione della conoscenza nella Network Society, Aracne Ed., Roma.
[11] La letteratura scientifica su questi argomenti è – come noto – assolutamente sterminata, ci limitiamo a ricordare: A. Giddens (1990), The Consequences of Modernity, trad.it. Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna 1994; D. Held, A. McGrew (1992), “The Guest Globalization Debate: An Introduction”, in The Global Transformations Reader, Cambridge, Polity Press, 2000; trad. it. Globalismo e antiglobalismo, Il Mulino, Bologna 2001; U. Beck, A. Giddens, S. Lash (1994), Reflexive Modernization, trad.it., Modernizzazione riflessiva. Politica, tradizione ed estetica nell’ordine sociale della modernità, Asterios, Trieste, 1999; A. Appadurai (1996), Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, trad.it., Modernità in polvere, Meltemi, Roma 2001; J.Tomlinson (1999), Globalization and Culture, trad.it. Sentirsi a casa nel mondo. La cultura come bene globale, Feltrinelli, Milano 2001; Z. Bauman (2000a), Ponowoczesność. Jako źródlo cierpień, trad.it., Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori, Milano 2002; sul tema della società dell’informazione: J.R. Beniger (1986), The Control Revolution, trad.it., Le origini della società dell’informazione.La rivoluzione del controllo, UTET, Torino 1995; M. Castells (2001), The Internet Galaxy. Reflections on the Internet, Business, and Society, trad.it., Galassia Internet, Feltrinelli, Milano 2002.
[12] Concetto e definizione che abbiamo proposto e su cui lavoriamo da diversi anni.
[13] Cfr. U. Beck (1994-1997), I rischi della libertà. L’individuo nell’epoca della globalizzazione, Il Mulino, Bologna 2000; Z. Bauman (2001), The Individualized Society, trad.it., La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, Il Mulino, Bologna 2002; tra gli Autori “classici”, ricordiamo sulla relazione tra individualizzazione e socializzazione (Elias, peraltro, propone di superare la dicotomia individuo/società), N. Elias (1987), Die Gesellschaft der Individuen, trad.it., La società degli individui, Il Mulino, Bologna 1990.
[14] Tale dimensione problematica riguarda chiaramente anche il rischio e i nuovi rischi. Lo stesso Beck parla di “megarischi” – la cui natura democratica ha reso tutti più vulnerabili – che hanno oltrepassato il livello di sicurezza fondato sulla perfezione di norme e controlli tecnoburocratici. La società del rischio si rivela così una società priva di copertura assicurativa, cioè che si tiene in equilibrio oltre i limiti dell’assicurabilità; una società in cui la crescente tecnocrazia rende inadeguate le stesse definizioni del rischio e ne compromette i relativi metodi di calcolo. Il tutto si verifica in condizioni di elevata complessità e con alto coefficiente di integrazione delle dinamiche, comprese quelle riguardanti i rischi (concetto di “comunità del rischio” e di “sfera pubblica globale”). Abbiamo a che fare con rischi su larga scala caratterizzati anche da un’esplosività sociale meno gestibile di quella “fisica”. Il monopolio degli scienziati e dei tecnici nella diagnosi dei pericoli viene di conseguenza messo in discussione e il riconoscimento pubblico dell’incertezza scientifica va proprio in direzione di una democratizzazione basata sulla trasparenza, sulla comunicazione, sul discorso pubblico. L’ipercomplessità dei nuovi rischi globali non può essere ridotta (neutralizzata) soltanto da un apparato statale che emana leggi e regolamenti. Si avverte l’urgenza di un nuovo “progetto sociale” e lo stesso sociologo tedesco propone una rivisitazione della società del rischio. Della corposa produzione di Ulrich Beck su queste tematiche si vedano in particolare: U. Beck (1999c), World risk society, trad.it., La società globale del rischio, Asterios, Trieste 2001; U. Beck (2000), “Risk Society Revisited: Theory, Politics and Research Programmes”, in B. Adam, U. Beck, J. van Loon (eds) The Risk Society and Beyond: Critical Issues for Social Theory, pp. 211–29. London: Sage; U. Beck, L’epoca delle conseguenze secondarie e la politicizzazione della modernità, in U. Beck, A. Giddens, S. Lash (1994), pp.29-99; U.Beck (1999a), Schöne neue Arbeitswelt. Vision: Weltbürgergesellschaft, trad.it., Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile, Einaudi, Torino 2000; U. Beck (1999b), Was ist Globalisierung ? Irrtümer des Globalismus. Antworten auf Globalisierung, trad.it., Che cos’è la globalizzazione, Carocci, Roma 1999.
[15] Per una definizione del concetto di “meccanismo sociale”, con un’analisi della sua portata esplicativa, si vedano: P. Hedström, R. Swedberg (1996), “Social Mechanisms”, in Acta Sociologica; 39; 281-308; interessante la tipologia di meccanismi sociali (social diffusion, group choice mechanisms e general mechanisms of interaction) proposta da G. Karlsson (1958), Social Mechanisms: Studies in Sociological Theory, Almquist & Wicksell, Stockholm.
[16] Cfr. A. Elliot (2002), “Beck’s Sociology of Risk: A Critical Assessment”, in Sociology 36: 293–315; si veda, sulla stessa questione, anche: G. Mythen, “Reappraising the Risk Society Thesis. Telescopic Sight or Myopic Vision?”, in Current Sociology, November 2007, Vol. 55(6): 793–813.
[17] Si vedano: G. Mythen (2005a), “Employment, Individualization and Insecurity: Rethinking the Risk Society Perspective”, in The Sociological Review 8(1): 129–49; G. Mythen (2005b), “From Goods to Bads? Revisiting the Political Economy of Risk”, in Sociological Research Online 10(3); disponibile on line: www.socresonline.org.uk/10/3/mythen.html; D. Matten (2004), “The Risk Society Thesis in Environmental Politics and Management – A Global Perspective”, in Journal of Risk Research 7: 371–6.
[18] Per un’introduzione, invece, alla teoria dei sistemi si veda la raccolta di saggi contenuta in F.E. Emery (a cura di), Systems Thinking, trad.it., La teoria dei sistemi. Presupposti, caratteristiche e sviluppi del pensiero sistemico, FrancoAngeli, Milano 2001.
[19] Si vedano, in particolare, sulle implicazioni per la policy: A. Weale (2002), Risk, Democratic Citizenship and Public Policy, Oxford University Press; J.A. Bradbury (1989), “The policy implications of differing concepts of risk”, in Science Technology & Human Values, 14 (4), pp. 380-399; sulla dimensione epistemologica del problema: C.E. Althaus, “A Disciplinary Perspective on the Epistemological Status of Risk”, in, Risk Analysis, Vol. 25, No. 3, pp. 567-588, June 2005.
[20] Cfr. N. Pidgeon, R.E. Kasperson, P. Slovic (eds.), The social amplification of risk, Cambridge University Press, Cambridge 2003.
[21] Su questo argomento la letteratura scientifica è estremamente corposa, con una significativa attenzione anche a “casi di studio”. Rimandiamo alla parte dedicata ai riferimenti bibliografici.
[22] Cfr. S. Dunwoody (1992). The media and public perceptions of risk: How journalists frame risk stories, in D.W. Bromley, K. Segerson (eds.), The social response to environmental risk, Boston: Kluwer Academic, pp. 75-99; S. Dunwoody, H. Peters (1992), “Mass media coverage of technological and environmental risks: A survey of research in the United States and Germany”, in Public Understand. Sci., 1,199-230; S. Dunwoody, K. Neuwirth (1991), “Coming to terms with the impact of communication of scientific and technological risk judgments”, in Risky business: Communicating issues of science, risk and public policy (pp. 11-30), Greenwood Press, Westport CT; sul processo di “costruzione sociale del rischio”: K. Dake (1992), “Myths of nature: Culture and the social construction of risk”, in Journal of Social Issues, vol. 48, no. 4: 21-37.
[23] Segnaliamo, in merito, l’interessante contributo di B.L. Turner II, R.E. Kasperson, P.A. Matson et al., “A framework for vulnerability analysis in sustainability science”, in PNAS July 8, 2003 vol. 100 no. 14: 8074-8079; nell’articolo, partendo dalla consapevolezza dell’esistenza di numerose variabili e fattori correlati, tutti decisivi, e, conseguentemente, prendendo atto della complessificazione del processo di valutazione della vulnerabilità dei sistemi, viene posta l’attenzione sull’importanza di adottare un approccio complesso e multidisciplinare o, per essere più precisi, molteplici approcci allo stesso tempo, finalizzati alla definizione e realizzazione di strumenti realmente efficaci. Viene, infine, auspicata la definizione di un quadro metodologico generale comune.
[24] Si veda, in proposito, D.L. Altheide (1997), “The news media, the problem frame, and the production of fear”, in Sociological Quarterly, 38: 647-668; dello stesso Autore, l’interessante lavoro, Creating fear: News and the construction of crisis, Aldine de Gruyter, New York 2002. Cfr. sullo stesso argomento anche: D.L. Altheide, R.S. Michalowski (1999), “Fear in the news: A discourse of control”, in Sociological Quarterly, 40: 475-503; A. Scott (2000), “Risk Society or Angst Society? Two Views of Risk, Consciousness and Community”, in B. Adam, U. Beck, J. van Loon (eds), The Risk Society and Beyond: Critical Issues for Social Theory. London, Sage.
[25] Una questione che riguarda anche l’ampiezza e l’indeterminatezza delle categorie concettuali e delle definizioni adottate.
[26] Cfr. J.B. Thompson (1995), The Media and Modernity. A Social Theory of the Media, trad.it., Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, Il Mulino, Bologna 1998; all’interno della teoria sociale dei media di Thompson, interessanti i concetti di “dissequestro” e “mediatizzazione” dell’esperienza; si veda anche il concetto di “comunanza despazializzata” (legata all’accesso alle stesse forme di comunicazione mediata), forma di esperienza generata dalla comunicazione mediata che, non essendo legata alla condivisione di un luogo fisico comune, mette radicalmente in discussione (crisi) le organizzazioni politiche tradizionali.
[27] A tal proposito, importante la teoria dell’apprendimento sociale di Albert Bandura e i suoi studi sulla relazione esistente tra processi cognitivi, trasmissione di competenze, comportamento, azione sociale, adattamento all’ambiente; sul ruolo di credenze e convinzioni nella capacità di gestire con efficacia situazioni ed eventi disfunzionali o, comunque, imprevisti all’interno della struttura sociale di appartenenza. Di Bandura, in tal senso, ricordiamo anche i concetti di “modellamento”, “agentività umana”(human agency), intesa come facoltà di intervenire sulla realtà esercitando un potere causale; si veda anche il concetto di “autoefficacia” (Self-efficacy). Per approfondire cfr. in particolare: A. Bandura (1977), Social Learning Theory, Prentice Hall, Englewood Cliffs, NJ; A. Bandura (1986), Social Foundations of Thought and Action, Prentice Hall, Englewood Cliffs, NJ; A. Bandura (1995), Self-efficacy in changing societies, trad.it., Il senso di autoefficacia. Aspettative su di sé e azione, Centro Studi Erickson, Trento 1996; A. Bandura (1997), Self-efficacy. The Exercise of control, trad.it., Autoefficacia: teoria e applicazioni. Centro Studi Erickson, Trento, 2000.
[28] Sul tematica dell’accettabilità sociale si veda: M. Douglas, Risk Acceptability According to the Social Sciences, Routledge, New York 1985.
[29] Cfr. U. Beck (1999c), op.cit., p.168.
[30] Sul concetto di “interazione mediata”, con un’analisi delle ripercussioni sulla sfera pubblica, si veda J.B. Thompson (1995),op.cit.;
[31] Cfr. S. Bentivegna (a cura di), Mediare la realtà, FrancoAngeli, Milano 1994.
[32] Anche su questo argomento esiste molta letteratura, ci limitiamo a segnalare: E. Morin (1973), Le paradigme perdu: la nature humaine, trad.it., Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana?, Feltrinelli, Milano 1974;E. Morin, É.-R. Ciurana, D.R. Motta (2003), Éduquer pour l’ère planétaire.La pensée complexe comme Méthode d’apprentissage dans l’erreur et l’incertitude humaines, trad.it., Educare per l’era planetaria. Il pensiero complesso come metodo d’apprendimento, Armando, Roma 2004; per approfondire ulteriormente, significativa, in chiave antropologica, l’opera di A.L. Kroeber (1952), The Nature of Culture, trad.it., La natura della cultura, Il Mulino, Bologna 1974; sul problema della complessità in relazione alla riflessione sociologica: E. Morin (1984), Sociologie, trad.it.,Sociologia della sociologia, Edizioni Lavoro, Roma 1985; di Edgar Morin, su questi temi e per un’analisi dei sistemi complessi, ricordiamo lo sforzo di elaborazione di un “metodo” che da alcuni decenni porta avanti. Si veda, in particolare, l’opera fondamentale La Méthode (Il Metodo) articolata in VI volumi: E. Morin (1977), La Méthode I. La Nature de la Nature, trad. it. Il metodo 1. La natura della natura, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001; (1980), La Méthode II. La Vie de la Vie, trad. it., Il metodo 2. La vita della vita, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004; (1986) La Méthode III. La Connaissance de la Connaissance, trad. it., Il Metodo 3. La conoscenza della conoscenza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007; (1991), La Méthode IV. Les idées. Leur habitat, leur vie, leurs moeurs, leur organisation, trad. it., Il Metodo 4. Le idee: habitat, vita, organizzazione, usi e costumi, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008; (2001), La Méthode V. L’Humanité de l’Humanité. Tome 1: L’identité humaine, trad. it., Il Metodo 5. L’identità umana, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002; (2004), La Méthode VI. Éthique, trad.it., Il metodo. Etica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005.
[33] Si veda anche N. Addario, Doppia contingenza e interazione: la società come sistema autopoietico-evoluzionistico, in «Quaderni di sociologia», anno 1998, Volume XLII, n°18, Rosenberg & Sellier, Torino.
Immagine: opera di M.C. Escher
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I testi che condivido sono il frutto di lavoro (passione!) e ricerche e, come avrete notato, sono sempre ricchi di citazioni. Continuo a registrare, con rammarico e una certa perplessità, come tale modo di procedere, che dovrebbe caratterizzare tutta la produzione intellettuale (non soltanto quella scientifica e/o accademica), sia sempre meno praticata e frequente in molti Autori e studiosi.
Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle tante scorrettezze ricevute in questi anni. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da vent’anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede.
Buona riflessione!