La condivisione della conoscenza per una globalizzazione etica fondata sulla responsabilità (2000)
Attraversamenti e dialettiche della Società Ipercomplessa (Dominici, 2000 e sgg.)
Augurandomi possa interessare, condivido un estratto da una delle pubblicazioni.
Come sempre, senza “tempi di lettura”
(Al termine, come sempre, note e riferimenti bibliografici)
Dopo aver attraversato gli impervi ed incerti sentieri della prima modernità industriale – segnati, come abbiamo visto, dalla crisi di tutti i sistemi di orientamento conoscitivo e valoriale – e aver riflettuto, in maniera approfondita, sul processo di globalizzazione come suo esito radicale e sul suo principale elemento connotativo – la “società ipercomplessa” – ci sentiamo ora più pronti ad affrontare anche la complessa questione dell’etica della comunicazione per la civiltà tecnologica globale. Nel corso della nostra analisi, la comunicazione ha confermato la sua centralità strategica per l’evoluzione dei sistemi sociali configurandosi come vero e proprio “valore aggiunto” della cosiddetta modernizzazione riflessiva e come vera e propria essenza dell’uomo contemporaneo. Conseguentemente, non poteva che presentarsi come tematica pluridimensionale (complessa) che, nella non semplice opera di sistematizzazione della letteratura scientifica esistente sui temi trattati, ha messo chiaramente in luce la complessità[1] dell’argomento e il divaricarsi degli ambiti specialistici su questa vasta area di ricerca. Di conseguenza, la necessità di un approccio multidisciplinare alla complessità si è resa urgente e ineludibile anche, e soprattutto, per la crescente interdipendenza della prassi e la dimensione sistemica della realtà sociale.
I paradigmi, le teorie e gli strumenti stessi dell’indagine si sono, infatti, evoluti progressivamente verso una maggiore accuratezza nella capacità di “osservare” e “descrivere” la complessità della situazione comunicativa. Sono emerse, in tal senso, diverse sollecitazioni all’approfondimento. In particolare, lo spunto più importante potrebbe essere così sintetizzato: la società in rete e le nuove tecnologie della comunicazione, oltre a far saltare progressivamente (dis-intermediare) qualsiasi meccanismo di mediazione politica e/o sociale (con tutte le criticità che ciò comporta), hanno il potere, forse illimitato, di estendere le possibilità e le occasioni comunicative dell’umanità, facilitando la produzione, l’elaborazione e lo scambio di informazioni e di conoscenze tra gli individui (società della conoscenza). Un mutamento in grado di incidere sui valori etici, sui modelli culturali ed estetici che determinano le relazioni sociali.
Questo sistema reticolare mondiale, che presenta caratteri di globalità, pone il Soggetto di fronte al mondo incerto e gli richiede, conseguentemente, un livello sempre più elevato di conoscenze (e competenze). Gli osservatori più critici e pessimisti, a questo punto, fanno notare che il singolo sarà solo di fronte al mondo, che gli si prospetterebbe come “realtà virtuale”, con un peso forse insostenibile; un attore sociale solo con le sue scelte illusorie o predeterminabili da chi detiene il potere o, comunque, da un gruppo sociale di appartenenza reinventato o riplasmato dallo stesso sistema della comunicazione globale. Gli osservatori più spassionati ed ottimisti, invece, vedono nella molteplicità delle occasioni comunicative e nell’estensione delle sfere raggiungibili, altrettante chances di scelta per il singolo, scelte libere di ogni tipo, pragmatico-operativo, tecnico-conoscitivo, psicologicamente autonome e moralmente valutabili di volta in volta, scelte comunque mediate attraverso i valori del gruppo sociale di appartenenza che farebbe da filtro interpretativo dei messaggi mediatici, secondo le esigenze dello stesso gruppo. Certo la divisione tra diversi ed opposti atteggiamenti, qui delineati, é solo orientativa e, si é visto, le posizioni dei singoli studiosi sono più sfumate; ma nella ricognizione appena fatta, tuttavia, sembrano presenti i concetti chiave da approfondire per un discorso sull’etica (non soltanto).
In conclusione, la globalizzazione della comunicazione é il nuovo dato: nel descriverlo il comunicare appare sempre più come l’essenza dell’uomo contemporaneo e i modi della comunicazione forme specifiche di civiltà.
A questo punto, sembra sorgere la domanda cruciale: oltre al riconoscimento generale dell’importanza del comunicare, esiste la possibilità di individuare le regole universali – razionali – del comunicare stesso? Possono essere colte attraverso un’analisi descrittiva scientifica, di tipo empirico, sul piano dei “fatti”, o si impone invece solo come un’esigenza diversa sul piano dei valori? E quale rapporto possono avere tra loro i due piani? I diversi approcci alla prassi comunicativa sembrano, comunque, convergere su queste domande.
La percezione di una nuova grande era moderna scaturita dalla “rivoluzione della comunicazione” si manifesta già addirittura nel 1901, per opera di uno dei “padri” fondatori della sociologia statunitense, Charles Horton Cooley[2], il quale appunto, oltre a sostenere la portata della rivoluzione comunicativa in atto – una rivoluzione, di cui valuta attentamente i rischi, ma che avrebbe determinato, a suo giudizio, un progresso morale degli individui[3] – pone la comunicazione alla base dell’organizzazione sociale e delle relazioni umane.
Nella società ipercomplessa, l’uomo contemporaneo, nel suo essere anche homo sapiens[4] e non soltanto homo faber, sembra volersi tornare a fidare ciecamente dei poteri della tecnica da cui, peraltro, è stato in passato più volte sedotto e abbandonato. Questa rinnovata fiducia nella razionalità trova nella Rete e nelle nuove tecnologie interattive della comunicazione dei fondamentali punti di appoggio potenzialmente in grado di rendere disponibile per tutti “in rete” una enorme massa di “sapere accumulato”[5].
Tuttavia, riflettendo criticamente sulle caratteristiche della società della conoscenza (che si configura, in ultima analisi, come una società globale della comunicazione reticolare), ci siamo da subito resi conto che il complesso “discorso” (anche scientifico) sulla comunicazione, sulla centralità da questa assunta all’interno delle società complesse e sulle implicazioni che tale rivoluzione paradigmatica comporta, non può in alcun modo essere affrontato ad un livello meramente tecnico, pena la perdita complessiva della fondamentale dimensione dei rapporti sociali e dei processi culturali che accompagnano questa ennesima ma straordinaria “metamorfosi tecnologica” della storia.
In altri termini, ci è sembrato sterile ed improduttivo limitarci ad una “presa d’atto” dell’esistenza degli elementi tecnici che contraddistinguono la nuova prassi tecnologica e, soprattutto, limitarci alla descrizione obiettiva delle loro straordinarie potenzialità; motivo per il quale, abbiamo deciso di impostare tutta la nostra analisi della comunicazione-mondo[6], incentrando l’attenzione sulla qualità delle nuove interazioni comunicative – riflettendo sulla comunicazione soprattutto come processo sociale, perchè di questo si tratta – ben consapevoli, alla luce di una letteratura scientifica vasta ed articolata sul tema, della rilevanza che la comunicazione, e la prassi comunicativa, hanno avuto fin dalla costituzione dei primi gruppi umani nei processi di socializzazione e di formazione delle identità individuali e collettive e, in un secondo momento, nelle complesse dinamiche di costituzione delle organizzazioni.
Una volta analizzate le componenti[7] estremamente contraddittorie e conflittuali che strutturano il processo di glocalizzazione[8], ci siamo convinti ancora di più che è di fondamentale importanza, nel tentativo di produrre un modello interpretativo del mutamento in atto, servirsi di più approcci disciplinari in fondo convergenti. In altre parole, abbiamo avvertito la necessità di spostare l’analisi ad un livello superiore – oltre che più articolato – riguardante le implicazioni e le conseguenze di queste complesse dinamiche sugli “attori sociali” e sulle reti di interazione sociale (oltre che, evidentemente, sui sistemi e sulle organizzazioni), all’interno delle quali, come Mead[9] ha opportunamente dimostrato, si strutturano l’autocoscienza, la razionalità, le identità culturali e, soprattutto, i significati condivisi che rendono possibile la “società”.
Si è rivelato, altresì, necessario ripensare alla questione fondante della “razionalità” soprattutto “occidentale” (basata su “scienza” e “tecnica”) che, al di là degli importanti progressi fatti registrare finora, si vede costretta a ri-pensare e ri-plasmare i propri modelli conoscitivi e operativi, dovendo inesorabilmente “fare i conti” con la questione cruciale della “responsabilità”, valore che non può essere imposto come è accaduto con altri principi etici in passato, perché legato alla possibilità dell’autodeterminazione. In altre parole e come più volte sottolineato nel corso del lavoro, si tratta di riflettere sulle possibilità di quella che Habermas ha chiamato “razionalità comunicativa” e – aggiungiamo noi – responsabile che la “società ipercomplessa” richiede nel tentativo di governare i conflitti globali e locali, che sono in primo luogo conflitti legati alle identità, alle differenti culture e al possesso della conoscenza. Tali problematiche ricollocano al centro di qualsiasi riflessione la sfera di discorso dell’etica che, nell’era del dominio della scienza e della tecnica, è stata con troppa superficialità (irresponsabilità) ridimensionata nella convinzione che, da una parte il progresso tecnico comportasse anche il progresso morale e culturale e, dall’altra, che tale provincia di significato rientrasse esclusivamente nel discorso metafisico e religioso.
Questo convincimento, apparentemente utopistico, si è rivelato infondato o, comunque, inesatto: la dimensione di un’etica responsabile fondata su un “agire comunicativo” – e sul modello della conoscenza condivisa – orientato al confronto e all’intesa con l’ALTRO, rappresenta attualmente forse l’unica strada percorribile, a livello politico e culturale, nel tentativo di arrivare al riconoscimento universale di alcuni principi etici fondamentali in tutte le sfere della prassi.
Fondando i suoi presupposti sull’impegno assunto con l’Altro, la comunicazione – non è inutile ripeterlo – “costruita” su principi razionali acquisiti in maniera intersoggettiva e finalizzata alla conoscenza condivisa, può avere un ruolo davvero importante a molteplici livelli di criticità: nella rinascita di un Umanesimo garante dei fondamentali “diritti di cittadinanza globale”; nella formazione di quella che Ulrich Beck ha definito società civile transnazionale; nella effettiva realizzazione di una “politica interna mondiale” che, seppur con modalità estremamente criticabili, i vecchi stati-nazione iniziano a perseguire; nella decisiva promozione, a livello globale, di strategie finalizzate a realizzare quella società della conoscenza diffusa che, nel lungo periodo, potrebbe costituire una risorsa inesauribile per la riduzione delle disuguaglianze mondiali che, ricordiamolo, sono anche politiche e culturali; ad un livello “micro”, non meno importante, i presupposti della comunicazione etica e del modello della condivisione della conoscenza, trascendendo le logiche tradizionali del controllo e della recinzione, potrebbero definitivamente determinare un salto di qualità senza precedenti nelle prassi organizzative (interne ed esterne) degli stati-nazione, delle Pubbliche amministrazioni e delle imprese, soprattutto in un sistema produttivo che si configura sempre più come “società dei servizi”. Forse, per alcuni, questa proposta altro non è che una nuova “utopia”, ma, anche se così fosse, i vecchi stati-nazione devono, a nostro avviso, sforzarsi comunque di perseguirla ad ogni costo. L’impressione, ormai, è che ci si trovi di fronte a processi evolutivi inevitabili. Le grandi autostrade dell’informazione organizzate in maniera reticolare rappresentano, in tal senso, un valida ed efficiente infrastruttura. Inoltre, a confortare la nostra prospettiva, va senza dubbio sottolineato il ruolo sempre più strategico e decisivo che la comunicazione pubblica e d’impresa – potenziate dai processi di informatizzazione e dal web 2.0 – stanno avendo nella riorganizzazione dei sistemi. Ma tutte le dimensioni d’analisi tirate in ballo – ci ripetiamo – devono partire dalla profonda consapevolezza della rilevanza assunta nei moderni sistemi sociali dalla “comunicazione”, intesa sia come “flusso” che come “processo”.
La società ipercomplessa richiede pertanto pensiero complesso, responsabilità, conoscenza condivisa, trasparenza delle procedure e dei sistemi per la riduzione di quella che abbiamo definito “complessità rischiosa”.
La questione etica non può più essere ignorata, o sottovalutata, dal momento che la “nuova” prassi tecnologica incide in maniera estremamente significativa sulla “natura” delle dinamiche sociali, politiche e culturali alle cui basi si colloca il weberiano “politeismo dei valori”[10].
Conseguentemente, volendo ancora una volta evidenziare il sostrato filosofico e sociologico, la nostra analisi non può che procedere confrontandosi con le principali suggestioni di due grandi intellettuali, sostenitori della prospettiva dell’etica del discorso, che hanno dedicato una parte significativa delle loro ricerche all’approfondimento della riflessione sulle possibilità di un’etica della comunicazione che avesse un respiro universalistico: Karl Otto Apel[11], che ha riflettuto a lungo sulla possibilità di una trasformazione semiotica del kantismo e Jürgen Habermas, teorico dell’agire comunicativo e della razionalità comunicativa[12].
E, nel portare avanti questo loro programma, legato ad una Diskursethik che ricerca l’eguaglianza e la responsabilità degli attori coinvolti nell’atto comunicativo, hanno dovuto confrontarsi con un po’ tutto il pensiero, non soltanto etico, del Novecento, portatore del valore del relativismo[13] e della sostanziale e universale – per dirla con Wittgenstein – eterogeneità dei giochi linguistici e delle forme di vita.
Ciò nonostante, entrambi hanno ricercato le condizioni che rendono possibile una vera etica pluralista, e – aggiungiamo noi – ambivalente, visto che tenta di mantenere al suo interno elementi assolutamente contraddittori come l’autonomia e l’universalità, l’interesse collettivo e l’interesse individuale. Una prospettiva affascinante che risente dell’ambivalenza, a volte paradossale, del contesto storico-sociale attuale.
Nella sua etica del discorso, Habermas sembra riuscire nel tentativo di superare le conclusioni a cui era giunto Max Weber: infatti, il linguaggio assolve la funzione fondamentale di paradigma universalizzante, in grado di determinare delle pratiche di imparzialità sulla base di presupposti comunicativi universali. Pratiche che trovano una loro legittimazione nel concetto di intersoggettività. Il linguaggio, peraltro, costituisce non soltanto il presupposto basilare dell’agire comunicativo, ma anche l’elemento in grado di dare vita ad una scienza sociale che si possa “smarcare” dai vincoli del relativismo[14].
Nella visione habermasiana, il Soggetto viene sollecitato ad assumere il ruolo anche di colui che riceve il messaggio e, nel far questo, partecipa all’atto comunicativo in maniera intersoggettiva, dal momento che “il comprendere ciò che viene detto richiede la partecipazione e non soltanto l’osservazione”[15].
L’atto linguistico permette di creare una relazione intersoggettiva, in quanto chi lo produce crea contemporaneamente una relazione sempre riferita ad un sistema di regole. In Habermas, il concetto di “intersoggettività” costituisce l’elemento fondante l’identità individuale e gli stessi principi etici, comunque autonomamente selezionati, si originano all’interno di dinamiche discorsive e, più in generale, comunicative razionalmente fondate e orientate verso un’intesa che non può essere imposta.
La teoria di Jürgen Habermas risente molto, sotto questo aspetto, dell’influenza di George Herbert Mead[16], che, nel proporre l’interessante concetto di “Altro generalizzato”, arriva ad affermare che «L’atteggiamento dell’altro generalizzato é l’atteggiamento dell’intera comunità. […] Nel periodo astratto l’individuo assume l’atteggiamento dell’altro generalizzato verso se stesso […] solo così il pensiero – o la conversazione internalizzata dei gesti che costituiscono il pensiero – si dà»[17].
Analogamente, Habermas identifica nella “socialità” degli individui partecipanti al discorso, il presupposto basilare della sua etica del discorso pensata in chiave universale: un tipo di etica che gli permette di trascendere la nota dicotomia weberiana. In Mead, il Soggetto si ritrova direttamente coinvolto in una fitta rete di rapporti sociali che é preesistente all’affermazione della sua personalità e che lo condiziona: «Il processo da cui il sé emerge é un processo sociale che implica l’interazione degli individui nel gruppo, implica la preesistenza del gruppo»[18].
Pur nella diversità delle prospettive, alla base dell’opera di questi studiosi che costituiscono il “collante” teorico di tutta la nostra analisi, sta il profondo convincimento che «La socialità non è un accidente né una contingenza; è la definizione stessa della condizione umana»[19]: tutti gli individui, come sostiene lo stesso Tzvetan Todorov, sono “segnati da un’incompletezza originaria” che viene colmata soltanto nel corso dell’esistenza sociale. Anche la riflessione dello studioso di origine bulgara, allievo di Roland Barthes, inserendosi perfettamente in questo percorso ed in una linea di pensiero molto ricca ed articolata – che si sviluppa a partire da Rousseau e Adam Smith, e arriva appunto a Mead (di cui Todorov riconosce l’importanza) e ad Habermas – giunge alla conclusione che «la fonte di ogni giudizio è nel riferimento all’altro […] e dunque tanto l’etica quanto l’estetica non possono nascere che in società. Non possiamo giudicarci senza uscire da noi stessi e guardarci con gli occhi degli altri. Se si potesse allevare un essere umano in isolamento, questi non potrebbe esprimere alcun giudizio, neppure di sé: gli mancherebbe uno specchio per vedersi»[20].
Dunque, è solo nel corso del processo di socializzazione, e all’interno delle reti (comunicative) di interazione sociale, che l’attore sociale, oltre a strutturare la sua coscienza di sé e la sua identità, inizia a tessere e, successivamente, ad alimentare la trama del sistema dei valori etici e conoscitivi, che costituisce la base per il consenso e la coesione sociale. Un “consenso” che, peraltro, anche nella prospettiva di Habermas, non è acriticamente imposto o subito, in quanto «si fonda su un riconoscimento intersoggettivo di pretese di validità criticabili; con ciò si presuppone che gli agenti in modo comunicativo siano capaci di critica reciproca»[21]. Fatto, questo, che considerata l’alta invasività della comunicazione globale e delle nuove reti di interazione comunicativa, rende assolutamente urgente una riflessione di questo tipo. D’altra parte, etica e morale rappresentano dei dispositivi di sicurezza che garantiscono protezione a sistemi socioculturali “vulnerabili”. Ciò può avvenire nel momento in cui «I soggetti capaci di parlare ed agire vengono anzi costituiti quali individui solamente perché, in quanto membri di una comunità linguistica ogni volta particolare, crescono in un mondo della vita intersoggettivamente diviso. Nei processi di formazione comunicativi si costituiscono e si conservano cooriginariamente l’identità del singolo e quella del collettivo»[22].
Ed è all’interno di questo processo che il medium della lingua corrente svolge una funzione fondamentale, per non dire vitale, per il sistema stesso, orientandolo verso l’intesa ed il reciproco riconoscimento da parte di tutti i soggetti. Proprio l’intesa costituisce «il vero nucleo di tutta la teoria habermasiana, dai suoi inizi, quando si occupa dell’argomentazione razionale nella sfera pubblica, fino alla fase più matura»[23]
L’impianto teorico di Habermas (così come quello di Apel) pur presentando alcuni elementi di evidente criticità – soprattutto per ciò che concerne la dimensione dei «problemi della decisione morale nelle situazioni concrete, cioè della scelta individuale fra valori universalizzati ugualmente legittimi»[24] – ci offre certamente la possibilità di riflettere sulla centralità del linguaggio, della comunicazione e delle reti di interazione sociale e comunicativa all’interno della moderna società ipercomplessa[25]. Una centralità che richiede “competenze comunicative” e che si manifesta nella produzione della cultura e, in particolare, nel processo di costruzione sociale dei significati condivisi a livello locale e globale. Rispetto a quanto appena detto, si deve inoltre prendere atto, oltre che del potenziamento dei mezzi, del processo di proliferazione dei canali comunicativi e delle modalità comunicative. Si tratta di molteplici dimensioni che connotano uno stesso fenomeno, quello della società della conoscenza, la cui rilevanza è testimoniata, oltretutto, dal peso che i flussi comunicativi esercitano sulle modalità della prassi e sulle cosiddette “forme di mediazione simbolica”[26] attraverso cui sperimentiamo e conosciamo il mondo “fuori di noi”, confrontandoci costantemente con l’Altro generalizzato.
Jurgen Habermas vuole farci riflettere sull’importanza del riconoscimento reciproco, nelle relazioni intersoggettive, e dell’accettazione della molteplicità delle posizioni e dei valori, aspetti che implicano il massimo rispetto e la massima comprensione dell’ALTRO, soprattutto in un atto comunicativo che abbia la pretesa di essere realmente autonomo e responsabile.
Nell’era della glocalizzazione, la riflessione del sociologo e filosofo tedesco risulta particolarmente attuale, soprattutto per ciò che riguarda la sua ricerca dei prerequisiti universali decisivi per realizzare l’intesa con l’ALTRO. “Intesa” che, come anche per Apel (che parla di atti di comunicazione linguistica), si realizza sulla base di una razionalità comunicativa e non della razionalità dei mezzi e dei fini formulata da Weber; “intesa” che potrebbe essere tradotta in termini operativi come: scambio delle risorse conoscitive, riduzione dell’incertezza globale, riconoscimento dei “diritti di cittadinanza globale”; condivisione di principi etici (ciò avviene già, in parte, con il diritto) e di politiche transnazionali di sviluppo (economico e culturale); formazione di una società civile transnazionale; definizione di politiche educative per la società multietnica e multiculturale. Ed è, in tal senso, che nella teoria dell’agire comunicativo, Habermas, tentando di fondere insieme teoria dell’azione e teoria dei sistemi e avvertendo l’esigenza di una razionalità comunicativa, fonda il suo pensiero sul rapporto dialettico esistente tra agire strumentale e agire comunicativo, tra “sistemi” e “mondo della vita” che costituiscono la società. In particolare, quello di “mondo della vita” (Lebenswelt) è un altro concetto assolutamente fondamentale della teoria habermasiana dell’agire comunicativo che, non scordiamolo, per Habermas è il meccanismo essenziale che assicura la riproduzione dei sistemi sociali: «Sotto l’aspetto funzionale dell’intendersi l’agire comunicativo serve alla tradizione e al rinnovamento del sapere culturale; sotto l’aspetto del coordinamento delle azioni esso serve all’integrazione sociale e alla produzione di solidarietà: sotto l’aspetto della socializzazione l’agire comunicativo serve infine alla formazione di identità personali. Le strutture simboliche del mondo vitale si riproducono attraverso la continuazione del sapere valido, la stabilizzazione della solidarietà di gruppo e la formazione di attori imputabili. Il processo di riproduzione collega situazioni nuove agli stati esistenti, e precisamente nella dimensione semantica dei significati e dei contenuti (della tradizione culturale) altrettanto come nelle dimensioni della spazio sociale (di gruppi socialmente integrati) e del tempo storico (delle generazioni in successione). A questi processi della riproduzione culturale, dell’integrazione sociale e della socializzazione corrispondono, quali componenti strutturali del mondo vitale, la cultura, la società e la persona […] Il campo semantico di contenuti simbolici, lo spazio sociale e il tempo storico costituiscono le dimensioni nelle quali si estendono le azioni comunicative. Le interazioni intrecciate nella rete della prassi comunicativa quotidiana costituiscono il medium attraverso il quale la cultura, la società e la persona si riproducono»[27]. Quindi, il “mondo della vita”, estremamente complesso, rappresenta la base di ogni processo comunicativo ed è costituito da un sapere aproblematico che garantisce il consenso e l’opportunità dell’intesa. Anche se lo stesso Habermas, ci tiene a precisare che questi complessi processi riproduttivi, appena descritti, riguardano in modo particolare le “strutture simboliche del mondo vitale”, dalle quali è di fondamentale importanza distinguere il substrato materiale del mondo vitale e i mezzi che ne rendono possibile il “mantenimento”: e, in questo caso, tornano in gioco le categorie weberiane, in quanto «La riproduzione materiale si compie attraverso il medium dell’attività in vista di uno scopo, con la quale gli individui socializzati intervengono nel mondo per realizzare i propri fini»[28].
Nel I volume del suo Teoria dell’agire comunicativo, dopo aver analizzato criticamente il concetto di razionalità e le sue molteplici interpretazioni, Habermas, in un percorso che va da Aristotele a Max Weber, da Lukàcs a Parsons, individua quattro tipi di azione: a) l’agire teleologico e strategico, utilizzato dalla teoria neoclassica, orientato verso uno “scopo” e fondato sul concetto di “decisione fra alternative di azione”; (b) l’agire regolato da norme che fa riferimento a “membri di un gruppo sociale che orientano il proprio agire in base a valori comuni”, i quali garantiscono l’esistenza del gruppo stesso. Le norme riconosciute rendono possibile il soddisfacimento delle reciproche aspettative legate ai comportamenti di ogni singolo individuo. Habermas ricorda come tale concetto abbia assunto una rilevanza paradigmatica grazie a Durkheim e Parsons; (c) l’agire drammaturgico, elaborato da Goffman, basato sul concetto di “autorappresentazione”, che si riferisce a “partecipanti all’interazione che creano l’uno per l’altro un pubblico dinanzi al quale essi si rappresentano. L’attore evoca nel suo pubblico una determinata immagine, un’impressione di se stesso rivelando in modo più o meno orientato la propria soggettività”; (d) l’agire comunicativo, che Habermas lega ai nomi di Mead e Garfinkel, il cui concetto «si riferisce all’interazione di almeno due soggetti capaci di linguaggio e di azione che (con mezzi verbali o extraverbali) stabiliscono una relazione interpersonale. Gli attori cercano un’intesa attraverso la situazione di azione per coordinare di comune accordo i propri piani di azione e quindi il proprio agire. Il concetto centrale di interpretazione si riferisce in prima linea al concordare definizioni di situazioni suscettibili di consenso. In tale modello di azione il linguaggio viene ad assumere […] un posto preminente»[29]. In realtà, il medium linguaggio ha un suo relativo peso anche nei primi tre modelli di azione: nel primo caso (agire teleologico), il linguaggio è uno dei diversi media “con il quale i parlanti orientati al proprio successo esercitano reciproca influenza per indurre l’antagonista a formare o a cogliere opinioni o i propositi desiderati nel proprio interesse”; nel caso dell’agire regolato da norme, il linguaggio è responsabile della trasmissione dei valori culturali e, quindi, del consenso che rende possibile un sistema sociale; nel terzo modello di azione, quella drammaturgica, il medium linguistico è funzionale alla “messa in scena di se stessi”; pertanto, «Soltanto il modello di azione comunicativa presuppone il linguaggio come un medium di comprensione e intesa non ridotta, ove i parlanti e gli uditori, dall’orizzonte del loro mondo vitale pre-interpretato, fanno contemporaneamente riferimento a qualcosa nel mondo oggettivo, sociale e soggettivo per trattare comuni definizioni della situazione»[30]. Allargando questa interessante prospettiva, potremmo affermare che la società ipercomplessa richiede appunto “comuni definizioni della situazione” che devono produrre conoscenza condivisa per la riduzione di quella che abbiamo chiamato “complessità rischiosa”. Quindi, Habermas pone l’accento – sempre partendo dal linguaggio – sul concetto di “agire comunicativo”, distinguendolo dall’ “agire strumentale” sulla base di un rapporto di reciproca influenza, che contraddistingue anche il confronto tra sistema e mondi della vita[31], i quali rappresentano l’insieme dei valori condivisi da una comunità in modo immediato.
Habermas evidenzia come, l’avvento della modernità e dei processi di razionalizzazione, abbia decretato il deterioramento del rapporto dialettico esistente tra sistema e mondi vitali, determinando una situazione di interferenza da parte del sistema sui “mondi della vita”.
La prospettiva universalizzante dell’etica del discorso habermasiana, basata sul paradigma del linguaggio, cerca di colmare il vuoto esistente tra le idee di autonomia e universalità. Il tentativo é anche quello di superare la presunta inconciliabilità tra due prospettive apparentemente divergenti, e cioè la possibilità di realizzare l’interesse generale e il rispetto della pluralità etica e degli interessi individuali.
Il punto centrale della tesi di Habermas consiste nel fatto che il linguaggio, finalizzato all’intesa con l’Altro, basandosi su presupposti comunicativi universali che richiamano il concetto di “intersoggettività”, permette di trascendere la sfera intima e privata di ogni individuo, mettendolo in condizione di partecipare empaticamente al discorso. Habermas è molto esplicito, in tal senso, quando chiarisce che «Per il modello di azione comunicativa il linguaggio è rilevante soltanto dal punto di vista pragmatico per cui i parlanti, utilizzando proposizioni in modo orientato alla comprensione stabiliscono relazioni con il mondo e non solo in maniera diretta, come nell’agire teleologico, guidato da norme o drammaturgico, bensì in modo riflessivo. I parlanti implicano i tre concetti formali del mondo (che compaiono singolarmente o a coppie negli altri modelli di azione) in un sistema e presuppongono quest’ultimo come quadro interpretativo all’interno del quale possono raggiungere una intesa. Essi non fanno più riferimento in modo diretto a qualcosa nel mondo oggettivo, sociale o soggettivo, bensì relativizzano la loro espressione alla possibilità che la sua validità sia contestata da altri attori. L’intesa funziona da meccanismo che coordina le azioni soltanto nel senso che i partecipanti all’interazione si mettono d’accordo sulla validità rivendicata dalle loro espressioni, vale a dire riconoscono intersoggettivamente le pretese di validità reciprocamente sollevate. Un parlante fa valere una pretesa criticabile rapportandosi con la propria espressione almeno ad un mondo ed utilizzando la circostanza che tale relazione fra attore e mondo è accessibile in linea di principio ad una valutazione oggettiva, al fine di esortare la sua controparte ad una presa di posizione razionalmente motivata. Il concetto di agire comunicativo presuppone il linguaggio come medium di un tipo di processi di comprensione e intesa durante il cui svolgimento i partecipanti, riferendosi ad un mondo, sollevano reciprocamente pretese di validità che possono essere accettate e contestate. Con questo modello di azione si suppone che i partecipanti all’interazione mobilitino espressamente il potenziale di razionalità – intrinseco ai tre riferimenti al mondo dell’attore – per perseguire in modo cooperativo l’obiettivo dell’intendersi»[32].
Di conseguenza, il discorso e la comunicazione costituiscono anche le basi fondanti della socializzazione e della costituzione dell’identità di un individuo, anche se il filosofo tedesco ci tiene a precisare che l’etica del discorso «delineando la sfera di validità delle norme d’azione, delimita l’ambito di ciò che é moralmente valido rispetto a quello dei contenuti dei valori culturali» e che essa «non indica alcun orientamento materiale concreto, ma fornisce una procedura pregiudiziale che deve garantire l’imparzialità della formazione del giudizio. Il discorso pratico é un procedimento che serve non già a produrre norme giustificate, bensì a verificare la validità di norme considerate in via ipotetica»[33].
Ma la complessità del processo di socializzazione e di formazione dell’identità di ogni individuo richiede la considerazione di un altro presupposto morale, che tra l’altro viene considerato fondamentale anche da Hans Jonas[34]: la vulnerabilità, a cui il Soggetto é esposto nel corso della socializzazione. Tale aspetto non può non essere valutato soprattutto perché accresce la complessità della nostra analisi: infatti, nella cosiddetta società del rischio, lo straordinario potenziamento delle modalità comunicative e la radicale differenziazione dei canali dell’offerta formativa hanno comportato una crescente capacità di autodeterminazione da parte del Soggetto in fatto di scelte, valori, modelli di comportamento, schemi cognitivi. Ma ad essere sconvolto nel suo complesso è il “sistema simbolico condiviso” insieme al “medium” linguaggio che tenta di descrivere e rappresentare questo mutamento globale senza precedenti. Tuttavia, a rafforzare la nostra prospettiva di analisi giungono in aiuto le seguenti parole: «L’individualizzazione é soltanto il rovescio della socializzazione. Solo in condizioni di reciproco riconoscimento una persona può formare e riprodurre la sua propria identità. L’essenza intima della persona é ancora internamente connessa con l’estrema periferia di una rete ampiamente ramificata di relazioni comunicative. Soltanto nella misura in cui si esterna con la comunicazione, la persona diventa identica con se stessa. Le interazioni sociali, in base alle quali l’io si forma, mettono in pericolo l’io anche tramite le dipendenze, in cui viene implicato, e le contingenze, a cui viene esposto. È la morale che funge da contrafforte a questa vulnerabilità insita nel ritmo della stessa socializzazione. Allora non è però possibile sviluppare un concetto di autonomia pieno di contenuto normativo sulla base dei necessari presupposti dell’agire teleologico di soggetti solitari. A questo scopo, noi dobbiamo muovere dal modello dell’agire orientato verso l’intesa. Nell’agire comunicativo coloro che parlano e coloro che ascoltano tengono conto del fatto che le loro prospettive sono interscambiabili. Entrando in una relazione interpersonale con atteggiamento performativo, essi debbono riconoscersi simmetricamente l’un l’altro quali soggetti capaci d’intendere e di volere e di orientare il loro agire secondo le pretese di validità. E nel contesto normativo del mondo vitale le loro attese di comportamento rimangono reciprocamente intrecciate l’una con l’altra. In tal modo, i presupposti necessari dell’agire comunicativo costituiscono una infrastruttura di possibile intesa contenente un nucleo morale – l’idea dell’intersoggettività senza costrizione»[35].
Soprattutto ora che discutiamo di sistema-mondo, di globalizzazione, di società ipercomplessa e di frammentazione dei micro-universi socioculturali, diventa di fondamentale importanza che la “nuova” etica della comunicazione, come sottolineato chiaramente anche da Habermas, sia finalizzata al rispetto dell’autonomia, di pensiero e di giudizio, e dell’identità culturale degli individui, e, soprattutto, al rafforzamento dei “mondi di vita” condivisi.
La categoria di intersoggettività senza costrizione è, in tal senso, davvero produttiva in termini di ricadute positive per il nostro lavoro. Ciò significa elaborare modelli e strategie funzionali al consolidamento delle importantissime reti di relazione sociale (oggi anche virtuali), all’interno delle quali l’attore sociale si orienta, in ogni caso, sulla base di un sistema valoriale condiviso.
In un contesto di difficile lettura come quello attuale, siamo costretti a prendere atto che i concetti di “autonomia” e di “libertà di coscienza” non sono più sufficienti: in altre parole, la civiltà tecnologica del rischio, caratterizzata da conflitti in primo luogo socioculturali, richiede responsabilità ed una comunicazione etica, realmente orientata verso l’intesa e, quindi – a livello pratico – verso lo scambio culturale e conoscitivo.
La civiltà del rischio, d’altra parte, pur presentandosi come straordinaria opportunità di evoluzione economica, politica e sociale, ha di fatto significativamente accresciuto il senso di insicurezza e vulnerabilità all’interno dei sistemi sociali[36], alimentando un clima di paura (e/o allarme sociale), a livello sia locale che globale, che mette radicalmente in discussione lo stesso “principio di precauzione”[37], peraltro sempre più sganciato, nella società ipercomplessa, dalla domanda sociale di protezione. Ancora una volta – non è inutile precisarlo – la questione cruciale riguarda la condivisione e l’accesso alla conoscenza, oltre che, evidentemente, la possibilità di elaborare informazioni, a maggior ragione in sistemi basati su una razionalità limitata. Informazioni e conoscenze si confermano così le risorse strategiche per la valutazione e la gestione del rischio e dell’incerto; si tratta di problematiche complesse che intercettano, a loro volta, quelle dell’accettabilità sociale dei rischi, della libertà, dei diritti di cittadinanza, del consenso politico.
Il sistema-mondo e la nuova economia informazionale, globale e interconnessa (Castells), richiedono una nuova sensibilità per le problematiche riguardanti il Soggetto, i rapporti sociali e, soprattutto, lo spazio del sapere. Habermas ci viene, ancora una volta, in aiuto formulando i concetti di “interrelazione” ed “intersoggettività”, che si rivelano interessanti anche, e soprattutto, nell’ottica di un rafforzamento della sfera pubblica politica[38] transnazionale.
Ma il problema che si pone, comunque, ogni volta é il seguente: come é possibile, in generale, ma ancor di più nel sistema della comunicazione, arrivare a formulare giudizi di valore “imparziali” – che possano essere anche condivisibili – nella valutazione di problematiche di ordine morale? La risposta data da Habermas ruota, come già detto, intorno al concetto di interscambiabilità, cioè alla possibilità che l’atto comunicativo sia orientato verso la cooperazione ed il rispetto reciproco, senza alcun tipo di rinuncia all’autonomia individuale; ciò non esclude il fatto che solo la prospettiva universalizzante di un atto lo rende realmente morale, cioè il considerare e rispettare tutti i punti di vista e gli interessi degli altri protagonisti coinvolti nelle diverse situazioni comunicative.
Tale concezione dell’agire, che certamente affonda le sue radici nell’etica di Kant, il quale aveva conquistato l’universalizzazione dei principi dell’agire etico attraverso l’imperativo categorico, in realtà si distacca da Kant stesso nel momento in cui l’individuo trova la dimensione morale dell’agire non dentro di sé, ma nell’interazione comunicativa con gli altri, prospettiva questa accettata anche da altri pensatori come Apel, Kohlberg, Mead, Levìnas e Jonas.
In sintesi, l’esplicazione di un atto comunicativo che potremmo definire, moralmente, corretto e responsabile non può prescindere, in primo luogo, dal considerare gli interessi di tutti coloro che sono coinvolti nella situazione comunicativa stessa, ma soprattutto «occorre mostrare che quando si parla di regole del discorso, non si tratta semplicemente di convenzioni, bensì di presupposti inevitabili»[39]. Tale concetto lo ritroviamo anche nel pensiero di Apel.
Il superamento, da parte di Habermas della ragione legislatrice universale kantiana, é operato attraverso una “teoria del discorso” che si basa su una razionalità comunicativa valida solo se in grado di soddisfare alcuni essenziali prerequisiti di regole generali, di logica e di senso.
Nel perseguire questo obiettivo, non è possibile non considerare il rispetto dell’altro e della sua identità: fatto che implica la capacità di autonomia di giudizio di ognuno e il partecipare alla situazione comunicativa, in un atteggiamento, che é sì di reciproca critica, ma che deve sempre avere come fine l’accordo sui problemi di ordine morale, sulla base di norme che esprimano una volontà universale.
La ricerca dell’intesa nell’atto comunicativo implica una sorta di “rivoluzione etica” negli individui che partecipano alla comunicazione e che devono aver fatto propri i presupposti basilari dell’etica del discorso, dal momento che la razionalità comunicativa é già presente, secondo Habermas, nelle forme di interazione tra individui, anche se può non essere così scontata la sua presenza: «Dal discorso stesso non possono essere soddisfatte le condizioni necessarie perché tutti coloro che sono di volta in volta interessati vengano messi in grado di partecipare regolarmente a discorsi pratici. Spesso mancano le istituzioni particolari che rendono socialmente attendibile una formazione discorsiva della volontà per determinati temi in determinati luoghi; spesso mancano i processi di socializzazione in cui vengono acquisite le disposizioni e capacità indispensabili per partecipare ad argomentazioni morali – in cui, per esempio, venga acquisita quella che Kohlberg chiama una coscienza morale postconvenzionale[40]. Ancora più di frequente le condizioni materiali di vita e le strutture sociali sono così fatte che le questioni morali stanno sotto gli occhi di tutti e hanno trovato da un bel pezzo una risposta esauriente tramite i nudi fatti dall’immiserimento dell’offesa e della degradazione. Dovunque le condizioni esistenti siano una mera beffa per le esigenze di una morale universalistica, le questioni morali si tramutano in questioni di etica politica»[41]. Autonomia degli individui e rafforzamento del mondo di vita condiviso sono i due obiettivi che possono realizzarsi all’interno delle reti relazionali e comunicative, grazie all’etica del discorso.
Il grande merito del pensiero di Jurgen Habermas é quello di essere riuscito a compiere il difficile percorso logico-culturale di passaggio da una filosofia della coscienza, di cui é protagonista un individuo “atomistico” e isolato, ad una filosofia del linguaggio, che ha invece come protagonista un individuo socializzato (oggi cittadino del mondo) che, attraverso la comunicazione, forma la sua coscienza e rafforza i legami sociali nei quali è immerso e nei quali deve, peraltro, dimostrare di essere responsabile.
Alla base dell’analisi di Habermas, c’è senza dubbio anche la profonda consapevolezza del progressivo sfaldamento della morale tradizionale ormai del tutto inadatta a fronteggiare le nuove problematiche della Risikogesellschaft. Uno sfaldamento molto probabilmente correlato a diverse questioni: le profonde contraddizioni del reale, la continua ridefinizione a cui sono sottoposte le identità culturali, ma anche la frammentarietà e la “crisi di senso” che ha travolto la realtà dei sistemi sociali[42].
Da parte sua, Karl Otto Apel, dedicando diversi suoi studi, al problema della comunicazione, si propone come obiettivo principale la “trasformazione semiotica del kantismo”. Secondo Apel, l’a priori da cui dipende la stessa possibilità della conoscenza è il linguaggio – inteso come processo comunicativo essenziale per il concretizzarsi delle relazioni sociali – non una struttura della ragione. Apel vuole intraprendere una trasformazione della filosofia trascendentale in senso linguistico-comunicativo, sempre e comunque all’interno di una visione universalistica[43]. Egli va alla ricerca, come Habermas, di una fondazione ultima razionale dei principi etici (che abbiano una validità universale) – che ha notevoli ricadute anche, più specificamente, a livello della prassi politica – e, a suo avviso, questa può essere rintracciata soltanto servendosi dei presupposti pragmatici dell’argomentazione dialogica. Le nostre argomentazioni, infatti, presuppongono alcune evidenze pragmatiche, la cui negazione non sarebbe logica. In questo processo «è inclusa la fondazione della validità universale di un principio di giustizia, di solidarietà e di co-responsabilità»[44].
Si tratta di concetti su cui l’etica contemporanea, pur nella diversità degli approcci, converge senza esitazioni. Anche se lo stesso Apel, fissando i “confini” in cui si muove la sua etica del discorso fondata in chiave pragmatico-trascendentale, ci tiene a precisare che, anche quando propone il concetto di co-responsabilità, questo «non riguarda soltanto, come nelle classiche etiche deontologiche dei principi, le conseguenze – pur esse eticamente rilevanti – delle azioni in genere, ma anche la responsabilità in relazione alla storia, responsabilità connessa con la stessa applicabilità dell’etica del discorso […] L’etica del discorso, fondata in chiave pragmatico-trascendentale, intende essere così un’«etica della responsabilità» in senso forte (nel senso di Max Weber e di Hans Jonas) e non una pura «etica dell’intenzione», sebbene, in quanto etica deontologica (che si propone quale trasformazione di Kant), resti distinta da ogni etica utilitaristica, come pure da ogni etica teleologica dei valori o della vita buona»[45]. Allo stesso modo, Apel afferma chiaramente che le questioni legate ad una “macroetica planetaria della responsabilità” non possono essere risolte neanche dalla “tradizionale morale individuale” o dall’ “etica tradizionale delle virtù”[46].
Alla luce di quanto sta progressivamente emergendo dalla rilettura di alcune opere fondamentali di Habermas e Apel, ci sentiamo di poter affermare che entrambi le proposte rappresentano, senz’altro, dei “percorsi” estremamente significativi per provare ad analizzare le possibilità effettive di un’etica per la civiltà della globalizzazione e della comunicazione globale. In particolare, la definizione di macroetica planetaria della responsabilità – fondata su un’etica della comunicazione razionale – sembrerebbe rispondere ai requisiti richiesti dalla società globale dell’incertezza.
Nel pensiero di Karl-Otto Apel, le possibilità di realizzazione del suo progetto sono legate all’idea forte che qualsiasi attività razionale può essere ricondotta alla prassi “dell’argomentazione e della giustificazione tramite enunciati linguistici”. Apel, tuttavia, nel portare avanti il suo discorso, è perfettamente consapevole del fatto che deve, in qualche modo, fare i conti con una serie di “presupposti paradigmatici, profondamente radicati nella filosofia occidentale ed in particolare in quella moderna”. Tra questi il filosofo di Düsseldorf, sintetizzandoli magistralmente, individua quelli più significativi. Si tratta degli stessi “punti critici” che rendono, a dir poco, complicata anche la proposta di un’etica universale per la globalizzazione e che volentieri riportiamo nella chiara articolazione promossa da Apel: «1. il “solipsismo metodico” o “trascendentale” (Husserl) della ragione, connesso con l’assolutizzazione della relazione soggetto-oggetto in campo conoscitivo; 2. (in stretta connessione con 1) l’intendere il linguaggio e la comunicazione come secondari e strumentali rispetto al pensiero, in linea di principio solitario e autarchico; 3. l’intendere la fondazione o come derivazione di qualcosa da qualcos’altro (in quanto deduzione, induzione o abduzione), o semmai, come ricorso riflessivo ad una evidenza coscienziale esente da interpretazione; 4. (in stretta connessione con 3) il supporre che il concetto di razionalità abbia il suo paradigma nella razionalità logico-matematica e che quindi la razionalità possa giungere solo fino al punto in cui quella logico-matematica risulta applicabile alle relazioni tra oggetti o anche all’interazione tra soggetti (in quanto razionalità dei mezzi rispetto allo scopo, di tipo analitico-causale o tecnico-strumentale, oppure in quanto razionalità strategica, intendibile come applicazione reciproca tra soggetti di quella strumentale); 5.il ritenere che, a riguardo della fondazione filosofica ultima, soprattutto nel caso dell’etica, si dia la seguente alternativa «adialettica»: o la fondazione filosofica ultima dovrebbe muovere da principi ideali, astraendo completamente dalla storia (situazione-zero), oppure dovrebbe rinunciare del tutto a ricorrere a principi incondizionatamente ed universalmente validi, optando così per una qualche soluzione particolarista (storicista o relativista o contestualista) del problema della validità»[47].
Questi presupposti, veri e propri pilastri non solo della filosofia, bensì di tutta la cultura occidentale, determinando una cesura netta tra “razionalità della scienza” e “razionalità dell’etica”, fanno in modo che la “comunicazione” ed il “linguaggio” vengano considerati semplicemente dei «mezzi per la fissazione e la trasmissione di conoscenze già acquisite dal singolo nella relazione soggetto-oggetto»[48]. Al contrario, linguaggio e comunicazione, nell’etica comunicativa apeliana così come nella teoria di Habermas, costituiscono delle fondamentali mediazioni che rendono concreta e possibile la validità intersoggettiva del senso. Ma gli stessi presupposti vincolanti, a cui si faceva – con Apel – riferimento poc’anzi, sono anche responsabili della fuorviante sovrapposizione, apparentemente logica, tra i concetti di “validità intersoggettiva” e di “obiettività” (conoscenza scientifica avalutativa dei “fatti”), sovrapposizione che, secondo Apel, conduce inevitabilmente qualsiasi analisi o discorso alla negazione a priori della stessa possibilità di una “validità intersoggettiva di valutazioni o di norme”. Questo che egli stesso definisce “blocco paradigmatico della possibile razionalità dell’etica”, che evidentemente ha profonde ripercussioni anche in campo conoscitivo, può essere spezzato nel momento in cui si prende atto – e qui avviene la congiunzione, con la prospettiva analitica della sociologia, e in particolare con quella della sociologia della conoscenza[49], ma anche delle altre scienze sociali – che non è possibile alcuna validità intersoggettiva della conoscenza scientifica avalutativa senza fare riferimento, nello stesso tempo, ad «una comunità linguistica e comunicativa, con la relativa relazione soggetto-cosoggetto normativamente non neutrale»[50]. Il che presuppone, dal punto di vista di Apel, la presa d’atto che «la stessa scienza avalutativa presuppone necessariamente un’etica normativa, come ha mostrato per primo C.S. Peirce. Per lo meno, è errato ritenere che la razionalità della scienza escluda a priori una possibile razionalità dell’etica. Ed in tal modo, si è già rotto un primo blocco paradigmatico: complementare all’obiettività della scienza non è – o non è solo – la soggettività della scelta irrazionale di valori, bensì – almeno – la validità intersoggettiva di norme morali in una comunità»[51]. La dottrina apeliana condivide con quella di Habermas anche il punto di partenza: l’accettazione di “presupposti pragmatici universali”. La comunicazione e l’argomentazione sono possibili solo se tra i soggetti comunicanti esistono la parità e il rispetto reciproco. Si afferma così un’etica della reciprocità e si assiste al passaggio dall’io trascendentale al linguaggio. Apel, così come Habermas, propone il concetto forte di “intersoggettività vivente” rappresentata dalla “comunità dei parlanti”.
Il punto decisivo delle sue tesi consiste nella convinzione che il pensiero si manifesti solo nel momento in cui è espresso a livello di segni e la realtà esista soltanto se viene interpretata nei simboli. Egli con il suo discorso cerca di confutare le posizioni del relativismo etico, viaggiando parallelamente alle posizioni di Habermas: infatti entrambi sono convinti che la comunicazione, composta di “atti argomentativi”, richieda implicitamente un patrimonio di regole universali. Il soggetto emittente, per dotare concretamente di senso un discorso, è tenuto a dare un significato intersoggettivamente comprensibile. È lo stesso linguaggio a basarsi sulla premessa della “validità intersoggettiva di significati atemporali”. Tali regole riguardanti la comunicazione sono insite nell’atto stesso del parlare. Peraltro la “società della conoscenza” e le nuove tecnologie della comunicazione sembrano proprio essere sul punto di creare delle comunità illimitate della comunicazione aperte a tutti i soggetti comunicanti dove non c’è posto per condizionamenti, dove tutti hanno potenzialmente la possibilità di produrre e scambiare conoscenze e, soprattutto, dove tutti hanno eguali diritti e doveri. Tale discorso assume ancora più importanza, nel momento in cui si discute, con sempre maggiore frequenza, delle profonde implicazioni legate all’affermazione di “comunità virtuali”[52] che mettono radicalmente in discussione tutti i parametri con i quali sono state in passato definite le modalità dell’interazione sociale; si tratta, d’altra parte, di “comunità” che, oltre a non avere alcun tipo di legame con il “territorio”, sono formate da soggetti comunicanti incredibilmente autonomi che, almeno in apparenza, sembrano godere di una maggiore parità nello scambio comunicativo.
Apel, pur avendo ben presente la dottrina kantiana, tenta di filtrarne qualsiasi spinta verso la metafisica, per poter giungere ad un’etica strettamente legata alle condizioni pragmatiche della comunicazione umana, che si riconosce nelle norme di una comunità ideale della comunicazione che, a sua volta, deve costituire il punto di riferimento per tutta l’azione sociale nel suo complesso (comunità reale). Secondo Apel e Habermas, le regole dell’argomentazione non riguardano soltanto l’elemento linguistico-comunicativo, ma potenzialmente anche quello propriamente normativo. I concetti forti di “comunità ideale dell’argomentazione”[53], di “comunità illimitata della comunicazione”, di “competenza comunicativa” e di “pariteticità della comunicazione” sono concetti quanto mai attuali e adattabili al nuovo sistema globale dominato dalle telecomunicazioni ed alla società della conoscenza. Un sistema in cui la comunicazione è divenuta totalmente orizzontale senza alcun tipo di filtro e, soprattutto, in cui le possibilità comunicative si sono estese a livello globale.
Da una realtà complessa come quella attuale, che offre la possibilità di scegliere tra molteplici etiche possibili, si é generato un “nuovo” Soggetto più autonomo e slegato rispetto ai vincoli del contesto e/o dei gruppi di riferimento; un Soggetto che ha preso coscienza dell’avvenuta frantumazione del legame sociale, della morale religiosa e della dissoluzione dei tradizionali vincoli etici. Non poteva essere altrimenti, dal momento che le fasi storiche di mutamento sociale sono sempre accompagnate da una grande incertezza e da un disorientamento correlato all’assenza di un modello culturale forte.
L’avvento della modernità ci restituisce un individuo assolutamente sovrano e padrone delle proprie scelte, anche se, secondo alcuni, solo in apparenza.
Così come Habermas e Apel, anche Hans Jonas fonda la sua etica passando da una sfera di discorso esclusivamente individuale-esistenziale a una sfera più complessa riguardante le interazioni e le interdipendenze sociali.
Un ulteriore contributo all’analisi arriva dal concetto intorno a cui ruota tutto il discorso di Jonas, quello di autodeterminazione responsabile, che sembra riuscire nell’intento di colmare il grande vuoto esistente tra le idee di autonomia e interdipendenza. Autonomia morale e responsabilità sono i pilastri su cui poggia la concezione etica di Jonas, il quale é perfettamente cosciente dell’importanza delle relazioni sociali e dei processi comunicativi.
Il problema della responsabilità si pone nel momento stesso in cui esistono infinite possibilità legate al potere di agire, di scegliere e di comunicare o, in alternativa, di non comunicare. La responsabilità é quel principio universale che permette all’individuo di limitare le proprie possibilità di potere e di influenza sugli altri: agire e, di conseguenza comunicare, in modo responsabile significa allora accordare la massima importanza alle relazioni sociali di interdipendenza che ci legano agli altri, in una sorta di etica che potremmo definire “interattiva”, tutta basata su una comunicazione che consideri soprattutto l’ALTRO.
Nell’atto comunicativo, ciò implica il concetto fondamentale di “reciprocità”, cioè il rispetto di sè e di chi comunica con noi. La modernità e la tecnica hanno, a tal punto, modificato la realtà, che le conseguenze di tale metamorfosi sono «di dimensioni così nuove che l’ambito dell’etica tradizionale non é più in grado di abbracciarli»[54].
La Galassia Internet (Castells) ha accelerato in maniera impressionante il ritmo degli scambi culturali ed economici abbattendo ogni tipo di barriera spazio-temporale.
Il problema consiste nel tentare di capire se dietro la società in rete e l’economia interconnessa, che sembrano comunque in grado di garantire maggiori opportunità di un’eguaglianza delle condizioni di partenza per tutti gli attori sociali, non si nasconda in realtà anche il rischio di un ulteriore indebolimento del tessuto connettivo dei sistemi sociali, di un’omologazione culturale e di una civiltà del controllo sociale totale. La nuova prassi tecnologica, a cui si accompagna una nuova dimensione globale dell’agire e del comunicare richiede «un’etica della previsione e della responsabilità in qualche modo proporzionale, altrettanto nuova quanto le eventualità con cui essa ha a che fare. Abbiamo visto che si tratta delle eventualità che affiorano dalle opere dell’homo faber nell’epoca della tecnica»[55].
Pertanto, pur essendo indubbio che la Network Society rappresenti concretamente una straordinaria possibilità di emancipazione e liberazione delle forze e delle energie del tessuto sociale e globale, gli stati-nazione devono essere attenti affinché la Grande Rete, oltre ad accrescere le possibilità comunicative e conoscitive, contribuisca anche a creare un tipo di umanità culturalmente più evoluta ed aperta, in grado di contrastare la fine del sociale[56].
N.B. Condividete e riutilizzate pure i contenuti pubblicati ma, cortesemente, citate sempre gli Autori e le Fonti anche quando si usano categorie concettuali e relative definizioni operative. Condividiamo la conoscenza e le informazioni, ma proviamo ad interrompere il circuito non virtuoso e scorretto del “copia e incolla”, alimentato da coloro che sanno soltanto “usare” il lavoro altrui. Le citazioni si fanno, in primo luogo, per correttezza e, in secondo luogo, perché il nostro lavoro (la nostra produzione intellettuale) è sempre il risultato del lavoro di tante “persone” che, come NOI, studiano e fanno ricerca, aiutandoci anche ad essere creativi e originali, orientando le nostre ipotesi di lavoro.
I testi che condivido sono il frutto di lavoro (passione!) e ricerche e, come avrete notato, sono sempre ricchi di citazioni. Continuo a registrare, con rammarico e una certa perplessità, come tale modo di procedere, che dovrebbe caratterizzare tutta la produzione intellettuale (non soltanto quella scientifica e/o accademica), sia sempre meno praticata e frequente in molti Autori e studiosi.
Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle tante scorrettezze ricevute in questi anni. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da vent’anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede.
Buona riflessione!
[1] Al di là dei grandi “classici” del pensiero sociologico che hanno affrontato la questione, ponendo sempre l’azione sociale e i fatti sociali al centro dell’analisi, non è operazione semplice restituire anche soltanto una parte di tale complessità; si rende quasi inevitabile recuperare il contributo scientifico di approcci e settori scientifico-disciplinari differenti. Molto semplicemente: un “oggetto di studio” complesso richiede un approccio complesso. In questa sede, ci limitiamo a segnalarne soltanto alcuni, all’interno di un panorama – come noto – vastissimo: P. Watzlawick, J. Helmick Beavin, D.D. Jackson (1967), Pragmatic of Human Communication. A Study of Interactional Patterns, Pathologies, and Paradoxes, trad.it., Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, Astrolabio, Roma 1971; G. Bateson (1972), Steps to an ecology of mind, trad.it., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976; A. Bandura (1977a), “Self-efficacy: toward a unifying theory of behavioural change”, in Psychological Review, 9:121-7; sul contributo della cibernetica: N. Wiener (1948), Cybernetics: or Control and Communication in the Animal and the Machine, trad.it., La cibernetica, Il Saggiatore, Milano 1968; sul contributo della filosofia del linguaggio, particolarmente significativa l’evoluzione del pensiero di L. Wittgenstein (I e II): L.Wittgenstein (1921), (1° ed. con il titolo), Logisch-philosophische Abhandlung, (1922)(ed.ingl., ted.), Tractatus logico-philosophicus, trad.it., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1964 (ed.it. a cura di A.G. Conte); L.Wittgenstein (1953), Philosophical Investigations, trad.it., Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967; sull’intervento della linguistica: F. de Saussure (1916, postumo; a cura di C. Bally – A. Sechehaye), Cours de linguistique générale, trad.it., Corso di Linguistica generale, Laterza, Roma-Bari 1974 (a cura di T. De Mauro); altra opera fondamentale per lo studio scientifico della comunicazione: R. Jakobson (1960), Linguistics and Poetics, trad.it., Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1966. Si vedano inoltre: J.R. Searle (1969), Speech Acts. An Essay in the Philosophy of Language, trad.it., Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1976; J.R. Searle (1998), Mind, Language and Society, trad.it., Mente, linguaggio e società, Raffaello Cortina, Milano 2000.
[2] Cfr.C.H.Cooley (1901), Social Organization, trad.it., L’organizzazione sociale, Comunità, Milano 1977, p.53. Si veda anche L.Belman, The Idea of Communication in the work of Charles Horton Cooley, in «The Journal of Communication Inquiry», primavera 1975, vol.I, n.2.
[3] L’idea della comunicazione come strumento di democrazia accomuna Cooley a John Dewey e a George Herbert Mead.
[4] Cfr.T.Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi. Per un’archeologia della globalizzazione, Meltemi, Roma 2002.
[5] E qui si pone evidentemente la questione cruciale riguardante il controllo e l’accesso alla rete. Una tematica estremamente complessa e delicata che è stata oggetto di discussione al Vertice Mondiale sulla Società dell’Informazione svoltosi a Tunisi (16-18 novembre 2005). Per ciò che concerne l’attualità più stringente, si pensi al dibattito internazionale, non soltanto scientifico o accademico, sulle questioni dell’accesso, dell’open source, della logica dei “beni comuni della conoscenza” contrapposta alla “logica della recinzione”. Per un’introduzione critica a tali questioni: C.Hess, E.Ostrom (a cura di) (2007), Understanding Knowledge As a Commons, trad.it., La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica, Bruno Mondadori, Milano 2009.
[6] Cfr. A.Mattelart (1991), La communication-monde. Histoire des idées et des stratégies, trad.it., La comunicazione mondo, Il Saggiatore, Milano 1994. In quest’opera, Mattelart parla di “spodestamento” dell’ideologia di progresso da parte dell’ideologia della comunicazione.
[7] Le caratteristiche contraddittorie a cui ci si riferisce sono sintetizzabili essenzialmente nelle seguenti categorie concettuali “dicotomiche”: globalizzazione vs localizzazione, omogeneità vs eterogeneità, globalismo vs localismo, universalismo vs particolarismo, omologazione vs differenziazione, ibridazione vs distinzione, condivisione vs separazione/controllo.
[8] Cfr. R.Robertson (1995), Glocalization: Time-Space and Homogeneity-Heterogeneity, in M.Featherstone, S.Lash, R.Robertson (a cura di) (1995), Global Modernities, Sage, London, cit.pp.23-44.
[9] Cfr. G.H.Mead (1934), op.cit.
[10] Mi si permetta di ricordare che, in un precedente lavoro avevamo già affrontato la questione (decisiva) legata alla dicotomia weberiana tra “fatti” e “valori”. In quel caso, avevamo posto la questione in questi termini: “il problema é capire se la ricchezza dei risultati derivanti dalle indagini sociologiche ci consente di passare agevolmente dall’ambito dei fatti e delle descrizioni a quello delle scelte e dei valori.La tradizionale contrapposizione tra fatti e valori, inaugurata dal pensiero weberiano, proprio grazie all’approfondirsi dei metodi di ricerca sociologica, é apparsa improduttiva e aporetica, in buona parte, per un approfondimento dei temi politici ed etici. Se si vogliono superare le posizioni antitetiche degli “apocalittici” e degli ottimisti “integrati”, non a caso soprannominati da Neil Postman “profeti con un occhio solo”, forse deve essere proprio riaperto il discorso metodologico di fondo incentrato sulla dicotomia tra fatti e scelte […] Non è un caso che il dibattito sull’eredità weberiana abbia interessato in modo particolare i teorizzatori contemporanei di etica […]Tuttavia, si devono ricordare i temi, o per meglio dire i concetti analitici, intorno a cui ruoterà il nostro discorso sull’etica dei nuovi mass-media: il primo tema si basa sulla constatazione della necessità di superare la divaricazione esistente tra fatti e valori, motivo principale per cui il dibattito in campo etico sul problema dell’agire in base a delle scelte eticamente corrette, difficilmente giunge a delle conclusioni condivise dalla maggior parte degli studiosi: questo perché, sulla base delle evidenze empiriche riscontrate dalle tantissime ricerche sui mass-media, c’é, comunque e sempre, la tendenza a schierarsi in una posizione favorevole o contraria nei confronti del problema, operando così delle valutazioni che spesso sono a priori e che, di conseguenza, non tengono conto di tutti gli elementi intervenienti nel fenomeno comunicativo.Il secondo tema, o concetto fondamentale […] é quello di trasformazione antropologica: cioè […] attraverso le nuove tecnologie della comunicazione si é realizzato un complesso processo di evoluzione dell’individuo, che ha modificato la natura dell’agire umano […] Tale processo, che non riguarda soltanto l’aspetto puramente biologico, si é rivelato come un fenomeno globalizzante di metamorfosi a livello antropologico, il cui punto di arrivo é rappresentato dalla nascita di un nuovo uomo e di un nuovo tipo di umanità, elemento fondamentale che già giustifica di per sé, in modo necessario e sufficiente, l’esigenza posta dalla nostra ricerca di una rivisitazione critica dei canoni tradizionali dell’etica. Inoltre, non si può non tener conto del fatto che il nuovo individuo atomizzato deve confrontarsi, da un lato con una comunicazione totalizzante, arricchitasi di nuove straordinarie modalità comunicative e di nuovi codici, e dall’altro con una realtà, invece, sempre più tendente alla frammentazione” (p.71-72). Cfr.P.Dominici (1998), op.cit.; si vedano, in particolare cap.VI “Ricerche sociologiche e scelte etiche”, e cap.VII “Il tentativo di superare una dicotomia”)
[11] Un’ottima introduzione al pensiero di Apel è costituita dall’opera di V.Marzocchi, Ragione come discorso pubblico. La trasformazione della filosofia di K.-O.Apel, Liguori, Napoli 2001.
[12] Sulla critica alla teoria dell’agire comunicativo habermasiana cfr: S.Belardinelli, Il progetto incompiuto. Agire comunicativo e complessità sociale, Franco Angeli, Milano 1996.
[13] E.Tugendhat definisce il “relativismo” come la “constatazione di una molteplicità di convinzioni morali reciprocamente contraddittorie […] che avanzano ciascuna una propria pretesa assoluta” (p.69). Cfr. E.Tugendhat (1984), Probleme der Ethik, trad.it., Problemi di etica, Einaudi, Torino 1987.
[14] Cfr. J.Habermas (1967), Zur Logik der Sozialwissenschaften, Beiheft 5, «Philosophische Rundschau», XIV (1967). Edizione ampliata, Suhrkamp, Frankfurt a.M.1970.Quinta edizione ampliata Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1982, trad.it., Logica delle scienze sociali, Il Mulino, Bologna 1970; II ed., con il titolo Agire comunicativo e logica delle scienza sociali, Il Mulino, Bologna 1982 (trad.it.di G.Bonazzi).
[15]Cfr.J.Habermas (1983), Moralbewuβtsein und kommunikatives Handeln, trad.it. Etica del discorso, Laterza, Roma-Bari 1985, p.32.
[16] Su G.H.Mead si veda anche il cap.IV.
[17] Cfr.G.H.Mead (1934),Mind, Self and Society, trad.it., Mente, Sè e Società, Barbera, Firenze 1966, p.154.
[18]Ibidem pag.164.
[19] Cfr. T.Todorov (1995), La vie commune. Essai d’anthropologie générale, trad.it., La vita comune.L’uomo è un essere sociale, Pratiche Ed., Milano 1998, p.29.
[20] Ibidem p.34.
[21] Cfr. J.Habermas (1981), Theorie des kommunikativen Handelns, Bd.I Handlungsrationalität und gesellschaftliche Rationalisierung, trad.it. Teoria dell’agire comunicativo, Vol.I Razionalità nell’azione e razionalizzazione sociale, Il Mulino, Bologna 1986, p.199.
[22]Cfr. J.Habermas (1991a), Erläuterungen zur Diskursethik, trad.it.Teoria della morale, Laterza, Bari 1994., p.11.
[23] Cfr. W.Privitera, Il luogo della critica. Per leggere Habermas, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996,p.47.
[24] Cfr. V.Franco, Etiche possibili. Il paradosso della morale dopo la morte di Dio, Donzelli, Roma 1996, p.18.
[25] Numerose altre potrebbero essere le definizioni dell’attuale società mondializzata; si veda, in tal senso, l’interessante raccolta di interviste contenuta in A.Pongs (1999), In welcher Gesellschaft leben wir eigentlich, trad.it., In che società viviamo ?, Asterios, Trieste 2001
[26] Ho mutuato tale definizione da F.Crespi, Manuale di sociologia della cultura, Laterza, Roma-Bari 1996, che a sua volta trova una formulazione anticipatrice nell’opera di E.Cassirer (1923-1929), Philosophie der symbolischen Formen, trad.it., Filosofia delle forme simboliche, (3 voll.), La Nuova Italia, Firenze 1961; in quest’importante lavoro, Cassirer, in risposta alle concezioni che vedono nella conoscenza delle “scienze esatte” il prototipo della conoscenza umana, sostiene che la formazione dei concetti scientifici rappresenta solo una “forma” interpretativa specifica del reale; si tratta di una delle molteplici modalità creative di significato, ognuna delle quali produce specifiche “figure” simboliche. Il linguaggio (I vol.), il mito e la religione (II vol.) e le forme conoscitive della scienza (III vol.) altro non sono che “elementi di un unico grande contesto problematico”, consistente in un complesso universo di significati. L’elemento che caratterizza l’essere umano, più di ogni altra cosa, è la sua capacità di creare “simboli” e “forme simboliche” che sono funzionali alla luhmanniana “riduzione della complessità”.
[27]Cfr. J.Habermas (1981), Theorie des kommunikativen Handelns, Bd.II Zur Kritik der funktionalistischen Vernunft, Frankfurt am Main, Suhrkamp, trad.it. Teoria dell’agire comunicativo, Vol.II Critica della ragione funzionalistica, Il Mulino, Bologna 1986, pp.730-731.
[28] Ibidem p.731.
[29] Cfr.J.Habermas (1981), op.cit., pp.155-157 e sgg.
[30] Ibidem p.170.
[31] Sul concetto di “mondo della vita” si veda il discorso – ove Habermas si confronta con Husserl – tenuto da Jürgen Habermas al XV Congresso tedesco per la filosofia ad Amburgo nel settembre 1990, intitolato “Edmund Husserl su mondo della vita, filosofia e scienza”; discorso contenuto in J.Habermas (1991c), Texte und Kontexte, trad.it., Testi filosofici e contesti storici, Laterza, Roma-Bari 1993. Habermas, tra l’altro, esalta l’intuizione husserliana legata al concetto di “mondo della vita”, in quanto con essa “Husserl prende tre piccioni con una fava: tiene conto in modo critico dell’autonomia delle scienze; fondando le scienze nel mondo della vita, il common sense si innalza ad una dignità mai avuta prima; nello stesso tempo la filosofia conserva la sua pretesa aprioristica, sia in vista di una fondazione ultima teoretica, sia in vista di un orientamento pratico. Infatti, per Husserl la filosofia, per mezzo dell’analisi fenomenologica del mondo della vita, opera in duplice modo. Mette a nudo i fondamenti delle scienze che appartengono al mondo della vita e illumina nella loro totalità le basi del nostro sapere mondano […] Il concetto di mondo della vita fa saltare in aria l’architettonica trascendentale, in quanto si differenzia dal concetto tradizionale di mondo (mundus, katholon)” (pp.32-33).
[32] Cfr.J.Habermas (1981), op.cit., pp.175-176.
[33] Cfr.J.Habermas (1983), op.cit., p.129.
[34] Sulle questioni aperte dell’etica contemporanea, con particolare riferimento al pensiero di Hans Jonas, si veda: M.Monaldi, Tecnica, vita, responsabilità, Guida, Napoli 2000.
[35]J.Habermas (1991a), Erläuterungen zur Diskursethik, trad.it.Teoria della morale, Laterza, Bari 1994, pp.98-99.
[36] Si veda in particolare: R.Castel (2003), L’insécurité sociale. Qu’ est-ce qu’ être protégé?, trad.it., L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti ?, Einaudi, Torino 2004.
[37] Cfr. C.R. Sunstein (2005), Laws of Fear. Beyond the Precautionary Principle, trad.it., Il diritto della paura. Oltre il principio di precauzione, Il Mulino, Bologna 2010.
[38] Cfr. il concetto di “sfera pubblica politica” nell’opera J.Habermas (1962), Strukturwandel der Oeffentlichkeit, trad.it. Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari 1971.
[39] Cfr.J.Habermas (1983), op.cit., p.100.
[40] Lo psicologo cognitivo Lawrence Kohlberg – a cui, peraltro, Habermas fa ampiamente riferimento – individua tre stadi evolutivi nello sviluppo della coscienza morale individuale del bambino: lo stadio preconvenzionale, nel quale il bambino riconosce ciò che è “giusto” e ciò che, invece, è “sbagliato” soltanto perché le sue azioni ricevono sanzioni o ricompense; lo stadio convenzionale, nel quale il comportamento “giusto” è quello orientato sulla base del sistema delle norme e delle regole dettate (imposte) dalla famiglia o dalla società; all’interno dell’ultimo stadio, invece – quello postconvenzionale – l’individuo fa riferimento, non più ai valori del proprio contesto storico-sociale, bensì a principi morali che hanno una prospettiva universalistica. Nell’ambito di questo terzo livello, Kohlberg opera un’ulteriore distinzione tra un livello nel quale l’obbligazione è fondata sul “contratto” ed un livello in cui l’azione individuale si identifica in principi etici universali, scelti in maniera del tutto autonoma. Cfr. L.Kohlberg (1981), Essays on Moral Development, vol.I: The Philosophy of Moral Development, Harper & Row, San Francisco 1981; vol.II: The Psychology of Moral Development, Harper & Row, San Francisco 1984. Un’interessante introduzione al pensiero di Kohlberg è presente in R.Viganò, Psicologia ed educazione in Kohlberg. Un’etica per la società complessa, Vita e Pensiero, Milano 1991.
[41] J.Habermas (1991), op.cit., pp.23-24.
[42] Cfr. su questi argomenti R.De Vita, Incertezza e identità, Franco Angeli, Milano 1999.
[43] Cfr. K.-O.Apel (1973), Transformation der Philosophie (2 voll.), Vol.1: Sprachanalytik, Semiotik, Hermeneutik, Vol.2: Das Apriori der Kommunikationsgemeinschaft, trad.it., Comunità e comunicazione, (ed.it. parziale, con intr. di G.Vattimo), Rosenberg & Sellier, Torino 1977; Apel K.O., Etica della comunicazione, Jaca Book, Torino 1992; sempre sul progetto apeliano di “trasformazione della filosofia in senso linguistico-comunicativo”, si veda anche l’interessante raccolta di saggi contenuta in K.O.Apel, Discorso, verità, responsabilità. Le ragioni della fondazione: con Habermas contro Habermas, (a cura di V. Marzocchi), Guerini e Associati, Milano 1997.
[44] Cfr.K.O. Apel, Etica della comunicazione, Jaca Book, Torino 1992, p.7.
[45] Ibidem p.8.
[46] Apel, nel parlare di etica delle virtù, si riferisce apertamente al fondamentale lavoro di A.MacIntyre (1985), After Virtue, trad.it., Dopo la virtù, Feltrinelli, Milano 1988.
[47] Cfr. K.-O.Apel (1992), op.cit., pp.24-25.
[48] Ivi.
[49] Su questi argomenti di fondamentale importanza si vedano due testi basilari: M.Weber (1922), Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre trad.it., Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958; K.Mannheim (1952), Essays on the Sociology of Knowledge, trad.it., Sociologia della conoscenza, Dedalo, Bari 1974
[50] Cfr. K.-O.Apel (1992), op.cit., pp.26-27.
[51] Ibidem p.27.
[52] H.Rheingold (1993), The Virtual Community, trad.it. Comunità virtuali, Sperling & Kupfer, Milano 1994.
[53] Cfr. K.O.Apel, L’etica della responsabilità nell’era della scienza, in “Il Mulino”, 1, 1985.
[54] Ibidem p.10.
[55] H.Jonas (1979), op.cit., p.24.
[56] Per approfondire si veda la lettura critica di: A. Touraine (2004), Un nouveau paradigme. Pour comprendre le monde aujourd’hui, trad.it., La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, Il Saggiatore, Milano 2008.
Immagine: opera di Joseph Kaliher