Ri-condivido volentieri l’intervista-conversazione con Giulio Brotti, pubblicata, nel mese di aprile, sull’insetto culturale “Domenica” dell’Eco di Bergamo**.
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Quanto più si usano determinate parole, tanto più si rischia di appiattirne il significato: nominando la «globalizzazione», allora, il pensiero va perlopiù alla possibilità di volare low cost in Paesi lontani o alla diffusione di ristoranti etnici nelle nostre città; e «complessità» evoca solitamente l’idea di una situazione intricata, che richiede impegno per poterne venire a capo. Piero Dominici, docente di Sociologia della Complessità Sociale all’Università di Perugia, ha invece indagato la vera portata di queste due categorie – globalizzazione, complessità – in diversi suoi saggi: ricordiamo tra questi La comunicazione nella società ipercomplessa. Condividere la conoscenza per governare il mutamento (2005-2011) e Oltre i cigni neri. L’urgenza di aprirsi all’indeterminato (2023), entrambi editi da Franco Angeli.
La parola «globalizzazione», che precedentemente era utilizzata con accezioni assai diverse, dagli anni Ottanta del secolo scorso ha finito col significare «globalizzazione dei mercati»: molti commentatori al tempo pensavano che l’estensione delle reti finanziarie sulla superficie del pianeta sarebbe andata di pari passo con la diffusione di un modello politico liberal-democratico e con una sostanziale uniformazione culturale. Che cosa è accaduto, invece, a partire dall’11 settembre del 2001?
«La globalizzazione è la condizione empirica del mondo moderno, segnato da molteplici livelli di “connettività complessa” e da un’intensificazione delle reti di interdipendenza. E dobbiamo senz’altro prendere atto anche di un sistema-mondo sempre più “multipolare” che, tra numerose guerre e conflitti di varia natura, fatica molto a ritrovare assetti, gerarchie, relazioni stabili. Si tratta di dinamiche non-lineari e sistemiche, che non sono mai gestibili fino in fondo. Detto questo, non ritengo che l’attuale fase storica si origini da una frattura con quelle precedenti: il processo della globalizzazione costituisce invece l’esito radicale ed esteso su scala mondiale di tendenze – contraddittorie, ambigue e irreversibili – già tipiche della Modernità. Tra queste tendenze, la globalizzazione ha reso ancora più evidenti una trasformazione della prassi, dei modi di agire degli esseri umani e una proliferazione dei livelli di interconnessione. Si sono così andate affermando nuove logiche di potere e di dominio, parallelamente alla dimensione un tempo fondamentale della Politica».
Una dimensione in declino?
«Di fatto, è sempre più marginale – nonostante alcuni “episodi” sembrino suggerire il contrario -, in una realtà globale plasmata dalla liberalizzazione dei mercati e dai nuovi flussi informativi. In tal senso, si avverte forte l’esigenza di “istituzioni globali” realmente operative, in grado di governare i processi e, allo stesso tempo, di contrastare lo strapotere dei giganti dell’informatica, delle grandi piattaforme del digitale e, più in generale, delle corporation».
La sua tesi è che la radici lontane di ciò a cui stiamo assistendo nel tempo attuale risalgano al Seicento, a Bacone e a Cartesio, con l’affermazione di un nuovo modello di sapere? Un sapere grazie al quale – come sosteneva lo stesso Cartesio – gli uomini sarebbero divenuti «maestri e possessori della natura»?
«Oltre che come il trionfo di una razionalità strumentale – proprio nel senso auspicato da Cartesio -, la globalizzazione può essere vista come la piena affermazione di un’ideologia totalizzante che avvolge, ingloba, plasma qualsiasi aspetto della vita reale. L’economia-mondo sta progressivamente depotenziando i meccanismi e i dispositivi propri dei regimi democratici e questo ha profonde ripercussioni non solo sul sistema produttivo ma anche, e soprattutto, sull’architettura complessiva dei diritti e delle tutele riguardanti le persone, i cittadini, i lavoratori. Non è sufficiente reagire a questo stato di cose con perorazioni di principio e, soprattutto, non tenendo conto della complessità e della dinamicità del mutamento in corso. Aggiungo, richiamando una vecchia formula: stiamo provando a gestire l’economia della condivisione (sharing economy) senza aver minimamente compreso la società della condivisione (sharing society).».
Scontiamo un deficit di pensiero, riguardo alle nuove forme assunte dalle relazioni sociali?
«Il pensiero è, non da oggi, dimensione sottovalutata in un’epoca che considera significativo soltanto ciò che è “osservabile” dei fenomeni, con le relative evidenze empiriche (quantitative). Il pensiero è riconosciuto marginale a tal punto di … pensare di delegarlo alle macchine, erroneamente, definite, intelligenti! Sempre che non si faccia coincidere – come in molti casi, sta avvenendo – lo stesso concetto di “intelligenza” con le capacità logiche, di calcolo ed elaborazione. Gli stessi sistemi educativi e formativi vengono sempre più progettati e programmati sulla base di un grande equivoco: che la civiltà ipertecnologica abbia bisogno soltanto dei “saperi tecnici”, e delle relative competenze, e degli (iper)specialismi capaci di produrre misure e dati, presentati come auto-evidenti, e di eliminare errori ed incertezze, elementi costitutivi del “vitale”. Come ripeto da molti anni, il pensiero causale (lineare) e quello analitico, che ci hanno portati ove siamo, attualmente mostrano tutta la loro inadeguatezza nel guidare l’osservazione e l’analisi di processi e fenomeni emergenti, sistemici e interconnessi: essi non sono in grado di cogliere, in maniera precisa ed efficace, la rilevanza strategica delle “connessioni” tra le variabili e tra i processi, oltre che la natura ambivalente e contraddittoria dei fenomeni sociali. Tra dinamiche di frammentazione e interdipendenza, estese su scala globale, non possiamo che rilevare un deficit drammatico: una crisi del pensiero, che non appare più in grado di offrire chiavi interpretative e soluzioni accettabili dei problemi».
Dobbiamo rassegnarci a questo? Tanto varrebbe smettere del tutto di «pensare»?
«Assolutamente no, non dobbiamo affatto arrenderci anche perché, da sempre, ritengo che proprio nella civiltà dell’automazione e della ipersimulazione, il pensiero e il fattore umano torneranno, per tante ragioni, ad essere decisivi. Ma, spetta ancora alla politica, nonostante la profonda crisi in cui versa, creare le condizioni, sociali e culturali, affinché nessuno rimanga escluso. La politica, in altre parole, deve cercare dei modi e definire delle strategie per contenere quella condizione e, allo stesso tempo, quella percezione di “isolamento caotico” che è divenuta un sentimento di fondo del nostro tempo e che si accompagna a condizioni evidenti di vulnerabilità e precarietà delle esistenze, delle appartenenze e dei vissuti sociali. La complessità insita nel processo di globalizzazione ci obbliga a riformulare tutte le categorie del passato e ad allargare i nostri orizzonti di pensiero e di azione, elaborando una politica che non si limiti soltanto ad osservare le regole, bensì provi a cambiarle (anche perché la stragrande maggioranza delle regole attuali erano state definite nel contesto storico-culturale di uno Stato-nazione forte). Anche perché il mercato mondiale non può, come finora è accaduto, essere lasciato andare alla deriva senza un progetto transnazionale. autorevole e credibile, di sviluppo globale. Quanto affermava Max Weber (1922) all’inizio del Novecento risulta ancora più attuale: “Dove il mercato è abbandonato alla sua autonormatività, esso conosce soltanto una dignità della cosa e non della persona, non doveri di fratellanza e di pietà, non relazioni umane originarie di cui le comunità personali siano portatrici”».
Quale dovrebbe essere il ruolo degli intellettuali, nella ricerca delle nuove categorie di pensiero di cui abbiamo bisogno? In un’epoca egualmente caratterizzata da drammi e contraddizioni – la fine del XV secolo, pochi decenni dopo che Costantinopoli era stata conquistata dai Turchi ottomani -, Giovanni Pico della Mirandola progettava un convegno internazionale di tutti i dotti del suo tempo, perché si confrontassero sul tema di una «pax philosophica». Il sogno di Pico non si realizzò, allora. Un’idea del genere meriterebbe di essere riproposta, ai giorni nostri?
«Credo sia assolutamente urgente quanto meno tentare di “ritessere una trama”, pur essendo la situazione assai critica. Noi stiamo anche scontando gli effetti negativi, talvolta davvero devastanti, dei tentativi di “semplificazione” della democrazia, tendenza in atto da tempo e associata ad altri aspetti, come la riduzione sistematica della stessa democrazia a “tecnocrazia” e la diffusione di certe narrazioni sulla “rivoluzione digitale”, capace di semplificare tutto e di far saltare qualsiasi processo di intermediazione politica (dis-intermediazione). Limitandoci a considerare i governi democratici, oggi constatiamo una serie di criticità e derive: la più preoccupante, forse, è legata a un dibattuto pubblico in cui predominano i “climi di opinione”, secondo la formula coniata dalla sociologa tedesca Elisabeth Noelle-Neumann. La prevalenza di questi “climi” non lascia alcuno spazio per un approfondimento e per un pensiero “altro” sulle questioni che vengono affrontate: sia le opinioni pubbliche, sia l’ecosistema (globale) dell’informazione e della comunicazione si confermano, in questo senso, come potenti agenti di controllo sociale e promotori di conformismo, anche in società democratiche e relativamente aperte. L’ecosistema dei media e l’industria culturale hanno interesse ad alimentare non un vero confronto, anche aspro, tra diverse posizioni – cosa che sarebbe comunque di vitale importanza – ma quelle polarizzazioni che alimentano egemonie, spiegazioni riduzionistiche e deterministiche, “false dicotomie”, diatribe dettate da vecchi schematismi ideologici lontanissimi da quella forma di pensiero critico di cui avremmo un disperato bisogno. Tutto ciò ha delle ricadute pesanti anche sulle relazioni internazionali».
Stiamo tornando a una «logica della trincea»? Del «noi contro loro»?
«L’assenza di pensiero critico e, nella società ipercomplessa, di “pensiero sistemico”, genera e continuerà a generare non soltanto “società chiuse”, asimmetriche e sempre più esclusive, ma anche tirannidi e guerre. La questione della ricerca di un nuovo stile di pensiero potrebbe sembrare astratta; al contrario, è la questione delle questioni. La logica tradizionale del “pensiero lineare e causale” non può che portare allo scontro, essendo totalmente incapace di comprendere la complessità (non la difficoltà!) e la coesistenza di contraddizioni, dicotomie e dialettiche aperte** (senza una sintesi conclusiva e, in qualche modo, superiore): genera e continuerà a generare ed alimentare tirannie e indicibili mostruosità come la guerra e la sopraffazione dell’Altro da Noi. Potrebbe sembrare una questione molto astratta: al contrario, è la questione delle questioni. La logica tradizionale del pensiero lineare e causale non può che portare allo scontro, totalmente incapace di comprendere la complessità (non la difficoltà) e la coesistenza di contraddizioni, dicotomie e dialettiche aperte (senza una sintesi conclusiva). Già a metà degli anni Novanta, in alcuni miei saggi, segnalavo ironicamente la propensione diffusa a ricercare le ben note “soluzioni semplici a problemi complessi”. In fondo, queste polarizzazioni e queste logiche di schieramento hanno fatto e ancora fanno comodo, non solo perché rafforzano l’illusione di poter gestire la complessità, rendendola decodificabile e accessibile a tutti, ma anche perché conferiscono posizioni di visibilità e prestigio sociale a chi, nei media, cavalca tale tendenza».
Le chiederemmo qualche esempio del contributo che potrebbe venire, a livello sociale e politico, dall’adozione di un «pensiero sistemico e di un’educazione alla complessità».
«Intanto, potrebbe aiutarci a evitare di continuare a commettere un errore strategico, che condiziona, a più livelli, la nostra vita: quello di pensare, progettare e realizzare la Società – e le organizzazioni che la costituiscono – non come un “organismo” (sistema complesso), ma come se fosse un gigantesco “meccanismo”, costituito da entità, attori sociali, “ingranaggi” e processi lineari, totalmente osservabili, gestibili, prevedibili, predeterminabili. Una “Società-Meccanismo” della quale tentiamo di gestire, fino in fondo, ogni dimensione e ingranaggio (?), semplificando anche ciò che non è semplificabile e, in particolare, riducendo la Politica a “tecnocrazia”, l’educazione ad “educazione tecnologico-digitale” e la comunicazione (che ho definito, alla metà degli anni Novanta, “processo sociale di condivisione della conoscenza”) a connessione».
Potrebbe chiarirci, appunto, la differenza tra «complesso» e «complicato»? Solitamente questi due termini sono considerati quasi alla stregua di sinonimi.
«La complessità è uno sguardo, un’epistemologia, ed è, allo stesso tempo, una caratteristica essenziale/costitutiva degli “aggregati organici”, vale a dire dei sistemi biologici, sociali, umani: sistemi aperti, capaci di auto-organizzarsi, caratterizzati da “proprietà emergenti” ed estremamente sensibili alle perturbazioni ambientali. Non esiste la possibilità di un’osservazione esterna o neutrale. Sono “complicati”, invece, i sistemi artificiali (meccanismi), osservabili, misurabili, prevedibili governati da relazioni lineari, scomponibili nelle loro unità costitutive. L’errore degli errori* consiste proprio nel riprodurre la confusione tra sistemi complicati e complessi, tentando di “ingabbiare” la vita entro modelli matematici e schemi predittivi, riducendola a sequenze infinite di dati e numeri, o al funzionamento di sinapsi o a reazioni chimiche».
Avevamo citato l’«umanista» Pico della Mirandola. Due tra i maggiori esponenti del «pensiero della complessità» – Edgar Morin e Mauro Ceruti, di cui lei è amico – sostengono la necessità di pervenire a un «nuovo umanesimo planetario». Ma le «idee» possono bastare a migliorare l’assetto del mondo? Le spinte più forti – quelle che sembrano davvero orientare la storia umana – non avvengono «più sotto», al livello di processi sociali ed economici che paiono imporsi da sé, senza che nessuno li governi?
«Stiamo sempre parlando di fenomeni complessi e multidimensionali che richiedono, necessariamente, uno sguardo e un approccio interdisciplinari, oltre che sistemici. Parto da un presupposto “forte”: il fattore umano e quello socio-culturale, nonostante il paradigma della civiltà ipertecnologica, per tante ragioni, punti ad una loro marginalizzazione, saranno sempre più determinanti e strategici. E lo saranno sempre di più proprio nella civiltà dell’automazione e delle simulazioni virtuali. Il problema è che, al momento, non disponiamo di un pensiero e di un sistema di pensiero che siano in grado di cogliere la dimensione sistemica e relazionale dei fenomeni, pur avendo molto affinato i nostri strumenti di rilevazione e di elaborazione dei dati. Paradossalmente, la società iperconnessa non ha definito e realizzato le condizioni di un’emancipazione e di una partecipazione attiva, che sono state soltanto “simulate”. Siamo andati nella direzione opposta, assistendo alla definizione di nuove asimmetrie e disuguaglianze. Abbiamo bisogno, in tal senso, di un “sapere condiviso” (2003) – le infrastrutture tecnologiche, da sole, non bastano – ma anche di una nuova cultura della complessità, capace di riconoscere e valorizzare la coesistenza di dimensioni ambivalenti e contradditorie, agevolando il cambiamento sistemico (lungo periodo). Al di là della rilevanza strategica dei processi economici e politici, non posso non sottolineare come proprio la condivisione delle risorse conoscitive e delle competenze, unita ad adeguate politiche di alfabetizzazione, scolarizzazione e formazione a più livelli, rappresenti per noi una strada obbligata. La tecnica e, in particolare, il digitale, ci hanno messo nella condizione di trasformare la realtà in un modo e in una misura inedita, rispetto al passato, anziché doverci adattare a essa. Allo stesso tempo, dobbiamo fare i conti con una serie di “emergenze sistemiche” e globali che minacciano l’intero sistema-mondo e lo stesso Homo sapiens. Da questo punto di vista, un nuovo umanesimo dovrebbe promuovere un ripensamento complessivo della stessa nozione di “sapere”, dei rapporti tra le diverse discipline, della relazione tra libertà e responsabilità personale. L’umanesimo del Quattro e del Cinquecento aveva celebrato la centralità e dignità dell’uomo; un umanesimo a venire dovrà porre al centro non solo la Persona umana ma anche, e soprattutto, la Natura – la natura da noi abitata -, nel quadro di una nuova relazione simbiotica».
Dal punto di vista politico-educativo: lei è molto critico nei confronti di una certa celebrazione enfatica delle discipline STEM (acronimo per «science, technology, engineering and mathematics»). Tra i fautori di questo approccio, però, c’è chi dice che oggigiorno non si tratti più di cercare «di capire il mondo» e nemmeno «di cambiarlo», come auspicava Marx verso la metà dell’Ottocento: il mondo attuale andrebbe semplicemente sottoposto a manutenzione, o riparato, quando le cose non vanno bene; e per compiere delle riparazioni, gli umanisti non sono granché qualificati.
«Quella che in tempi non sospetti già avevo definito “la Dottrina STEM” è, a mio avviso, l’ennesima risposta sbagliata, di evidente impronta riduzionistica e deterministica, alla crescente complessità dei sistemi sociali e dei fenomeni umani. Il paradigma egemone della civiltà ipertecnologica, porta con sé l’illusione di poter marginalizzare l’uomo, portatore di errore e imprevedibilità, delegando (in bianco) le nostre scelte e le nostre responsabilità a sistemi artificiali erroneamente considerati “intelligenti” e a dispositivi tecnologici interconnessi: la dimensione del tecnologicamente controllato, già divenuta ipertrofica, continuerà ad estendersi e, con essa, la visione ideologica per cui il fattore umano, quello sociale e quello relazionale saranno sempre meno importanti, all’interno dei processi produttivi e culturali. Ci stiamo sempre più convincendo che il digitale e le tecnologie possano risolvere ogni problema, spingendoci verso un’apparente facilitazione dei processi di apprendimento ed educativi e preservandoci da ogni pericolo.
Ma, contrariamente a certe narrazioni, il fattore umano è “dietro” e “dentro” ogni dinamica, ogni processo, ogni meccanismo, ogni algoritmo, ogni “fenomeno emergente” tipico dei sistemi complessi. Dunque, il lavoro fondamentale da farsi – e che continua a non esser fatto – concerne la necessità di ripensare/reinventare l’educazione, la formazione continua e la stessa ricerca scientifica, ancora segnate da logiche di controllo, separazione e reclusione dei saperi, false dicotomie, riduzionismi e, soprattutto, tuttora vincolate a un mono-disciplinarismo confuso, più o meno strumentalmente, con il (necessario) rigore scientifico e metodologico. Manca ancora la consapevolezza che non sono – e non potranno mai essere -, soltanto i saperi tecnici e gli (iper)specialismi a garantirci la co-costruzione di società aperte e realmente democratiche, capaci di andare oltre la moderna illusione della cittadinanza e i processi di simulazione della partecipazione».
** Qui, di seguito, il collegamento ipertestuale al PDF dell’intero numero dell’inserto culturale “Domenica”. Prima della mia intervista, potrete leggere anche l’editoriale di Mauro Ceruti, al solito, interessante, dal titolo: “Incontro di popoli. Mondialità dal basso”.
PDF dell’intero inserto culturale: https://academia.edu/resource/work/126642061
Immagine: opera di Paul Delvaux
Come sempre, per chi volesse approfondire temi e questioni, che sono anche interessi scientifici di studio e ricerca da quasi trent’anni (oltre che passioni), condivido la prefazione di Edgar Morin alla monografia scientifica “Oltre i cigni neri. L’urgenza di aprirsi all’indeterminato” (FrancoAngeli, 2023) e una breve selezione di pubblicazioni scientifiche internazionali.
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Prefazione
Mi convincono molto i presupposti, l’approccio e lo sforzo epistemologico e di comprensione che Piero Dominici cerca di sviluppare in questa sua nuova opera. Piero Dominici ha il merito di mostrarci l’importanza e le potenzialità di un trattamento sistemico del mutamento in atto e di ritornare, in una chiave originale e critica, sulle questioni fondamentali in termini di approccio e di metodo, sulle quali ho riflettuto e lavorato a lungo (cfr. Il Paradigma perduto e Il Metodo). La comprensione di quella che definisce la “complessità della complessità” impedisce le tentazioni riduzionistiche e deterministiche e il lasciarsi andare alle lusinghe delle narrazioni egemoni e delle spiegazioni che semplificano fin troppo le questioni del nostro tempo, non ultime quelle della democrazia e della globalizzazione. Egli è attento a tenere insieme un sistema di variabili e concause, evidenziandone le correlazioni e le connessioni, anche quando affronta le delicate questioni legate alla trasformazione digitale ed alla civiltà dell’automazione e dell’intelligenza artificiale. Si tratta di dimensioni ed evoluzioni complesse che determinano l’ennesimo cambiamento dei paradigmi, dei linguaggi, delle culture, delle forme di vita e dei sistemi di relazione.
Le ricerche di Dominici conducono a ripensare in maniera radicale l’educazione, la formazione e la ricerca, ricomponendo alcune storiche, ataviche, fratture. Tra queste diverse fratture, Dominici si sofferma su quella esistente tra cultura e tecnologia, scaturita, come altre, da quella, altrettanto importante e devastante, tra formazione umanistica e formazione scientifica. Fratture e “logiche di separazione” sulle quali egli ritorna spesso, evidenziando le connessioni e le correlazioni, anche quelle meno evidenti. Fratture e “logiche di separazione” che mostrano, in maniera ancor più evidente e imbarazzante, la totale inadeguatezza delle nostre scuole e università, proprio in questa nuova fase di trasformazione antropologica dove dobbiamo ricercare nuovi percorsi nell’educazione e, soprattutto, un nuovo pensiero .
Il pensiero e la ricerca di Dominici si spingono, con merito, oltre le retoriche della cosiddetta “rivoluzione digitale”, sottolineando – tra i pochi, se non l’unico, a farlo in questi anni – come il digitale abbia condotto le persone, le organizzazioni, i sistemi sociali e la vita stessa, verso una condizione di “complessità aumentata” e non verso la semplificazione.
La ricerca diventa così “strumento” essenziale per andare oltre la visione diffusa, per non dire egemonica, che fa coincidere il cambiamento di paradigma in atto, con una trasformazione soprattutto tecnica e tecnologica: in questo caso, l’Autore argomenta, in maniera estremamente chiara ed efficace come anche, e soprattutto, nei processi educativi e formativi, occorra una svolta radicale, ben oltre l’idea di una loro estensione o di un loro adeguamento alla natura del cambiamento tecnologico e della cosiddetta rivoluzione digitale. Fratture cognitive, linguistiche, comunicative, sociali, culturali, esistenziali, antropologiche che trovano il loro ancoraggio in modelli educativi, pedagogici e culturali che, come sostiene anche Dominici, assolvono una serie di funzioni vitali per la stessa sopravvivenza delle comunità e dei sistemi sociali.
Se non opereremo questa trasformazione radicale dell’educazione e della formazione, ci ritroveremo, ancora una volta, nella condizione di poter soltanto subire la trasformazione tecnologica in atto: una trasformazione – ribadisce Dominici – che è, soprattutto, antropologica e che mette in discussione le identità e le soggettività in gioco, definendo peraltro nuove asimmetrie e disuguaglianze a livello globale.
Il mutamento globale in atto è profondo, radicale e invasivo e ci trova del tutto impreparati nel gestire questa fase di transizione così pericolosa; si tratta di una crisi che, come ho avuto modo di affermare in passato, è in primo luogo una “crisi del pensiero”, oltre che una crisi culturale.
Dominici, pertanto, in perfetta linea di continuità con il paradigma e l’approccio della complessità, da tempo continua a portare avanti lo sforzo di provare a ricomporre queste “fratture” fondamentali che la trasformazione antropologica ha reso ancor più evidenti, e inadeguate, proprio all’interno delle istituzioni educative e formative. Fratture che sono divenute, nel tempo, anche esistenziali e che segnano le esperienze delle persone e dei gruppi, dentro e fuori le organizzazioni, dentro e fuori gli ecosistemi umani. Queste fratture, anche epistemologiche, sono state definite da Dominici, diversi anni fa, “false dicotomie”: esse continuano ad alimentare la produzione sociale di conoscenza e cultura e la stessa vita sociale, in tutte le sue forme e rappresentazioni. Di conseguenza, l’apprezzamento è massimo per questo sforzo, continuo e incessante, di definire la natura complessa, ambigua e fino in fondo imprevedibile, della complessità e della vita (biologica, sociale e umana), pur lasciandosi sempre un margine importante per l’invisibile e l’indefinito, dal momento che non tutto è visibile e non tutto è misurabile. Concordo pienamente con lui quando, come anche in altre sue precedenti pubblicazioni, ri-afferma con chiarezza l’errore che stiamo commettendo di volere trasformare, a tutti i costi, qualcosa che è qualitativo (l’Umano) in qualcosa che è quantitativo e misurabile, pertanto “oggettivo” e “scientifico”. Egli denuncia le conseguenze negative di una “cultura della standardizzazione” che ha, ormai, preso possesso delle nostre organizzazioni e della vita pubblica. Di qui, l’importanza vitale, per Dominici, di non continuare a perpetuare “l’errore degli errori”, confondendo il “complesso” con il “complicato”, i sistemi complessi con quelli complicati; continuando a ricondurre la vita ad analisi riduzionistiche e deterministiche, nonché a sequenze infinite di dati e formule, illudendosi di poterne ridurre la varietà e la complessità e, allo stesso tempo, continuando a tenere separate cultura e tecnologia.
Nel libro viene sottolineata, più e più volte, l’importanza di “abitare l’ipercomplessità”, dal momento che questa (iper)complessità – secondo l’Autore – non può essere gestita, in alcun modo, neanche con il supporto decisivo delle tecnologie e dei nuovi ambienti iperconnessi. Da qui, l’urgenza di recuperare quelle che Dominici ha definito le “dimensioni complesse della complessità educativa”, educando e formando all’imprevedibilità, costruendo una vera “cultura dell’errore”, fin dai primi anni di vita e di studio. Senz’altro, si tratta di un’altra delle questioni su cui sono pienamente d’accordo con le tesi del sociologo e filosofo italiano.
Mi piace, in tal senso, riportarne alcuni brani:
Il cambiamento si annida sempre più nelle zone di tensione e conflitto, nelle nostre debolezze e inadeguatezze, nelle anomalie, nelle fluttuazioni e nei dilemmi che caratterizzano la conoscenza, l’azione sociale, i sistemi complessi (adattivi); il cambiamento si annida perfino nella nostra incompletezza che ci permette di essere creativi e ricorrere all’immaginazione, cercando percorsi alternativi, abbandonando, se necessario, le vie già percorse; il cambiamento si annida sempre più nei momenti di incertezza, in quegli errori e in quelle vulnerabilità che, spesso, ignoriamo e/o cerchiamo di non vedere. Un cambiamento (e un’innovazione) che rischia, tuttavia, di essere opportunità “per pochi”. Come ripeto spesso, occorre mettere in discussione i saperi, i confini tra i saperi, le pratiche consolidate, riconsiderando la valenza strategica delle emozioni e degli immaginari individuali e collettivi; in altri termini, è necessario avere (anche) il coraggio di rompere equilibri, spezzare le catene della tradizione, abbandonare il certo per l’incerto; scegliere, almeno provvisoriamente, di correre il rischio di essere vulnerabili. Abitando i confini, i territori inesplorati, oltrepassando quei vincoli e quelle logiche di separazione (tipiche delle istituzioni educative e formative) che ci impediscono di cogliere il senso più profondo del vitale, del sociale, del relazionale e di comprenderne la complessità e l’ambivalenza. Dimensioni appunto complesse, mai riducibili/riconducibili a formule matematiche e/o sequenze di dati».
La civiltà delle macchine intelligenti, ove artificiale e naturale coincidono, è segnata da una progressiva crescita della dimensione del tecnologicamente controllato che, come chiarisce Dominici, marginalizza l’Umano, svaluta il pensiero e restringe lo spazio della responsabilità, ridefinendo le sfide della complessità proprio nella direzione di ripensare/ridefinire la centralità della Persona e dell’Umano. Ciò significa anche – con le sue parole – ripensare lo spazio relazionale e comunicativo dentro le istituzioni formative ed educative, rilanciare l’educazione in una prospettiva che non può che essere sistemica e transdisciplinare. Continuiamo, d’altra parte, ad ignorare un aspetto importante: il fattore umano è/sarà sempre decisivo dal momento che è dietro ogni processo, dietro ogni meccanismo, dietro ogni intelligenza artificiale. Sono ancora vive le possibilità e le prospettive dell’Umanesimo planetario di cui ho parlato per lungo tempo. In questa linea di discorso, trovo molto interessante la sua proposta di educare e formare “figure ibride”, avanzata già alla metà degli anni Novanta. Si tratta di figure con una preparazione di base logica, metodologica ed epistemologica, comune, al di là dei percorsi disciplinari; figure capaci di abitare l’ipercomplessità, e non soltanto di saper gestire/controllare le tecnologie e i nuovi ambienti iperconnessi, sfruttandone al massimo le potenzialità pratico-applicative.
Dominici comprende e spiega bene come sia tempo di “ripensare a come pensiamo”, la vera dimensione fondativa dell’Umano: una dimensione cruciale che porta con sé quella “di ripensare l’umano e la sua interazione con la tecnica e il tecnologico”, ricomponendo la frattura tra la cultura e la tecnologia e, quindi, tra la formazione umanistica e quella scientifica. Oscilliamo tra nuove utopie e distopie e dobbiamo essere consapevoli che il futuro – come egli afferma – è di chi riuscirà a ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico, di chi riuscirà a ridefinire e ripensare la relazione complessa tra naturale e artificiale; di chi saprà coniugare (non separare) conoscenze e competenze; di chi saprà coniugare, di più, fondere l’umanistico e con lo scientifico, sia a livello di educazione e formazione, che di definizione di profili e competenze professionali.
Sono d’accordo con Dominici anche quando afferma: «…la tecnologia (= cultura) è entrata prepotentemente a far parte della sintesi dei nuovi valori e criteri di giudizio. Siamo dentro un processo di trasformazione antropologica (1995) e nel mezzo di un cambiamento radicale dei paradigmi e dei linguaggi. Gettati nell’ipercomplessità, una ipercomplessità di cui non abbiamo ancora compreso le profonde implicazioni epistemologiche ed etiche. Poco consapevoli che possiamo soltanto provare ad abitarla. Una civiltà che, sempre più segnata da paradossi e contraddizioni, da distanze e asimmetrie, deve fare i conti con l’assenza di un sistema di pensiero e di un modello teorico-interpretativo in grado di comprendere l’ipercomplessità del mutamento in atto. I tradizionali confini tra natura e cultura, tra naturale e artificiale, tra formazione umanistica e formazione scientifica, tra i saperi, tra i vissuti sociali, tra i mondi vitali, sono completamente saltati. Numerose le implicazioni epistemologiche tuttora sottovalutate, nella fuorviante convinzione che la razionalità, la tecnica e le tecnologie, l’infinita disponibilità di dati/informazioni, possano, ancora una volta, ristabilire l’equilibrio perduto e il controllo. Mai in passato, come nell’era degli ecosistemi interconnessi, ordine e caos coesistono, convivono, sono entrambi presenti, comunque e sempre, retroagiscono nel quadro sistemico di una complessità del vivente e, ancor di più, del sociale, che continua a rivelarsi mai comprensibile e intellegibile fino in fondo».
Nel libro, opportunamente, vengono affrontate le dimensioni di una complessità soggettiva, vitale, relazionale, organizzativa, sociale – ma anche linguistica e comunicativa – che, con le sue parole, non è oggettivabile in nessuna formula matematica e in nessun dato o sequenza di dati, pur infinita. Siamo nel mezzo di una trasformazione antropologica, che si sostanzia – così la definisce – nel ribaltamento dell’interazione complessa tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale; si tratta di una questione profonda anche, e soprattutto, in termini di “cultura della comunicazione”, resa ancor più complessa, e problematica, dall’assenza di un sistema di pensiero e di un modello teorico-interpretativo in grado di osservare, riconoscere e (provare a) comprendere l’ipercomplessità.
L’altra questione cruciale, che viene affrontata nell’opera, è quella relativa alle grandi illusioni della civiltà ipertecnologica, illusioni che incrociano, evidentemente, le tematiche della libertà e della democrazia. Egli afferma, in maniera netta: «La civiltà ipertecnologica, iperconnessa e delle macchine intelligenti (?), continua ad alimentare una vecchia e controproducente illusione: quella di poter espellere/eliminare l’errore (pre-requisito fondamentale di qualsiasi conoscenza, della vita e della stessa libertà) e l’imprevedibilità, non soltanto da educazione e formazione, ma dagli stessi sistemi complessi, oltre che dai processi sociali e organizzativi che li caratterizzano».
In perfetta linea di continuità con quella convinzione (visione del mondo), ancora dominante, che fa coincidere il progresso tecno-economico con il Progresso umano e sociale e che alimenta, quello che ho definito, il “delirio euforico del transumanesimo”, attraverso il quale gli esseri umani si convincono di essere padroni del proprio destino, di poter arrivare, addirittura, all’immortalità e, appunto, come si argomenta efficacemente nel libro, di poter controllare e pre-determinare tutto attraverso l’automazione e l’intelligenza artificiale.
Temi e questioni di importanza cruciale che rendono il lavoro di Dominici importante, non soltanto per gli studi e le ricerche sulla complessità e la democrazia, ma anche per la ricerca di un Nuovo Umanesimo, che sappia andare oltre gli stessi presupposti della precedente esperienza culturale e storica. Mettendoci in condizione di cogliere, meglio e più in profondità, le lezioni legate all’emergenza coronavirus e le sfide che ne stanno derivando: “L’avvenire imprevedibile è oggi in gestazione. Auspichiamo che sia per una rigenerazione della politica, per una protezione del pianeta e per un’umanizzazione della società: è tempo di cambiare strada” .
Perché, come si spiega efficacemente nel libro, nella società dell’intelligenza artificiale, dell’automazione e della simulazione, ad essere messi in discussione sono la nostra stessa umanità, il nostro “essere umani” e la nostra libertà e responsabilità di apprendere e migliorare le nostre vite, anche e soprattutto, commettendo errori. E la speranza e l’augurio è che, prima o poi, gli esseri umani si rendano conto che la crescita della loro potenza va di pari passo con la crescita della loro debolezza, imparando a convivere con l’incertezza che accompagna, da sempre, la grande avventura dell’umanità.
Edgar Morin
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Life, study and scientific research cannot be kept separate (an old illusion).
And so, as always…
I share with pleasure a (very) short selection of scientific publications:
1. Dominici P., “Democracy is Complexity. Social Transformation from Below” https://oajournals.fupress.net/index.php/smp/article/view/15009 , in SMP
#OpenAccess #PeerReviewed
2. Dominici, P. (2023), “Beyond the Emergency Civilization: The Urgency of Educating Toward Unpredictability”, Sengupta, E. (Ed.) Higher Education in Emergencies: Best Practices and Benchmarking (Innovations in Higher Education Teaching and Learning, Vol. 53), Emerald Publishing Limited, Leeds, pp. 25-45. https://doi.org/10.1108/S2055-364120230000053003
3.”From Emergency to Emergence. Learning to inhabit complexity and to expect the unexpected”, in
Scientific Journal. 🌎 Pdf https://academia.edu/resource/work/99942554
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4. “Beyond the Darkness of our Age. For a Non-Mechanistic View of Complex Organization as Living Organisms” in #RTSA
http://rtsa.eu/RTSA_2_2022_Dominici.pdf?fs=e&s=cl #PeerReviewed
“The distinction between ‘society-mechanism’ and ‘society-organism’ – on which I have been working and doing research for many years – is linked to the confusion we continue to make, in educational, social, economic, social and cultural terms, between ‘complicated systems’ (manageable, predictable) and ‘complex systems’ (unpredictable, irreversible and marked by ‘emergent properties’).
La distinction entre “société-mécanisme” et “société-organisme” – sur laquelle je travaille et fais des recherches depuis de nombreuses années – est liée à la confusion que nous continuons à faire, en termes éducatifs, sociaux, économiques, sociaux et culturels, entre “systèmes compliqués” (gérables, prévisibles) et “systèmes complexes” (imprévisibles, irréversibles et marqués par des “propriétés émergentes”)”
#QuotetheAuthors #CitaregliAutori
5. Dominici, P. The weak link of democracy and the challenges of educating toward global citizenship. Prospects (2022). UNESCO
Here’s the link: https://link.springer.com/article/10.1007/s11125-022-09607-8#citeas
Springer Nature – #PeerReviewed
👉 https://doi.org/10.1007/s11125-022-09607-8
Research Article
6. ”The Digital Mockingbird: Anthropological Transformation and the “New Nature”, in World Futures.The Journal of New Paradigm, Routledge, Taylor & Francis, Feb. 2022.
#PeerReviewed Routledge #research #transdisciplinarity #education #AI #FutureofEducation #ComplexSystems #EducationForAll #PeerReviewed
Pdf https://www.academia.edu/71030619/Research_Article_The_Digital_Mockingbird_Anthropological_Transformation_and_the_New_Nature
7. “La Gran Equivocación: Replantear la educación y la formación virtual para la “sociedad hipercompleja”, in “Comunicación y Hombre”.Número 18. Año 2022
👉
https://doi.org/10.32466/eufv-cyh.2022.18.701.23-38
👉 https://academia.edu/resource/work/71194859
#PeerReviewed
8. “From Below: Roots and Grassroots of Societal Transformation, The Social Construction of Change”, in CADMUS, 2021 #PeerReviewed
“That systemic change must begin from grassroots communities and single individuals and groups, and by definition can never be a top-down imposition, implicates a necessary rethinking of our educational institutions, which are still based on logics of separation and on “false dichotomies” (quote)
http://cadmusjournal.org/article/volume-4/issue-5/essay5-social-construction-change
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10. ”Educating for the Future in the Age of Obsolescence”,
This article was peer-reviewed and selected as one of the “outstanding papers” presented at the 2019 IEEE 18th International Congress.
👉 https://academia.edu/resource/work/44784439
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11. “For an Inclusive Innovation. Healing the fracture between the Human and the technological*” #PeerReviewed
“Objects as Systems. The strategic role of Education”
👉 https://link.springer.com/article/10.1007/s40309-017-0126-4/ in European Journal of Future Research, SPRINGER Education
12. “A New Paradigm in Global Higher Education for Sustainable Development and Human Security”, November, 2021 | BY G.JACOBS, J. RAMANATHAN, R. WOLFF, R.PRICOPIE, P.DOMINICI, A.ZUCCONI, in CADMUS, Vol.IV, 2021.
https://www.cadmusjournal.org/article/volume-4/issue-5/new-paradigm-global-higher-education
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13. “Controversies on hypercomplexity and on education in the hypertechnological era”
Link to PDF https://www.academia.edu/44785185/Controversies_about_Hypercomplexity_and_Education_cvs_15_11dom
#PeerReviewed
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14. “Communication and the SOCIAL PRODUCTION of Knowledge. A ‘new social contract’ for the ‘society of individuals‘
https://academia.edu/resource/work/44804068
#Research #PeerReviewed
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15. “Education, FakeNews and the Complexity of Democracy”.
“The real problems we are facing today are not the fake news, post-truths, deep fakes, or disinformation of various kinds and origins, but a socially constructed pre-disposition to conformism; in short, the decline of democracy. These are not problems merely of technology and cannot be solved by technology alone” (quote).
👉 https://www.francoangeli.it/Riviste/schedaRivista.aspx?IDArticolo=61331&Tipo=Articolo%20PDF&lingua=it&idRivista=177 #PeerReview
👉 https://pierodominici.nova100.ilsole24ore.com/2018/05/11/fake-news-and-post-truths-the-real-issue-is-how-democracy-is-faring-lately/
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An approach and research since 1995