L’innovazione sofferta:le derive dell’informazione, la rivoluzione digitale e i rischi di non cogliere un’opportunità

Prendo spunto da un vecchio post per condividere alcuni ragionamenti riguardanti le (storiche) derive mediatiche e dell’informazione che, a mio parere, sono alla base della più volte richiamata crisi del giornalismo e del sistema dell’informazione: “derive” – venivano chiamate così già negli anni Novanta – che non si sono mai arrestate, anzi la civiltà digitale – individuata da molti come “causa” principale di questa crisi – le ha rese più evidenti che in passato, traducendole in “forme” nuove e radicalizzandone gli effetti. Tuttavia, prima di tutto, vanno fatte alcune premesse che, per chiarezza espositiva, articolerò per punti:

  • – si tratta di dinamiche e di logiche che non nascono con il digitale (o con il web, in tutte le sue versioni) e che caratterizzano, in maniera sistematica e continuativa, la sfera pubblica, il sistema dell’informazione e quello dei media fin dall’avvento della “vecchia” società di massa;
  • – la cd. rivoluzione digitale continua a rappresentare, nonostante le numerose criticità, una straordinaria opportunità di innovazione e sviluppo finora non colta nella sua pienezza, non soltanto per l’incapacità della politica e delle classi dirigenti (più che di incapacità, ritengo si tratti di interessi particolari che prevalgono, comunque e sempre, su quello generale e sul Bene Comune) e l’assenza di politiche (lungo periodo); ma anche, e soprattutto, per un ritardo culturale, a livello di sistemi sociali e di organizzazioni, che viene da lontano (strategico il ruolo di scuola e università);
  • – come tutte le fasi storiche di mutamento, la cd. rivoluzione digitale determina una crisi di controllo – su cui siamo tornati molte volte – in grado di destabilizzare i sistemi sociali e organizzativi (testate giornalistiche e media compresi) con le relative culture (logiche di potere, processi decisionali e conoscitivi etc.): ciò crea le condizioni ideali per un’innovazione che, per tante ragioni e per le questioni qui soltanto accennate, non riesce ad essere profonda, vale a dire “sociale” e “culturale”;
  • – si sono affermate nuove modalità interattive e nuovi ambienti di diffusione e condivisione(?) delle informazioni che spesso trovano poco consapevoli e impreparati gli attori individuali e collettivi. La dicotomia è sempre la stessa: controllo vs. cooperazionenonostante qualcuno si affretti a trovare neologismi o parole ad effetto per denominare anche categorie che sono preesistenti al digitale: potere, controllo, sorveglianza, asimmetrie, inclusione, esclusione, diritti, bene comune, cittadinanza, democrazia, relazione, libertà, responsabilità etc.;
  • – si continua a fare confusione – una confusione riconducibile a quella, apparentemente banale e scontata ma essenziale, tra comunicazione e mezzi di comunicazione e tra informazione e mezzi di informazione – rispetto a quelle che vengono individuate come le vere cause di questa “famosa” crisi dell’informazione, in particolare del giornalismo ma anche delle professioni della comunicazione; in realtà, ci troviamo di fronte, ad una fase di evoluzione complessa*, con accelerazioni inattese e improvvise che trovano spesso culture organizzative non adeguate a metabolizzare il cambiamento, a gestirlo per non esserne gestiti;

Accade così che la civiltà digitale, l’avvento di Internet, i social media e, più in generale, le architetture del nuovo ecosistema (1996), vengano (non da oggi) viste soprattutto come un rischio, quasi un pericolo, e riconosciute come le “cause” di questa condizione di instabilità e (apparente) precarietà dei sistemi; non considerando, invece, con la dovuta attenzione (a) la crisi – questa sì, profonda e radicale – delle tradizionali istituzioni formative e agenzie di socializzazione; (b) la continua perdita di credibilità e autorevolezza dello stesso sistema dell’informazione e della comunicazione, dovuta proprio a certe “derive”; (c) la questione dell’inadeguatezza/incompletezza delle competenze necessarie per comprendere/affrontare questa ipercomplessità. Continua, in tal senso, il dibattito tra chi fa anche classifiche per stabilire se siano più importanti le cosiddette hard skills piuttosto che le soft skills, non comprendendo quanto sia a dir poco strategica l’integrazione delle prime con le seconde! Errori (anche) di prospettiva che peseranno ancora per molto tempo.

Insomma, formazione continua, consapevolezza, responsabilità: queste le parole-chiave da cui ripartire anche per definire i profili professionali di chi opera in ambienti così strategici per la vita dei sistemi sociali e delle moderne democrazie.  

E, proprio a proposito di “derive”, di responsabilità e credibilità dell’informazione, condivido una riflessione che, solo in apparenza, può sembrare slegata da quanto detto in precedenza…

Continuiamo ad assistere alle preoccupanti derive del sistema dell’informazione, che non riguardano soltanto la spettacolarizzazione indiscriminata delle notizie. Notizie inventate, autentiche “bufale” che la Rete e i social alimentano fino a renderle “vere” (a forza di ripeterle e riprodurle…), descrizioni minuziose, soprattutto, dei fatti di violenza…ma anche ricerche e dati non attendibili con note metodologiche parziali o inesistenti; inchieste costruite a tavolino, per non parlare di video e foto “choc” (così vengono sempre definiti) che devono emozionare i destinatari, giocando sulla loro (nostra) emotività e sulla mancanza di approfondimento (si pensi p.e. alla tragedia dei migranti); casi sempre più frequenti in cui, in nome del diritto/dovere di cronaca, si “allegano” immagini di violenze (anche efferate) di tutti i generi, ne leggiamo/vediamo/ascoltiamo di tutti i colori: non mancano risse (in qualsiasi contesto, meglio se in famiglia), rapine (possibilmente con sparatoria…altrimenti funziona meno), arresti in diretta, violenza (efferata), torture, decapitazioni, esecuzioni (ricorderete anche i “prigionieri annegati in gabbia”), persone bruciate vive, morti violente; perfino le immagini di persone decedute nel corso di incidenti stradali vengono mostrate…soprattutto se c’è del sangue…soprattutto se si può vedere il corpo, magari anche una mano può bastare. Il tutto accompagnato da testi e descrizioni con un linguaggio pertinente e assolutamente funzionale alla spettacolarizzazione. La morte e la violenza fanno spettacolo da sempre (la malattia no…), non ci sono limiti, occorre mostrare tutto perché soltanto così tutto è più “vero” e “reale”(?), non preoccupandosi minimamente neanche dei parenti dei protagonisti coinvolti nelle situazioni. Se ne discuteva vent’anni fa e mi fa davvero una certa impressione constatare questa evoluzione interrotta, oltre che preoccupante: già allora si diceva che il problema era di competenze ‘tecniche’ e di conoscenza dei “mezzi” (condizioni necessarie ma non sufficienti), già allora si affermava che nuovi codici deontologici e professionali avrebbero risolto le criticità. Non è andata proprio così e lo possiamo verificare ogni giorno. Codici deontologici e professionali sono una garanzia importante di un’autonomia che, tuttavia, non si traduce in responsabilità. In ogni caso, dietro queste logiche, la convinzione (forse) di accontentare dei pubblici ormai assuefatti (logiche del marketing e non dell’informazione/comunicazione), che cercano, anche morbosamente, di vedere, spiare, assistere a qualcosa che non è spettacolo, non è fiction ma è drammaticamente “reale”. In fondo, le stesse logiche di certi programmi televisivi – al di là di tante chiacchere, la TV è ancora il medium centrale nelle diete informative e multimediali – che “per amore della verità”(?) indagano su crimini e delitti costruendo racconti e narrazioni che diventano puntate di una serie infinita di reality show o di romanzi horror, che affascinano il grande pubblico, da parte sua sempre pronto a portare la discussione sui social. Tutto questo – dicevo – all’insegna di un’informazione (?) che deve emozionare coinvolgere ma fino ad un certo punto …contano le “spezie” (Popper). Le stesse pagine on line della grande stampa e, più in generale, delle più importanti testate giornalistiche non resistono alla tentazione di raccontare questi “fatti” spettacolarizzando e rendendo disponibili immagini, anche inquietanti (molto di moda anche gli episodi di autolesionismo e di “giochi” pericolosi), che nulla (nulla!) hanno a che fare con la COMPLETEZZA dell’INFORMAZIONE. Dicevo…Sono trascorsi vent’anni (parlo per il sottoscritto) e siamo al punto di partenza…l’unico espediente adottato (e non sempre) è quello di avvisare il lettore/spettatore che foto e video potrebbero urtare la sua sensibilità così – come dire – “ci si salva la coscienza” e ci si mostra “responsabili”. Nel frattempo, questo tipo di testi, puntualmente, diventano “virali” e, in un certo senso, ci si vanta di questo risultato (numero di like, di cuoricini e di condivisioni) quasi come si fosse realizzata un’inchiesta importante. Dunque, la solita ricerca incessante della spettacolarizzazione e di un’informazione “emotiva” che, non solo non approfondisce, ma si pone come obiettivo quello di intrattenere più che informare. Tutto va bene e funziona nel grande “circo mediatico” e nell’infosfera, purché faccia ascolti e raccolga pubblicità. Un circo mediatico – lo ribadisco – segnato da logiche di marketing  che hanno portato alla completa rimozione della centralità e della dignità delle Persone. Questioni di consapevolezza, questioni di libertà e responsabilità nell’informare e nel comunicare che non riguardano il livello delle competenze tecniche.

 

Di seguito ripropongo un contributo pubblicato nel 2014 e un altro del 1997

 

L’etica dell’informazione e della comunicazione: vecchie questioni per un nuovo ecosistema (2014)

 

James Foley (un pensiero affettuoso alla sua famiglia), brutalmente ucciso, è soltanto l’ultimo “caso”, in ordine di tempo, di un elenco tristemente lungo – che si aggiorna quotidianamente – legato a fatti/eventi violenti e/o disastrosi (si pensi alle guerre ed ai tragici conflitti in corso, alla cronaca nera, ai numerosi casi di disperazione spesso terminati con omicidi/suicidi, ai tanti casi di femminicidio, alle situazioni catastrofiche etc.) che, in nome del fondamentale diritto/dovere di cronaca, vengono sempre più affrontati e narrati inseguendo, non tanto la completezza e la veridicità dell’informazione, quanto le vecchie logiche (derive) della spettacolarizzazione e dello scoop a tutti i costi. Talvolta, cavalcando anche una certa morbosità di parte del pubblico che non si “accontenta” della notizia, ha bisogno di qualcosa in più (si pensi al successo di diverse trasmissioni che ricostruiscono, con meticolosità quasi maniacale, vicende legate a omicidi)…quel qualcosa in più che fa assomigliare la narrazione e la ricostruzione di questi stessi eventi a delle fiction o, peggio ancora, a dei reality show. L’informazione su temi cruciali – che meriterebbero ben altro approfondimento – diventa così spettacolo, intrattenimento condito da foto, immagini, video e (perfino) un linguaggio selezionati con cura e a dir poco criticabili. La Rete (che, lo ricordiamo, è “fatta” di persone) tende generalmente ad amplificare, a radicalizzare e a propagare processi, dinamiche ed effetti generatisi all’interno dell’ecosistema mediatico; anche se bisogna dire che, in qualche caso, molti “navigatori digitali” hanno tentato di fermare la condivisione di materiali poco rispettosi della dignità umana e poco attenti alle tutele dei diritti previste non soltanto nei codici deontologici. E così accade, puntualmente, che si torni a parlare di controllo e di censura e la disputa apocalittici/integrati continui – e con toni ancor più accesi se riguarda la Rete e i social networks – anche se con altre etichette più alla moda. Ma, a mio avviso, la censura non è mai la soluzione (anche se alcune volte può apparire inevitabile) o, per meglio dire, è sempre una “soluzione” che risponde ad una logica d’emergenza e di breve periodo…occorre tornare a lavorare con determinazione sulla formazione  e sulla consapevolezza di chi informa e di chi comunica (facendo attenzione a non confondere strumenti e contenuti, mezzi e fini, connessione e comunicazione), soprattutto in considerazione del fatto che, spesso, vengono preparati e formati (magari anche bene) “tecnici” dell’informazione e della comunicazione. Comunicazione e informazione sono, al contrario, processi complessi che richiedono preparazione, competenze ed una rinnovata sensibilità etica: la libertà – come scritto anche in passato – implica responsabilità (e impegno) da parte degli attori protagonisti del processo comunicativo. D’altra parte, si è discusso molto in questi anni – e, recentemente, la copertura e la tematizzazione dell’argomento sono aumentate ancora – di etica dell’informazione e della comunicazione, di etica della/nella politica…peraltro, con una grande questione aperta che è quella della coerenza dei comportamenti…sia in politica che nel mondo dell’informazione; talvolta, con argomentazioni un po’ datate e, soprattutto, già utilizzate in passato che però appaiono originali e innovative soltanto perché enfatizzate dal sistema dei media e, oggi, (soprattutto) dalla Rete e dai social networks. Tuttavia, manca tuttora un approccio critico alla complessità e si tende a ragionare molto per slogan, etichette, fazioni etc. Già alla metà degli anni Novanta, con riferimento all’avvento di Internet, avevo parlato di trasformazione antropologica e di nuovo ecosistema (1995-1996), dell’urgenza di un’etica per la Rete…allo stesso modo, si discuteva molto di cittadinanza, di digital divide; di regole e diritti per la società dell’informazione (con una letteratura scientifica vastissima, costituita da autorevoli studiosi spesso riutilizzati dai contemporanei, che li “recuperano” senza neanche citarli…ma questa è un’altra questione su cui tornerò in seguito).Ho deciso, in tal senso, di riproporvi un vecchio articolo, pubblicato nel 1997 (che alcun* forse avranno già letto e, se così fosse, me ne scuso in anticipo), che condivido con piacere per ragionare insieme, dal momento che mi sembra, nonostante il tempo trascorso, in grado di abbracciare le questioni di cui discutiamo attualmente a proposito di etica dell’informazione e di “società delle reti”.

#CitaregliAutori

L’etica ed il giornalismo: dai diritti-doveri alle responsabilità (1997)

di Piero Dominici

 

La necessità di una riflessione sull’etica si avverte in modo ancor più urgente nel mondo della carta stampata e del giornalismo radiotelevisivo, settori nevralgici per la vita dei moderni sistemi democratici. In un momento storico in cui le spinte globalizzanti sono divenute inarrestabili (si parla di globalizzazione dell’economia, della cultura e delle informazioni) ed in cui l’ “universo” degli eventi notiziabili è in mano a poche grandi agenzie di stampa internazionali, non si capisce perché non si debba provare a riflettere sulla possibilità di formulare alcuni principi etici condivisi che abbiano una prospettiva universale. Occorre ribadire con forza che non servono ulteriori regole scritte ed imposte “dall’alto” – regole che, peraltro, costituiscono in alcuni casi delle restrizioni della libertà di informare ed essere informati e che troppo spesso finiscono con l’essere violate – , bensì principi discussi e accettati soltanto dopo un confronto dialettico tra i soggetti protagonisti. Oggi peraltro,  grazie alle nuove tecnologie informatiche, tutti gli attori sociali – e non soltanto i giornalisti o i cosiddetti media-men – ed i gruppi sono potenziali produttori di notizie (e non più soltanto “semplici” consumatori). E ciò sta modificando assetti e gerarchie. A tal proposito, si fa sempre più complicato – per non dire, in molti casi, praticamente impossibile – il controllo dell’attendibilità delle fonti. Sono dunque sufficienti i vecchi codici deontologici ad abbracciare le attuali modalità della prassi comunicativa e la complessità delle nuove sfere di produzione simbolica ? Evidentemente la risposta è negativa: le “vecchie” deontologie ed i “vecchi” codici, nati come tentativo di rendere scientifici (“esatti”, “positivi”) alcuni principi morali (ideali) considerati fondamentali, sembrano essere entrati in crisi. Detto in termini più espliciti, il tentativo di fare della morale una scienza “esatta” pare destinato al fallimento. E non è un caso che, sia nell’importante Risoluzione n°1003, adottata dal Consiglio d’Europa (1 luglio 1993) e relativa all’etica del giornalismo, che nella Carta dei doveri del giornalista (firmata a Roma in data 8 luglio 1993)  si faccia riferimento in  più punti – per la prima volta e con particolare enfasi – al concetto fondamentale di responsabilità, indissolubilmente legato alla libertà degli individui. Nella Carta del 1993 si afferma infatti, in modo chiaro ed inequivocabile, che “La responsabilità dei giornalisti verso i cittadini prevale sempre nei confronti di qualsiasi altra” e che “Il rapporto di fiducia tra gli organi di informazione e i cittadini è la base di lavoro di ogni giornalista”. Tra l’altro, è proprio in quest’ottica che sono stati elaborati negli anni passati alcuni documenti di autodisciplina (Sole 24Ore nel 1987 e la Repubblica nel 1990). Con una maggiore coscienza della complessità delle problematiche in questione (comunicazione è processo complesso e non soltanto “tecnica”- o insieme di tecniche – per raggiungere un obiettivo) si inizia a prendere atto che è urgente una riflessione su alcuni principi etici fondanti; parlare soltanto di regole scritte (imposte), di diritti e doveri inviolabili non ha più senso o, per lo meno, i codici scritti vanno integrati lavorando a fondo sulla consapevolezza delle conseguenze che i processi informativi e comunicativi comportano e, quindi, sulla formazione dei “nuovi” giornalisti (e di coloro che, nei diversi settori, produrranno e si occuperanno di comunicazione). Il giornalismo (e, più in generale, la comunicazione) ha avuto un ruolo decisivo nello sviluppo della vita democratica e nel processo di formazione di un’opinione pubblica informata (cittadinanza) e consapevole dei propri diritti e dei propri doveri (problema delle asimmetrie). La più volte riecheggiata “morte di Dio”, decretata dal pensiero del Novecento, la frammentazione ed il relativismo radicale dei mondi intersoggettivamente condivisi e dei valori, l’approfondimento e la specializzazione dei diversi campi del sapere sono ormai “dati di fatto” che non possono essere più ignorati, anche perché, oltre ad aver esaltato il valore superiore della tolleranza, hanno soprattutto messo in discussione – a tutti i livelli della conoscenza umana – il concetto di verità.   Questo “nostro” secolo ha decostruito ogni certezza ed ogni dogma: parlare di “verità” o, nel caso del giornalismo, di obiettività è divenuta un’operazione quanto mai difficile, per non dire audace; gli unici elementi che sembrano poter sopravvivere al relativismo delle scienze e delle esperienze sono appunto la comunicazione e l’informazione. Pertanto, le conoscenze, le verità e le esperienze hanno certamente il diritto di essere relative, ma ciò che sopravvive a questo diritto è il dovere della comunicazione e, quindi, dell’informare, favorendo l’accesso e la condivisione. In particolare, la professione giornalistica si trova a dover fare i conti con diversi problemi: (a) i rapporti con il potere politico – che la Rete sta già ridisegnando – e con quello economico (pubblicità) (b) la concorrenza della televisione e la cosiddetta teledipendenza (c) l’avvento di Internet e delle nuove tecnologie informatiche (nuove “forme” di distribuzione della conoscenza, nel lungo periodo) (d) il sensazionalismo e la ricerca dello scoop a tutti i costi (e) la tutela degli individui e della loro privacy (legge 675/96). A tal proposito, i recenti e tragici fatti di cronaca (si potrebbero fare molti esempi) hanno drammaticamente riproposto all’attenzione, non soltanto degli “addetti ai lavori” ma dell’opinione pubblica in genere, proprio le questioni centrali del rispetto della privacy e della dignità delle persone e, soprattutto, della tutela dei minori (si vedano, in particolare, la Carta di Treviso e la Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia).Tali questioni richiedono “nuove” responsabilità ed una consapevolezza maggiore della funzione assolta dai media all’interno dei sistemi sociali. Molte delle problematiche (etiche) ancora aperte del giornalismo ruotano proprio intorno alla questione a dir poco cruciale del diritto di cronaca. Le regole scritte e le relative sanzioni si sono dimostrate necessarie ma non sufficienti: in altre parole, il diritto di cronaca è un valore laicamente “sacro”, fondamentale per la vita dei sistemi democratici, ma l’esercizio di questo diritto deve essere responsabile, per poter essere concretamente libero. Non è possibile che, in nome di questo diritto inalienabile del giornalista (e/o del comunicatore), vengano sacrificati sull’altare dello scoop a tutti i costi il rispetto per la persona e, ancor di più, per il minore. Riferendosi ai numerosi casi di cronaca nera e giudiziaria, ciò dovrebbe valere, ad esempio, anche per gli stessi condannati: un limite, non imposto ma scelto consapevolmente, è necessario affinché l’informazione non diventi definitivamente spettacolo o, peggio ancora, fiction. I rischi che si corrono, in questo tipo di analisi, sono essenzialmente due : (1) esaltare il relativismo assoluto, che finisce in ultima analisi, per negare anche se stesso (2) preservare un tipo di comunicazione (e di informazione) “neutra”, legata soltanto a regole di tipo tecnico-operativo, che svuoterebbe il significato stesso del comunicare e dell’informare. La riflessione etica trova nella prassi del comunicare (e dell’informare) un universo di discorso quanto mai vasto ed è perciò chiamata ad un compito estremamente difficile: abbracciare la “nuova” complessità, costituita da modalità dell’agire del tutto originali ed innovative che si intrecciano con una fitta rete di diritti e di doveri. Il punto da cui si deve ripartire è il prendere atto che comunicazione e informazione rappresentano attualmente gli unici elementi in grado di unire una realtà problematicamente complessa. E nel far questo, è di fondamentale importanza non cadere nell’ambiguità della mancata distinzione tra regole tecniche e norme morali: cioè, il problema etico va affrontato evitando che le regole in senso tecnico possano essere confuse con le “regole” dell’etica della comunicazione.

(1997)

Segnalo volentieri sulle questioni dell’etica e della deontologia del/nel giornalismo:

F.Occhetta, Le tre soglie del giornalismo.Servizio pubblico, deontologia, professione, UCSI, Roma 2015

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immagine: opera di Maurits Cornelis Escher