Società della conoscenza e capitalismo digitale hanno innescato (numerosi i fattori e le variabili coinvolte) un mutamento radicale di tutte le dinamiche socio-politiche e dei processi produttivi e culturali, che fa del capitale intellettuale e della produzione e distribuzione della conoscenza i suoi punti di forza; un’ennesima e straordinaria rivoluzione tecnologica (1998) – le cui origini vanno ricercate, peraltro, negli ultimi decenni dell’Ottocento – generata dal rapido progredire dell’industrializzazione che, a sua volta, aveva già determinato in precedenza una crisi di controllo. In quello che abbiamo definito come il nuovo ecosistema comunicativo (1998, 2000 e 2003), i mezzi di comunicazione – produttori di ambienti relazionali e comunicativi – sono diventati i protagonisti assoluti dei processi di produzione e diffusione della conoscenza, preparando un terreno fertile su cui si sta edificando il nuovo sistema-mondo interconnesso in tempo reale.
Oltre alla più volte richiamata marginalità della Politica (aspetto preoccupante), la liberalizzazione dei mercati mette ancora più in evidenza l’assenza di istituzioni globali realmente funzionanti e operative: un vuoto di potere a livello transnazionale, per certi versi, paradossale in un’epoca profondamente segnata da logiche di controllo e sorveglianza globali, rafforzate da sistemi sempre più interdipendenti. L’economia globale, dunque, sta affrontando un processo di radicale ristrutturazione che implica il ridimensionamento del capitale fisico e il trionfo dell’offerta di servizi sulla vendita di beni e sugli scambi di proprietà: l’accesso è diventato la nuova misura dei rapporti sociali. Oltretutto, dopo la recente crisi finanziaria mondiale, il capitalismo globale e tecno-nichilista (definizione di Magatti, 2009), caratterizzato dalla progressiva acquisizione dei vissuti sociali di ogni singolo cittadino/consumatore, sembra sul punto di legittimare anche nuovi modelli di scambio sociale. Individui e istituzioni sono coinvolti in un processo di commercializzazione di tutta la prassi che delinea uno scenario, per certi versi, inquietante nel quale vengono messe in discussione le strutture tradizionali del legame sociale.
Il sistema globale dell’informazione e della comunicazione è la variabile decisiva che, oltre ad aver inciso profondamente sulla struttura dei sistemi sociali, ha reso possibile il coinvolgimento sempre più massiccio di intere aree della società civile, in passato escluse, nei processi di definizione ed elaborazione della crisi delle società complesse. Al di là delle diverse criticità, i mezzi di comunicazione hanno accresciuto il livello di conoscenza e di consapevolezza delle problematiche sociali anche da parte delle classi sociali più deboli, producendo una discorso di senso comune che, servendosi delle reti comunicative, si sta progressivamente transnazionalizzando, producendo in alcuni casi mobilitazioni e azioni politiche autonome e sganciate dalla politica.
L’età della modernità radicale globalizzata e della comunicazione (connessione?) totale, si presenta dunque come il tempo dell’indeterminatezza e dell’abbandono della gerarchia e dell’ordine; un Evo presente, sempre continuo, quasi dilatato, che pone all’ordine del giorno nuove questioni politiche, sociali, economiche che, appartenendo ad ordini di grandezza notevolmente superiori rispetto alle epoche precedenti, rendono di fatto primaria l’esigenza di una ricollocazione della Politica o, addirittura, di una sua reinvenzione. Si tratta di una sfera di discorso che deve riguadagnare i suoi spazi decisionali, essendo stata fin troppo ridimensionata, talvolta umiliata, nel suo ruolo e nelle sue funzioni, dal dominio dell’economia, dalla tecnocrazia, dal weberiano impietrimento nella meccanizzazione e, più in generale, dalla progressiva reclusione dell’esperienza vitale e dei vissuti sociali in istituzioni e procedure.
La complessità insita nel processo di globalizzazione ci obbliga a riformulare tutte le categorie dell’agire politico e ad allargare i nostri orizzonti di pensiero e di azione, elaborando una politica che non si limiti soltanto ad osservare le regole, bensì provi a cambiarle anche perché la stragrande maggioranza di queste stesse regole sono state definite in un contesto di Stato-nazione forte. Anche perché il mercato mondiale non può, come finora è accaduto, essere lasciato andare alla deriva senza un progetto autorevole e credibile di sviluppo globale: «Dove il mercato è abbandonato alla sua autonormatività, esso conosce soltanto una dignità della cosa e non della persona, non doveri di fratellanza e di pietà, non relazioni umane originarie di cui le comunità personali siano portatrici» (Weber, 1922).
Un ripensamento complessivo di teoria e prassi che si inquadra, dunque, nella prospettiva di una modernità radicale nella quale anche la dimensione della riflessività – intesa anche come autoanalisi, come presa d’atto sia di una complessità accresciuta, sia dell’esistenza di altre culture che della contingenza dell’appartenenza di determinati elementi a determinate culture – mette ulteriormente in crisi le istituzioni di controllo e protezione. Contemporaneamente all’inadeguatezza dei vecchi schemi concettuali e all’accresciuta complessità dei sistemi sociali, rileviamo come la società moderna sia riuscita a dotarsi di mezzi di auto-descrizione notevolmente superiori, dal punto di vista qualitativo, rispetto al passato.
Tuttavia, nonostante la loro funzione ormai strategica, comunicazione e produzione sociale di conoscenza possono soltanto accompagnare, rendendola visibile e oggetto di discussione pubblica, questa esplosione del mondo dell’artificialità e della tecnica non più subordinato alla natura e che si configura, a tutti gli effetti, come “natura” difficilmente gestibile. In altri termini, nella società ipercomplessa (Dominici,2005 e 2011), segnata socialmente e culturalmente dalla tirannia degli individui, la dimensione di ciò che è tecnicamente controllato è divenuta ipertrofica rispetto a quella del non-tecnicamente-controllato.
Inoltre, nell’Evo della comunicazione totale, teoria e prassi (individuale e collettiva) non risentono più soltanto del condizionamento storico-sociale specifico di ogni singolo contesto o gruppo di riferimento, bensì risultano fortemente condizionate anche dal peso delle rappresentazioni (delle immagini del reale) offerte dai media (metafore attive) e dalla Rete che costringono, in un certo senso, gli attori sociali a incorporare tutta l’umanità dentro loro stessi creando, peraltro, istantaneamente e costantemente, un campo totale di eventi interdipendenti che ne influenza la percezione e l’azione. La questione della percezione è assolutamente strategica in tutti i campi della prassi sociale: è la variabile che, nella maggior parte delle “situazioni” (paura, rischio, incertezza, vulnerabilità etc.), a livello micro e macro, determina le scelte del Soggetto, e non solo in campo economico.
La modernità radicale si rivela un’era ripiegata e schiacciata su sé stessa, così come schiacciati sul “presente continuo” si rivelano i saperi – sempre più legati ad un approccio descrittivo e troppo specialistico che ha fatto perdere l’ottica globale, lo sguardo d’insieme, l’approccio critico – e la conoscenza sociale che provano ad elaborare, interpretare, metabolizzare le nuove modalità del conflitto e le mille contraddizioni del sistema-mondo; in un certo senso, la società degli individui (Elias 1987, Bauman 2001), esito della radicalizzazione del processo di modernizzazione, si rivela “portatrice sana” di fenomeni estremamente contraddittori (2003 e 2014) che, in un qualsiasi momento, ne potrebbero anche decretare l’implosione. Motivo per il quale, deve fare i conti con sé stessa. E la Politica è chiamata a questa ennesima sfida che presuppone necessariamente la riconquista del territorio e della prassi – con una sfera pubblica che, come detto più volte in passato, deve anch’essa riguadagnare una sua autonomia. Una prassi segnata da asimmetrie sociali profonde che mettono in discussione la possibile realizzazione di progetti di emancipazione e “nuova” democrazia. Da questo punto di vista, ci siamo espressi più volte, e in tempi non sospetti (1998), sul fatto che le opportunità del capitalismo culturale e dell’economia della condivisione vadano, in ogni caso, a premiare élite e lobby che, nonostante le architetture aperte delle Network Society, riescono tuttora a “gestire” piuttosto bene l’ecosistema delle reti.
Le categorie, con le quali abbiamo interpretato la società industriale, incontrano qualche difficoltà nel tentativo di comprendere la modernità radicale e il processo di globalizzazione anche perché siamo passati da una modernizzazione lineare (della tradizione) ad una modernizzazione riflessiva (della società industriale e post-industriale), caratterizzata proprio dall’esplosione della dimensione politica. Ciò nonostante tali teorie e studi non vanno persi perché ancora fondamentali per l’approccio e per orientare la prassi; anzi, forse, con troppa leggerezza abbiamo provato a liberarcene, almeno apparentemente, scadendo talvolta nel puro nominalismo, nel nuovismo di maniera ed etichettando come originali teorie e concetti già espressi. Nell’era del mercato globale e della società della conoscenza, la produzione sociale di capitale viaggia di pari passo con la produzione sociale di rischi, anzi i rapporti di forza tra le due logiche si sono invertiti proprio a causa della riflessività che nega alle forze produttive l’opportunità di celare i loro effetti collaterali più latenti. I complessi e articolati meccanismi legati alla produzione sociale di conoscenza, supportati dalla Rete e dai social media, disvelano questa dimensione ricollocandola all’interno della sfera pubblica che ha, pur tra mille difficoltà, l’opportunità di tematizzare questioni e istanze (provenienti anche dal basso) escluse, in un primo momento, dal dibattito pubblico.
La società degli individui, tra i molteplici aspetti, ripropone l’homo faber che, con i suoi atteggiamenti tipici, costituisce una delle icone della modernità: è riuscito a strumentalizzare l’intera realtà e, trascinato dalla fiducia nella portata onnicomprensiva della categoria mezzi-fini, si è convinto di poter trovare una soluzione a qualsiasi problema, identificando acriticamente la produzione/fabbricazione con l’azione. Gli attori sociali di questo eterno presente, ormai, interpretano qualsiasi comportamento sulla base del principio di utilità e sono quasi ossessionati dalla necessità di produrre e, soprattutto, consumare oggetti materiali, confondendo spesso intelligenza e ingegnosità (Arendt). Accade così che il rischio, letto anche come deviazione dalla norma, sia divenuto ormai una dimensione connaturata ai moderni stati-nazione ed alla Politica – oltre che ai sistemi sociali; una Politica sempre più costretta a prendere decisioni che hanno ripercussioni non soltanto a livello locale, con la questione delle competenze e dei saperi, coinvolti nell’analisi e interpretazione del mutamento (oltre che nelle decisioni), in primo piano. E, in questo scenario, in cui evitare di correre dei rischi costituisce a sua volta un comportamento rischioso (Luhmann), garantire (almeno provare…) l’eguaglianza delle condizioni di partenza è pre-requisito fondamentale che viene prima anche di altri diritti fondamentali, compresi quelli digitali.
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