Come sempre, senza “tempi di lettura” #CitaregliAutori
Al termine, come sempre, links ad altri contributi e riferimenti bibliografici
I rischi di una “cittadinanza senza cittadini” (cit.)**
“Il concetto di “cittadinanza” è, come noto, un concetto complesso che vanta una letteratura scientifica estremamente articolata di area non soltanto giuridica (1). Un concetto o, per meglio dire, una categoria del pensiero politico e sociale che, come numerose altre categorie della Modernità e dei saperi da essa prodotti, richiede urgentemente una ridefinizione e un ripensamento (ne parlavo già alla fine degli anni Novanta) e non – come spesso traspare anche dal dibattito pubblico – una semplice estensione/adeguamento funzionale alla prassi tecnologica.
Dal campo semantico vasto, si tratta di un concetto appunto complesso, riconducibile in qualche modo ad un NOI che si contrappone ad un VOI, che chiama in causa quelli altrettanto fondamentali di identità, riconoscimento, soggettività, comunità (politica), territorio, diritti sociali, cultura, inclusione vs. esclusione etc. e che conferma ripetutamente la sua natura storicamente determinata e problematica. Di conseguenza, gli stessi diritti di cittadinanza vanno ripensati se non altro perché siamo ormai tutti membri di una società che, nonostante i drammatici conflitti e le evidenti asimmetrie/disuguaglianze, è globale e cosmopolita. Tematiche e questioni che, proprio nell’era della globalizzazione e del nuovo ecosistema, dell’economia politica dell’insicurezza e dei grandi flussi migratori, assumono una centralità ancor più strategica, pur rischiando di essere definiti e restituiti in maniera banale e/o quanto meno semplicistica. Al centro di ogni discorso ci sono/ci devono essere le Persone e le Soggettività ma in quanto appartenenti ad una comunità politica e ciò riafferma la complessità di un’analisi, che è evidentemente legata ad una molteplicità di indicatori e variabili. Detto questo, come vado ripetendo da anni, si continua a non considerare con la necessaria attenzione chi siano effettivamente i cittadini/destinatari di servizi, politiche (?), strategie che, al di là di tecnologie, piattaforme e pubbliche dichiarazioni d’intenti, continuano ad essere sostanzialmente “calate dall’alto“; “chi siano” e quali caratteristiche abbiano, con riferimento non soltanto alle cosiddette variabili strutturali, ma anche, e soprattutto, a variabili e indicatori non più trascurabili come quelli legati all’analfabetismo funzionale, alla povertà educativa, all’educazione e formazione alla complessità ed al pensiero critico.
Il rischio è quello di una cittadinanza senza cittadini. Il rischio è quello di promuovere una partecipazione a soggetti/attori sociali che, di fatto, non hanno gli “strumenti” (evidentemente, non mi riferisco a quelli tecnici e tecnologici) per partecipare concretamente. Ne ho parlato diversi anni fa, proponendo una definizione che in molti hanno poi ripreso (spesso senza citare l’Autore): l’anello debole.
Una precisazione doverosa. Intendiamo la comunicazione come “processo sociale di condivisione della conoscenza (potere)” (2), in cui sono coinvolti “attori” sociali, persone in carne e ossa che, in virtù delle competenze possedute, del profilo psicologico, del sistema di relazioni e delle caratteristiche dell’ambiente, possono definire relazioni più o meno simmetriche tra di loro (potere – asimmetrie informative e conoscitive). Considerando fondata l’equazione conoscenza = potere, ne consegue che tutti i processi, le dinamiche e gli strumenti finalizzati alla condivisione della conoscenza non potranno che determinare una condivisione del potere o, comunque, una riconfigurazione dei sistemi di potere e delle gerarchie all’interno delle organizzazioni (nel lungo periodo). In questa prospettiva, come ribadito più volte, il nuovo ecosistema sociale e comunicativo apre interessanti prospettive a processi di democratizzazione del sapere ed è destinato ad accrescere le possibilità di accesso alle informazioni e di elaborazione della conoscenza; ma, affinché ciò avvenga, è necessario che si facciano seriamente i conti non tanto con il “digital divide” (che, con ogni probabilità, sarà risolto nel tempo) – questione evidentemente importante – quanto con il “cultural divide”: si tratta di un discorso di vitale importanza – e non solo per la governance di Internet e del nuovo ecosistema. Abbiamo parlato più volte di “ripensamento della cittadinanza” e di “nuovo contratto sociale” (3) – che riguarda da vicino la scuola e l’istruzione e, più in generale, una riforma complessiva del pensiero e, nello specifico, dell’insegnamento (non ci stancheremo mai di ribadirlo). Attualmente tutti sono concordi, anche certi “tecnocrati”(4) super esperti e guru (?) del “digitale risolve tutto“; tuttavia, basterebbe andarsi a vedere cosa sostenevano loro stessi fino a poco tempo fa per comprendere come, in realtà, il clima culturale non sia cambiato e vi sia tuttora molto conformismo, anche e soprattutto nell’abbracciare un “nuovismo acritico” di maniera. Se si analizzano le principali azioni correttive e le strategie definite, ci si rende subito conto che si tratta di “etichette” o keywords che devono essere inserite nei documenti ed utilizzate per altri motivi. Sempre più frequentemente i giovani, che transitano dalla scuola all’università, oltre a non essere in tanti casi neanche curiosi, hanno molto spesso difficoltà legate alla mancanza della logica (fondamentale) e di un metodo di analisi, di ragionamento, perfino di studio che li metta in condizione di fare connessioni tra i piani di analisi e discorso, di individuare possibili spiegazioni ai problemi, di essere critici nell’affrontare/interpretare una realtà assolutamente complessa (logica e filosofia vanno praticate fino dai primissimi anni di scuola). Mentre, al contrario, si rivelano estremamente abili nell’utilizzo delle nuove tecnologie della connessione, nel navigare e nell’utilizzo (in certi utilizzi) dei social network.
Ma la ridefinizione della cittadinanza (e la qualità della democrazia) richiede con urgenza cittadini consapevoli e responsabili, in grado di valutare e monitorare, di non accettare passivamente le narrazioni e/o le rappresentazioni mediatiche o, peggio ancora, le cose “per sentito dire”. Non bastano “cittadini connessi”, servono cittadini criticamente formati e informati, educati alla cittadinanza e non alla sudditanza…per abitudine culturale (qui ricordo un testo che amo e ri-leggo da sempre, e non soltanto con gli studenti…Étienne De La Boétie Discorso della servitù volontaria); cittadini in possesso di competenze non soltanto tecniche e/o digitali, educati e formati al “pensiero critico” ed alla complessità. A tal proposito, adesso anche qualche tecno-entusiasta – etichetta per indicare i moderni “integrati” – inizia finalmente ad affermare che il problema è culturale , non tanto di infrastrutture. In tal senso, una cittadinanza “vera”, attiva e partecipe del bene comune e, più in generale, il cambiamento culturale profondo sono sempre il “prodotto” complesso, da una parte, di processi e meccanismi sociali che devono partire “dal basso”, dall’altra, dell’azione di quella società civile e di quella sfera pubblica, attualmente assorbite e fagocitate dalla politica, che ha tolto loro autonomia (qualche anno fa parlai di “sfera pubblica ancella del sistema di potere”). Servono politiche (lungo periodo) progettate e realizzate con una prospettiva sistemica (dimensione assente). Altrimenti, serviranno a poco anche processi inclusivi, piattaforme e dinamiche attivate e (concretamente) costruite nella logica della partecipazione, attivate da una Pubblica Amministrazione – questa la speranza e l’auspicio – divenuta, nel frattempo, sempre più trasparente ed efficiente.
Il rischio è di costruire una cittadinanza/democrazia senza cittadini che è in grado di includere solo chi ha strumenti ed è capace di produrre/elaborare/condividere conoscenza. Riaffermo in conclusione il concetto centrale: nella prospettiva fondamentale di superare (chissà quando…) la sterile – ma sempre funzionale a certe logiche di potere – dicotomia/separazione tra formazione umanistica e formazione scientifica (le cd. due culture), è di vitale importanza educare al pensiero critico ed alla complessità. La conoscenza, necessaria per fronteggiare e metabolizzare l’ipercomplessità e il mutamento in atto, si fonda necessariamente su un approccio multidisciplinare ed è costituita non soltanto da numeri, dati, o da ciò che è matematicamente misurabile (discorso che riguarda anche la nostra cultura della valutazione, a tutti i livelli ). Senza (almeno) il tentativo di perseguire tali obiettivi, non c’è/non ci sarà “buona scuola” o “buona università” che tengano e, soprattutto, non ci potrà essere “vera” cittadinanza (inclusione). Ma soltanto, appunto, l’illusione della cittadinanza e di una relazione meno asimmetrica con il potere che, al contrario, si rivelerà sempre più esclusiva (inclusività vs. esclusività). Una drammatica illusione alimentata e resa socialmente accettabile dalle narrazioni mediatiche e della Rete. E anche parlare di intelligenza collettiva e/o connettiva sarà sempre affascinante, stimolante ma fuorviante e perfino surreale: conformismo e omologazione saranno le forze sociali sempre più egemoni. Una nuova “spirale del silenzio” (Elisabeth Noelle-Neumann) con estensione globale, e poche aree e reti indipendenti dai sistemi dominanti (per usare una figura del moderno, le province dell’impero), in grado di produrre innovazione e (piccoli) cambiamenti. Le utopie della società interconnessa e asimmetrica (5).
In conclusione: non bastano “cittadini connessi”, servono cittadini criticamente formati e informati, educati al pensiero critico ed alla complessità, educati alla cittadinanza – che è fatta di diritti, che devono essere conosciuti, ma anche di doveri – e non alla sudditanza: e, per far questo – sia ben chiaro – occorre agire e intervenire là dove si definiscono le condizioni strutturali di questa società diseguale (scuola e università), che presenta una stratificazione sociale sempre più rigida e netta. Con la centralità posta sui processi educativi e formativi. Essere liberi comporta responsabilità significative di cui non dobbiamo avere paura. Istruzione ed educazione devono formare persone e cittadini in possesso di competenze non soltanto tecniche e/o digitali, perché il problema è culturale, e non tanto di infrastrutture. Ricordando Montaigne, abbiamo un disperato bisogno di “teste ben fatte”, che sappiano essere protagoniste del cambiamento più difficile e necessario, quello culturale.
(1) Su tutti, ricordo il classico di T.H.Marshall, Citizenship and Social Class del 1950 e il lavoro di D.Zolo, 1994)
(2) Dominici,1996 e sgg.
(3) Dominici 1998 e sgg.
(4) Andrebbe affrontato un discorso serio sulla tecnocrazia, sempre più egemone (J.Habermas, a tal proposito, ha parlato di“spirale tecnocratica”,2013).
(5) La definizione è stata proposta e sviluppata dall’Autore in alcuni suoi studi.
*** Contributo del 2016 che recupera vecchi concetti e percorsi di ricerca dal’95.
Di seguito il link all’articolo pubblicato su Cantieri PA nel gennaio del 2016: http://www.forumpa.it/riforma-pa/i-rischi-di-una-cittadinanza-senza-cittadini
Condivido volentieri l’introduzione del volume #PeerReviewed Dentro la Società Interconnessa. Prospettive etiche per un nuovo ecosistema della comunicazione, FrancoAngeli, Milano 2014
La dedica di allora
Questo lavoro è dedicato a tutti i giovani, alle studentesse e agli studenti, non soltanto dell’università, con la speranza che comprendano il valore assoluto dell’educazione, dell’istruzione, della formazione. Affinché comprendano, fino in fondo, che studiare serve a prepararsi alla vita ed alla sua complessità, alla comprensione dell’Altro e di chi non ha la nostra stessa opinione; e serve non tanto a prepararsi al lavoro, che si apprende nei luoghi di lavoro, quanto a diventare “teste ben fatte” (Montaigne), menti critiche che non si accontentano di ciò che sembra o di ciò che si è sentito dire… serve, cioè, a diventare cittadini e a partecipare alla costruzione di una società democratica matura e compiuta. Perché, in una società che ha reso la precarietà e l’insicurezza condizioni esistenziali, si avverte un disperato bisogno di riscoprire i valori della comunità e di una libertà responsabile, in grado di contrastare il preoccupante vuoto etico e di significato che caratterizza le società avanzate.
P.D.
Introduzione
La società interconnessa è una società ipercomplessa[1], in cui il trattamento e l’elaborazione delle informazioni e della conoscenza sono ormai divenute le risorse principali; una tipo di società in cui alla crescita esponenziale delle opportunità di connessione e di trasmissione delle informazioni, che costituiscono dei fattori fondamentali di sviluppo economico e sociale, non corrisponde ancora un analogo aumento delle opportunità di comunicazione, da noi intesa come processo sociale di condivisione della conoscenza che implica pariteticità e reciprocità (inclusione). La tecnologia, i social networks e, più in generale, la rivoluzione digitale, pur avendo determinato un cambio di paradigma, creando le condizioni strutturali per l’interdipendenza (e l’efficienza) dei sistemi e delle organizzazioni e intensificando i flussi immateriali tra gli attori sociali, non sono tuttora in grado di garantire che le reti di interazione create generino relazioni, fino in fondo, comunicative, basate cioè su rapporti simmetrici e di reale condivisione. In altre parole, la Rete crea un nuovo ecosistema della comunicazione (1996) ma, pur ridefinendo lo spazio del sapere, non può garantire, in sé e per sé, orizzontalità o relazioni più simmetriche. La differenza, ancora una volta, è nelle persone e negli utilizzi che si fanno della tecnologia, al di là dei tanti interessi in gioco. Per queste stesse ragioni, parleremo di “tecnologie della connessione” e non di “tecnologie della comunicazione”.
Il presente saggio si pone, pertanto, una serie di interrogativi che ruotano intorno a due questioni cruciali del contemporaneo: 1) l’analisi delle opportunità e dei rischi legati all’avvento di quella che definiamo la “società interconnessa” ed alla diffusione delle nuove tecnologie della connessione: una questione complessa, che chiama direttamente in causa quelle dell’accesso, della cittadinanza e dell’inclusione, non solo digitale; 2) di fronte a questa nuova complessità sociale, così segnata da un’innovazione tecnologica non ancora supportata da una cultura dell’innovazione, si avverte l’esigenza di un modello teorico-interpretativo adeguato e, allo stesso tempo, di una rifondazione dell’etica o, quanto meno, di un ripensamento dei canoni dell’etica tradizionale per la civiltà della Rete: da questo punto di vista, il semplice adattamento dell’etica alla nuova prassi tecnologica e sociale non sembra una strada percorribile, oltre che destinata all’insuccesso. Le cd. etiche dell’intenzione (non soltanto quelle riferibili alla comunicazione), insieme a codici deontologici e professionali, hanno ampiamente dimostrato la loro debolezza e inefficacia. Anche su questo versante, sociologia e scienze della comunicazione devono raccogliere questo tipo di sfida conoscitiva, destinata ad avere ricadute importanti.
In altre parole, intendiamo analizzare criticamente il mutamento in atto, evidenziando (anche) le criticità della società interconnessa e dell’economia delle reti che, senza adeguate strategie di sistema e di lungo periodo, rischia di rimanere una straordinaria opportunità per le élites e/o, in ogni caso, per gruppi sociali ristretti. E nel portare avanti la nostra analisi, occorre, in primo luogo, prestare attenzione a non ricadere nella ben nota, oltre che sterile, dicotomia tra apocalittici e integrati (che, puntualmente, si ripresenta, magari con altre etichette[2]); in secondo luogo, a non adottare la via breve di spiegazioni riduzionistiche/deterministiche. La nostra analisi, pertanto, si focalizzerà su opportunità e rischi correlati all’affermazione dell’economia della conoscenza e di quella che Manuel Castells[3] chiama – in maniera, per certi versi, anche suggestiva – l’autocomunicazione di massa. Un contesto nel quale, le architetture del nuovo ecosistema comunicativo entrano in conflitto con la gerarchia e le tradizionali logiche di controllo/sorveglianza proprie dei sistemi di potere. Processi e dinamiche che, oltre a determinare una ridefinizione delle gerarchie e una riconfigurazione dello spazio pubblico del sapere, ci costringono a leggere/riconoscere i media della connessione e gli stessi social networks non più come meri “strumenti”, prodotti dall’innovazione tecnologica (anche se questa è la loro “natura”), in grado di migliorare la vita individuale e collettiva; dal momento che questi stessi “strumenti” – anche se la differenza la faranno sempre logiche, utilizzi e contenuti – hanno determinato una trasformazione antropologica (1996) degli attori sociali – Luciano Floridi, con riferimento alla rivoluzione dell’informazione, parla di “quarta rivoluzione”[4] – creando un nuovo habitat comunicativo o, per meglio dire, un nuovo ecosistema complesso che si struttura a partire da processi di connessione continua, in grado di mettere in discussione le tradizionali distinzioni tra reale e virtuale, tra vita offline e vita online. La comunicazione, intesa come processo sociale di condivisione della conoscenza (potere), si conferma così sempre più come il vero tessuto connettivo che tiene insieme i sistemi sociali, anche se, come vedremo, tale percorso evolutivo presenta esiti tutt’altro che scontati, e non solo a causa del digital divide[5] (questione declinata ormai come digital inequality), del cultural divide (sottovalutato) e delle nuove asimmetrie sociali e informative; a tal proposito, da più parti si ipotizza, paradossalmente proprio nella cd. società della comunicazione, in cui tutti sono sempre connessi, la fine del legame sociale, in un contesto peraltro già segnato da derive individualistiche e antisociali. Una serie di interrogativi che proveremo a sciogliere, con una particolare attenzione alle implicazioni etiche e sociali, e che possono, anzi debbono, essere senz’altro chiariti secondo i possibili significati. Prima di tutto: da dove e come nascono gli interrogativi stessi ed il bisogno di una ricognizione etica sui media e, più in generale, sul nuovo ecosistema comunicativo?
In secondo luogo, i media, i social networks, la Rete sono realtà di fatto, sono senz’altro strumenti conoscitivi che aprono, o tracciano, un orizzonte sulla realtà: il nostro quesito si potrebbe porre dunque in termini classici come problema del rapporto tra il sapere e l’agire, la ragione e la volontà, la teoria e la prassi. Se tale schema fosse valido, la nostra domanda iniziale altro non potrebbe significare se non che la prassi tecnologica, legata ai nuovi media della connessione, comporta, come ogni altra forma di agire umano, la possibilità di essere giudicata di volta in volta moralmente corretta o scorretta, secondo valori universalmente condivisibili.
È ovvio, in questo caso, che il giudizio non verterebbe tanto sugli strumenti del conoscere, enormemente evoluti, quanto sul loro uso da parte dei singoli (operatori e fruitori) nella loro piena libertà di singoli. Sotto questo profilo rientrerebbero anche tutti i discorsi di carattere deontologico.
Ma le nostre domande iniziali potrebbero altresì intendersi come frutto di un’esigenza di rifondazione globale dell’etica alla luce del progresso tecnologico e della realtà del nuovo ecosistema comunicativo. E questo discorso potrebbe a sua volta essere condotto partendo da due prospettive o presupposti diversi: secondo una prima prospettiva, constatato che media e social media, lungi da essere un semplice strumento conoscitivo neutro, costituiscono una sintesi culturale complessa che produce aspettative, atteggiamenti, comportamenti ed una nuova mentalità, constatato cioè che la tecnologia entra a far parte della sintesi di nuovi valori e di nuovi criteri di giudizio, come conciliare una tale novità con i tradizionali principi dell’etica? Si deve tentare di sottomettere questi a quelli o viceversa? Non è infrequente che da un confronto del genere si producano conclusioni del tutto aporetiche se non pessimistiche.
Nella seconda prospettiva, invece, la rifondazione dell’etica può significare che, di fronte alla riconosciuta complessità produttrice di valori della realtà tecnologica, mediatica e della Rete, s’impone una revisione degli stessi principi etici tradizionali, non certo però dietro il diretto suggerimento di nuovi sentimenti morali e di nuovi valori da parte della prassi tecnologica che li fornirebbe belli e fatti, non insomma un adeguamento dell’etica all’espansionismo tecnologico, ma un approfondimento ed una revisione che lasciano intravedere una possibile dilatazione del giudizio etico.
In ogni caso, tenendo per fermo il carattere universale assunto dal sistema dei media e dalla Rete, la riflessione sociologica ed etica devono misurarsi essenzialmente e dialetticamente col concetto di globalità, chiarendo i modi con cui gli attori sociali possono vivere una tale possibilità/opportunità.
Nel corso di questo saggio è parso che, muovendosi secondo quest’ultima prospettiva, si riuscisse non certo a dare una risposta conclusiva all’argomento, ma almeno ad inquadrare in modo più chiaro molti dei quesiti che ci siamo posti; evitando di far sbilanciare l’analisi verso posizioni catastrofiche o eccessivamente ottimistiche, ed evitando le pericolose scorciatoie logico-argomentative di determinismi e riduzionismi vari. Si tratta, evidentemente, di pericoli sempre in agguato quando si parla di innovazione tecnologica e del suo impatto su sistemi sociali e organizzazioni. Certo occorre partire da dati di fatto, ma i dati di fatto sono, nel nostro caso, una ormai sterminata letteratura scientifica già in qualche modo atteggiata. Si cercherà, quindi, di tener presente ciò che, al di là dei diversi atteggiamenti e valutazioni, sembra configurarsi come un patrimonio di nozioni a ben guardare convergenti, poiché la fondamentale istanza di questa trattazione, è quella di accertare se è motivato lo stesso titolo dell’indagine, e cioè se è possibile che l’indagine etica e l’indagine di carattere tecnico, sulla comunicazione nella società interconnessa, si chiariscano a vicenda, e dunque se sia possibile che termini come comunicazione, globalità, discorso, libertà, informazione e simili abbiano una valenza ed un senso sia tecnico che etico.
La questione è complessa anche perché: «Comunicare, mettere in comune un discorso – un discorso che inevitabilmente ha portata di esistenziale integralità – è struttura antropologica costitutiva, anche se mezzi e modi del comunicare sono e saranno storicamente i più diversificati. Basti richiamarsi al fatto che le modalità tecniche del comunicare – specificatamente, ma non solo nella comunicazione di attualità – investono impetuosamente le stesse coordinate spaziali e temporali del nostro stare al mondo. E ciò non può avvenire senza mutazioni, senza problemi»[6]. La comunicazione ha assunto una rilevanza strategica in tutte le sfere della prassi individuale e collettiva e si avverte l’urgenza di un modello teorico interpretativo in grado di spiegare la complessità del mutamento in corso.
Si avverte, all’interno del sistema tecno-capitalistico globale, l’esigenza di una cultura della condivisione che possa effettivamente creare le condizioni per la realizzazione di una cittadinanza attiva e partecipe del bene comune. Come scritto anche in passato, la linea di confine tra cittadinanza e sudditanza è molto sottile e, a complicare la questione, la condizione di una sfera pubblica non più autonoma dalla politica.
A livello della prassi, le categorie del rischio e del conflitto nei sistemi sociali e nelle organizzazioni complesse, sono sempre più riconducibili ad una cattiva/inefficace gestione delle conoscenze o, peggio ancora, all’impossibilità di avere accesso a queste e di farne un uso consapevole e razionale.
Dal punto di vista della condotta morale e conoscitiva, la modernità si è presentata come un’esperienza sempre più frammentaria che ha minato, nel profondo, le certezze degli attori sociali. Anche e soprattutto perché la realtà, perdendo il suo ordine e la sua apparente unitarietà, continua a mostrarsi molto più complessa delle leggi (fisiche, sociali ed economiche) che tentano di definirla e interpretarla.
È da questi presupposti che prende le mosse il pensiero moderno e contemporaneo, nella consapevolezza che non esistono più conoscenze indiscutibili, culture predominanti, valori assoluti, verità incontrovertibili, bensì conoscenze probabilisticamente e statisticamente attendibili. La conoscenza, prodotta da un complesso processo di acquisizione intersoggettiva, costituisce l’esito tutt’altro che scontato di un percorso che si sviluppa, non tanto per deduzione logica o semplice accumulazione lineare di informazioni, quanto per tentativi ed errori (casuali o sistematici) in grado di far avanzare il pensiero e la ricerca.
Il nuovo ecosistema della comunicazione si caratterizza per un alto tasso di dinamicità dei processi che mette a dura prova le tradizionali logiche di controllo e sorveglianza, tipiche delle società industriali avanzate. La società interconnessa fonda la sua ricchezza sulla smaterializzazione degli scambi, ma rende più evidenti le disuguaglianze di carattere conoscitivo e culturale definendo nuove asimmetrie sociali.
Accade così che questa nuova complessità sociale definisca le condizioni strutturali per l’affermazione di un sapere riflessivo che deve fare i conti con la crisi del pensiero, dei paradigmi conoscitivi e con l’incapacità di promuovere soluzioni accettabili. I sistemi di orientamento conoscitivo e valoriale si mostrano inadeguati rispetto ad una realtà sociale costantemente in evoluzione.
Tornando ai quesiti fondamentali di questo lavoro: per ciò che concerne la prassi comunicativa, appare evidente come il quadro giuridico-normativo e i codici deontologici non riescano e non possano chiudere il cerchio su tale complessità che riguarda da vicino la Persona, la libertà/responsabilità del comunicare e dell’informare; perché la questione è culturale, attiene alla formazione e alla consapevolezza di chi produce, elabora e condivide informazioni/conoscenze nel nuovo ecosistema comunicativo. Al contrario, per ciò che concerne le questioni dell’accesso, della cittadinanza, dell’inclusione, delle regole e dei diritti per la società interconnessa, non possiamo non rilevare la fondamentale importanza e l’imprescindibilità di definire un quadro normativo (si pensi alle questioni, dibattute a livello internazionale, riguardanti la Net Neutrality, il Freedom of Information Act e l’Internet Bill of Rights) più moderno e meglio attrezzato per tutelare i diritti digitali, le libertà e l’accesso alla “risorsa” delle risorse: la conoscenza.
[1] Abbiamo definito e approfondito le dimensioni della società ipercomplessa in: P. Dominici, La comunicazione nella società ipercomplessa: istanze per l’agire comunicativo e la condivisione della conoscenza nella network society, Aracne Ed., Roma 2005; e in, La comunicazione nella società ipercomplessa. Condividere la conoscenza per governare il mutamento, Milano, FrancoAngeli 2011.
[2] Tra le tante etichette ricordiamo: tecno-entusiasti vs. tecno-scettici, fondamentalisti digitali vs. neoluddisti e tante altre, più o meno suggestive.
[3] M. Castells (2009), Communication Power, trad.it. Comunicazione e potere, Università Bocconi Editore, Milano 2009.
[4] L. Floridi (2010), Information. A very short introduction, trad.it. L. Floridi, La rivoluzione dell’informazione, Codice Edizioni, Torino 2012.
[5] Sulle questioni del digital divide, e sul relativo dibattito scientifico, si veda: S. Bentivegna, Disuguaglianze digitali. Le nuove forme di esclusione nella società dell’informazione, Laterza, Roma-Bari 2009.
[6] Cfr. E. Rossi, “Prefazione” in A. Fabris (a cura di) (2004), Guida alle etiche della comunicazione, ETS, Pisa, p. 8.
Perché soltanto dalla ben nota “fine delle certezze” (Prigogine) potranno generarsi conoscenza e creatività; e la conoscenza, da sempre, si annida negli errori della vita (Canguilhelm).
Segnalo alcuni articoli e contributi:
- Tra conoscenza e controllo sociale (spunti per una lettura critica)
- “Per un’innovazione inclusiva**: ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico”
- “Innovare significa destabilizzare”. Perché la (iper) complessità non è un’opzione
- “Il grande equivoco. Ripensare l’educazione (#digitale) per la Società Ipercomplessa”
- “La società asimmetrica* e la centralità della “questione culturale”: le resistenze al cambiamento e le “leve” per innescarlo”
- “L’ipercomplessità e una crisi non soltanto economica. Ripensare il sapere e lo spazio relazionale”
- “La condizione del sapere nella società della conoscenza: tra condivisione e riproducibilità “tecnica”(?)”
- La comunicazione ridotta a marketing #PianoInclinato
Tra le interviste, condivido volentieri:
- Intervista concessa a l’Huffington Post: “La cultura della complessità come cultura della responsabilità”
- Intervista concessa a VITA: “Nella società ipercomplessa, la strategia è saltare le separazioni”
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Riferimenti bibliografici (una selezione) e percorsi di approfondimento…
Riferimenti bibliografici
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N.B. Condividete e riutilizzate pure i contenuti pubblicati ma, cortesemente, citate sempre gli Autori e le Fonti anche quando si usano categorie concettuali e relative definizioni operative. Condividiamo la conoscenza e le informazioni, ma proviamo ad interrompere il circuito non virtuoso e scorretto del “copia e incolla”, alimentato da coloro che sanno soltanto “usare” il lavoro altrui. Le citazioni si fanno, in primo luogo, per correttezza e, in secondo luogo, perché il nostro lavoro (la nostra produzione intellettuale) è sempre il risultato del lavoro di tante “persone” che, come NOI, studiano e fanno ricerca, aiutandoci anche ad essere creativi e originali, orientando le nostre ipotesi di lavoro.
I testi che condivido sono il frutto di lavoro (passione!) e ricerche e, come avrete notato, sono sempre ricchi di citazioni. Continuo a registrare, con rammarico e una certa perplessità, come tale modo di procedere, che dovrebbe caratterizzare tutta la produzione intellettuale (non soltanto quella scientifica e/o accademica), sia sempre meno praticata e frequente in molti Autori e studiosi.
Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle tante scorrettezze ricevute in questi anni. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da vent’anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede.
Buona riflessione!
Immagine: opera di Catrin Welz-Stein