Del ritorno al sociale. Del valore della presenza, della relazionalità e della condivisione
Come sempre, senza “tempi di lettura”. Il testo è ricco di collegamenti ipertestuali e presenta, come ogni altro contributo/saggio, percorsi bibliografici di approfondimento.
Queste settimane di distanziamento sociale e di quarantena, forse -meglio ancora- di auto-isolamento, oltre a farci riflettere su tante questioni fondanti relative alla nostra vita privata e pubblica; oltre a farci riflettere sulla centralità strategica della conoscenza, della condivisione della conoscenza e del “sapere condiviso” (Dominici 1998, 2003, 2008) e, ancor di più, sull’assenza di dimensioni/aspetti/fattori che, ormai, tendiamo a dare per scontate/i (su tutti, quello della nostra “libertà”, concetto complesso con numerose sfumature e accezioni e, allo stesso tempo, quello della valore imprescindibile della “relazione”), ci stanno facendo riflettere molto anche su quanto questa pandemia, nella sua dimensione globale di fenomeno sociale, stia cambiando i nostri stili di vita (non credo i valori) e le nostre aspettative. A tal proposito, come vado sostenendo da tempo, non credo proprio che, dopo queste settimane così difficili, ci ritroveremo/risveglieremo tutti più buoni, generosi, aperti e solidali (quante narrazioni!); una società costruita/edificata su valori individualistici e utilitaristici, su una competizione senza regole, segnata da particolarismi così radicati in tutti gli strati sociali, una società articolata in élites e corporazioni (modello sociale feudale à 1995-2018), una “società asimmetrica” – così l’ho definita – non può modificarsi, in profondità, neanche in presenza di questa pandemia. Ci sono diversi precedenti, con riferimento a disastri, catastrofi ed emergenze di varia natura: spesso si parla – a mio avviso, erroneamente – di capitale sociale… di fiducia e cooperazione, meccanismi sociali complessi che necessitano di numerosi fattori scatenanti e concause.
Ma, in queste situazioni, il ‘vero’ collante sociale è sempre costituito dal bisogno, fondamentale e insostituibile, di sicurezza e da una solidarietà della paura, irrefrenabilmente alimentata, oltre che dalle nostre vulnerabilità e dal senso di inadeguatezza/impreparazione, anche dalla copertura mediatica, dall’ecosistema dell’informazione e, con l’avvento della cd. rivoluzione digitale, da socialmedia e ambienti iperconnessi. Con ogni probabilità (possiamo soltanto attendere lo scorrere degli eventi…anche se non sono pochi quelli che, già ora, dichiarano, “mostrano” di aver capito e saper/poter prevedere tutto) non cambieranno neanche gli attori sociali, gli individui, le persone, nonostante la viralità e l’invasività di questa pandemia sociale. Torno a ripetermi: dobbiamo/dovremmo – come ripetuto più e più volte negli anni (mai praticato, se non a livello di slogan) – pensare concretamente al lungo periodo anche, e soprattutto, per costruire una “cultura della responsabilità e della prevenzione” che, evidentemente, ha nella “cultura della complessità” un pre-requisito fondamentale (Dominici, 1995 e sgg.).
E così… – mi ripeto – in queste settimane di distanziamento sociale e di quarantena, di auto-isolamento – pur avendo molto più tempo da trascorrere con la famiglia, – altre dimensioni del nostro “esistere” le apprezzavo anche prima di questa emergenza – inizio ad avvertire l’assenza, perfino un po’ di nostalgia, oltre che della relazione con i colleghi e gli studenti (nonostante chat e piattaforme varie, oltre che fantasmagoriche apps che – sia chiaro – mi/ci stanno aiutando e supportando moltissimo), dell’esistenza da pendolare (sembra incredibile !?), pur piena di ritardi e imprevisti, di distanziamento dai propri cari; un’esistenza da pendolare con tanti viaggi e trasferte all’estero. Perché incontrare, anche soltanto incrociare, le persone e i loro sguardi, parlare e confrontarsi anche con chi non si conosce bene, ascoltare suoni e rumori dei luoghi pubblici, è davvero qualcosa di insostituibile.
Non siamo mai stati così iperconnessi e interconnessi, eppure, mai, come in questa fase, avvertiamo l’assenza dell’Altro, degli Altri, del legame sociale, della condivisione (vera), dell’immediatezza; avvertiamo la grande distanza con l’Altro, con gli Altri, pur nella “vicinanza mediata”. L’assenza di una relazione complessa che non può essere simulata, in alcun modo.
Dinamiche e relazioni ancor più intense, complesse, difficili da descrivere con le sole parole: ancor di più per chi insegna (con tutte le sfumature e differenze del caso, sia a Scuola che all’Università) ed, evidentemente, ama insegnare, stare in mezzo ai giovani, abitare uno spazio comune e condiviso, anche se per poche ore. Un discorso che, evidentemente, riguarda in particolare tutte le professioni e i lavori che hanno a che vedere con la cura e il “prendersi cura” delle persone.
Rumori e silenzi, sguardi e pensieri, pause e accelerazioni, momenti di dibattito e confronto, respiri e movimenti dei corpi…uno spazio educativo, relazionale, comunicativo, visuale, percettivo, cognitivo, linguistico, culturale, uno spazio sistemico, condiviso, caratterizzato da infinite dimensioni; uno spazio sistemico, vitale, emotivo ed emozionale che, pur avendo sempre creduto (anche) nell’utopia primordiale della società della conoscenza, nella stessa teledidattica (che, a mio avviso, andrebbe affiancata alla didattica tradizionale e non utilizzata soltanto nel corso delle emergenze), nell’utilizzo delle piattaforme e nelle opportunità offerte dagli ecosistemi iperconnessi (1996), non vedo l’ora di ritrovare. Noi stessi siamo “sistemi complessi” e abbiamo un disperato bisogno degli Altri, della relazione con gli Altri, perché noi stessi siamo “relazione”, sistemi complessi, aperti. Abbiamo bisogno degli Altri, e della loro prossimità, come le piante della luce solare.
Perché, prima o poi (nessuno può stabilire con esattezza “quando”), torneremo al sociale, alla vitalità ed all’affascinante, oltre che imprevedibile, bellezza e complessità delle relazioni senza mediazioni e senza filtri/vincoli imposti dalle tecnologie della connessione che, come scrissi molti anni fa, pur straordinarie e pur non avendone compreso ancora potenzialità e implicazioni (etiche ed epistemologiche), consentono soltanto una “simulazione della comunicazione” e delle relazioni sociali, talvolta anche svuotandole di diverse dimensioni fondamentali.
Per fortuna, in queste settimane di questa “morbida”, quasi gentile, reclusione, la presenza incessante – pur a distanza – degli amici (a proposito del vecchio paradosso relativo a reti e social che avvicinano chi è lontano e allontanano chi è vicino…quanta vicinanza, pur mediata/simulata, da parte di persone e amici lontani nello spazio/tempo) e – confesso – il lavoro, i progetti, il tenere impegnata la mente e, ancor di più, il farla viaggiare… E, infine, non mi nascondo, la (tanta) teledidattica – a proposito: meravigliosa la possibilità di collaborare con tanti colleghi, con scuole e università – che, pur richiedendoci molto tempo, impegno e la passione di sempre, ci fa sentire/percepire una distanza minore dai nostri giovani. E spero sia così anche per loro!
In conclusione, stringendo l’obiettivo (non in termini di rilevanza della questione).
Nella piena consapevolezza che sia “nulla” ciò che stiamo ‘facendo’, auto-recludendoci, rispetto all’impegno e ai rischi/pericoli corsi da tante persone che non possono permettersi di stare/lavorare a casa e, ancor di più, da alcune figure straordinarie (medici, infermieri, protezione civile, esercito, forze dell’ordine, pompieri, persone che lavorano anche in queste settimane per garantire trasporti e servizi), tra i tanti paradossi e questioni paradossali di questo periodo di pandemia (per la verità…di tanti tipi di pandemia), ne rilevo una in particolare che ritengo particolarmente importante: proprio questo lungo periodo di isolamento e distanziamento sociale (ed emotivo) ci sta facendo (ri)scoprire, seppur molto lentamente, da una parte, (1) le straordinarie potenzialità del digitale e delle tecnologie della connessione, con culture digitali ancora tutte da co-costruire (e siamo, tuttora, molto lontani dal comprenderne implicazioni etiche ed epistemologiche); e, dall’altra, ci sta facendo (ri)scoprire (2) quanto importanti, fondamentali, vitali, generative, siano le relazioni e la vicinanza “fisica” delle altre persone, anche di quelle che non conosciamo così bene. Reti, legami di varia “natura”, legami sociali, vitalità, energie…
L’abitare, appunto, quello spazio sociale, relazionale, comunicativo, comune e condiviso…uno spazio che ci fa sentire “umani”, fino in fondo, anche nelle situazioni più conflittuali e contraddittorie. Quel “sociale”, al quale dovremo ritornare senza dimenticare questa esperienza che, come ho ripetuto altre volte e, in passato, in occasione di altre emergenze e disastri, non è un “cigno nero” (prima di Taleb, metafora già ampiamente utilizzata dagli antichi) – per evocare la celebre metafora – bensì, “è uno dei tanti cigni neri che continueremo ad incontrare in questa nostra evoluzione complessa, tutt’altro che lineare” (cit.).
E, sempre ripensando all’oggi, a proposito del valore della “condivisione”… in presenza di questa pandemia, anche sociale, stiamo iniziando a prendere finalmente atto, a prendere coscienza, della rilevanza strategica della “condivisione della conoscenza e del “sapere condiviso” (1996, 2003, 2005, 2011 e sgg.). Vecchie, vecchissime questioni che sembrano, ancora una volta, ritrovare nel discorso pubblico, non soltanto mediatico, una sorta di nuova originalità e potenzialità rivoluzionarie. Tutti (ri)scoprono il valore della “condivisone della conoscenza”, anche quelli che, da sempre, ne ostacolano il riconoscimento e la concreta applicazione, “dentro” e “fuori” (falsa dicotomia) le istituzioni educative e formative.
Ché non sia, davvero, la volta buona! Costretti a cooperare, e condividere dati, informazioni e conoscenza, perché ne va di mezzo la nostra stessa sopravvivenza.
«L’incertezza è l’habitat naturale della vita umana, sebbene la speranza di sfuggire ad essa sia il motore delle attività umane. Sfuggire all’incertezza è un ingrediente fondamentale, o almeno il tacito presupposto, di qualsiasi immagine composita della felicità. È per questo che una felicità “autentica, adeguata e totale” sembra rimanere costantemente a una certa distanza da noi: come un orizzonte che, come tutti gli orizzonti, si allontana ogni volta che cerchiamo di avvicinarci a esso»
Zygmunt Bauman, 2008
Un approccio e percorsi di ricerca dal’95
#CitaregliAutori
Augurandomi possa interessare, condivido vecchia pubblicazione (2014) su rivista scientifica, sempre relativa a tali temi e questioni:
Il riferimento bibliografico esatto è il seguente:
La modernità complessa tra istanze di emancipazione e derive dell’individualismo, in «Studi di Sociologia», n°3/2014, Vita & Pensiero, Milano 2014. ISSN: 0039291X (Rivista di CLASSE A) PEER REVIEWED
La modernità complessa tra istanze di emancipazione e derive dell’individualismo: la comunicazione per il legame sociale
di PIERO DOMINICI
Premessa
Le società avanzate appaiono sempre più caratterizzate da profonde asimmetrie sociali, oltre che da processi di individualizzazione e frammentazione, che innescano dinamiche conflittuali in grado di testare la resilienza dei sistemi sociali e organizzativi, basati su una razionalità limitata scaturita anche dall’indebolimento dei meccanismi della fiducia e della cooperazione. La modernità, da questo punto di vista, sembra aver radicalizzato i processi di disancoramento dell’individuo dal gruppo, mettendo in contrapposizione libertà e responsabilità. In tale contesto, la comunicazione, intesa come processo sociale di condivisione della conoscenza, sembra aver ormai assunto una centralità strategica in tutte le dimensioni della prassi. L’ipertrofizzazione degli apparati burocratici, la progressiva dissoluzione dello spazio pubblico e l’evoluzione delle democrazie, fondate sulla trasparenza, sull’accesso, sul concetto di sovranità popolare e, da un punto di vista culturale, sull’individualismo economico – egemone rispetto a quello democratico – hanno causato una radicale politicizzazione della sfera pubblica, il cui spazio operativo si è significativamente ridotto alla sola questione della “rappresentanza” e al ruolo di ancella del sistema di potere. Il processo di evoluzione dei neonati regimi democratici, spesso culturalmente fondati sul concetto di sovranità popolare – intesa come egemonia o predominio delle maggioranze – e sulla mancata definizione del rapporto tra i valori fondanti della libertà e dell’uguaglianza, ha causato una radicale politicizzazione della sfera pubblica che, articolatasi poi in istituzioni politiche e in nuove istanze sociali in cerca di un riconoscimento pubblico e di una traduzione operativa in norme di diritto, è andata configurandosi sempre più come sistema autopoietico. In quel momento è venuto meno, per dirla con Habermas (1981), quel livello di mediazione tra sistema e mondo della vita che si fonda su un agire comunicativo in grado di tematizzare criticamente istanze sociali e opinioni generatesi all’interno del mondo della vita e della società civile, dando loro piena legittimità oltre che rilevanza pubblica.
Gli attuali sistemi sociali, così caotici e disordinati, attraversano un’ulteriore fase (critica) di mutamento segnata dall’avvento dell’economia interconnessa che pone all’attenzione anche nuove questioni in materia di cittadinanza. In discussione ci sono nuove opportunità di emancipazione offerte dalla conoscenza diffusa che alimenta le reti di protezione e promozione sociale: si intensificano i legami di interdipendenza e di interconnessione, anche se alcuni osservatori continuano ad ipotizzare la possibile fine del legame sociale. Da sottolineare l’interessante processo di crescita di movimenti sociali e di gruppi di pressione che, non sentendosi rappresentati da una politica sempre più distante, si assumono la responsabilità di rendere visibili al Sovrano – oltre che alle opinioni pubbliche – istanze sociali generatesi dal basso.
Il vecchio modello industriale costituito da assetti consolidati, gerarchie, logiche di controllo e di chiusura al cambiamento sembra sul punto di essere scardinato dal nuovo ecosistema della conoscenza. La conoscenza comincia (finalmente) ad essere (anche) riconosciuta come bene comune e come risorsa in grado di (ri)stabilire rapporti sociali meno asimmetrici. Ma, è bene ribadirlo, le nuove forme di produzione sociale di conoscenza potranno essere decisive soltanto a condizione che gli attori dell’arena pubblica sappiano cosa fare con la conoscenza, le reti e i media sociali e, più in generale, la tecnologia: e ciò riporta in primo piano l’urgenza di una riforma complessiva del pensiero (complesso) e del sapere.
Viviamo, d’altra parte, in un’epoca sempre più segnata dalla frantumazione dei sistemi di appartenenza e credenza – veri e propri produttori di identità individuali e collettive – e dalla conseguente affermazione di valori individualistici e utilitaristici. Non a caso si è dibattuto da più parti di “tirannia dell’individuo”, vera e propria forza centrifuga in grado di corrodere i legami dei sistemi sociali. Un processo di progressivo indebolimento e sfaldatura che trova ulteriori conferme nel diffuso deficit di partecipazione sociale e politica a sua volta alimentato da un clima di sfiducia generale nei confronti di tutte le istituzioni (formali e informali), in passato uniche responsabili della trasmissione dei sistemi di orientamento valoriale e conoscitivo.
Uno scenario estremamente complesso e di difficile lettura che, sulla scia della perdita di credibilità e di autorevolezza della politica, ha lasciato campo aperto all’ipotesi di una democrazia “oltre” i partiti, essendo quest’ultimi di mantenere il consenso e mediare le nuove forme di conflittualità come in passato. Sullo sfondo, una crisi della forma partito (Revelli, 2013), che si aggiunge a quella, ben più profonda, riguardante la rappresentanza. L’individualismo dominante nei nostri sistemi sociali è l’esito, per certi versi inevitabile, del processo/progetto di emancipazione portato avanti nel corso della modernità. Un processo di emancipazione delle masse, prima, del Soggetto, poi, che se, da un lato, ha accresciuto gli spazi di libertà e ha portato al riconoscimento di alcuni diritti fondamentali (almeno in linea teorica), dall’altro ha contribuito ad indebolire i vincoli e i legami di appartenenza alla Comunità.
Il trionfo del Soggetto non soltanto “libero di” ma anche “libero da” ha determinato, paradossalmente, in un’epoca che sembra segnata da maggiori opportunità di emancipazione e da straordinaria potenzialità comunicative (?) – anche se, a mio giudizio, si fa spesso confusione tra comunicazione e connessione – uno scollamento del tessuto sociale, costituito da persone sempre più sole nell’affrontare tale complessità. Quella contemporanea è un’epoca in cui i meccanismi sociali della fiducia e della cooperazione – struttura portante, insieme ai rapporti economici e di potere – sono stati messi a dura prova anche da processi di precarizzazione che hanno reso l’instabilità condizione esistenziale.
L’ipotesi di fondo è, in conclusione, la seguente: al di là della profonda crisi economica (che non ha radici esclusivamente economiche, anzi!), la fase che stiamo vivendo è particolarmente drammatica perché le persone avvertono chiaramente questo rischio di “fine del legame sociale”, conta la loro percezione (individuale e collettiva), il sentirsi soli nell’affrontare l’insicurezza e la precarietà della vita: aggiungo che questo dramma della solitudine – che è un vuoto anche di senso, è difficoltà di dare un significato al reale – si riscontra anche nel bisogno ossessivo di comunicare (?) e di essere “visibili” a tutti i costi (old e new media), per non essere dimenticati (questione dell’identità e del riconoscimento). In questo scenario così complesso, incerto e articolato, la comunicazione, i mezzi di comunicazione (mass e new media), il sistema dell’informazione, la Rete e, in particolare, il Web 2.0 sembrano aver definitivamente occupato – per non dire egemonizzato – non soltanto lo spazio pubblico della discussione e della formazione delle opinioni pubbliche, ma anche quell’area decisiva della prassi sociale un tempo “controllata” dalle tradizionali agenzie di socializzazione. A tal proposito, è di fondamentale importanza tenere ben distinti i due piani di discorso e analisi: da una parte, le tecnologie e/o i mezzi di comunicazione, dall’altra, la comunicazione stessa che è processo sociale caratterizzato dalla presenza di soggettività etiche e di attori/individui che si confrontano sul terreno di rapporti di potere (!) più o meno simmetrici.
Presupposto forte della presente analisi è il fermo convincimento che soltanto l’affermazione di una cultura della comunicazione (intesa come condivisione della conoscenza), in generale, nei sistemi sociali ed, in particolare, all’interno ed all’esterno delle organizzazioni complesse (concetto di organizzazione come “sistema aperto”) possa effettivamente creare le condizioni per la realizzazione e la concreta applicazione di quei fondamentali diritti/doveri di cittadinanza senza i quali l’attore sociale (nelle sue molteplici vesti di cittadino-utente-consumatore) non può evidentemente trovare nessun tipo di legittimazione/riconoscimento alle sue istanze. Ritrovandosi, di fatto, in una condizione di sudditanza, all’interno di una sfera pubblica già ridimensionata e del tutto inconsistente. Conoscenza e competenze, in tal senso, sono in grado di determinare, sempre più in misura significativa, i rapporti di forza in ogni sfera della vita sociale, organizzativa, sistemica con evidenti ricadute per la cittadinanza e i regimi democratici.
- Modernità complessa e globalizzazione: rischi e opportunità
La Modernità sconvolge, nel profondo, processi, assetti, gerarchie, vissuti: è il tempo dell’eterno presente, con la sua esperienza sempre più frammentaria che incrina le certezze del Soggetto, determinando un processo di sradicamento produttore di anomia. Il mondo borghese, pur nella consapevolezza della crisi dell’uomo moderno, si dimostra assolutamente non in grado di far fronte ad una nuova complessità carica di contraddizioni. La più volte richiamata «morte di Dio» e la crisi delle grandi «metanarrazioni» (Lyotard, 1979), la critica radicale di tutti i dogmi e di tutte le certezze acquisite hanno determinato, da una parte, la crisi ma, dall’altra, l’accelerazione radicale di tutte le dinamiche. Una Modernità il cui progetto – come noto – era stato elaborato in ambito illuminista: un progetto che, secondo l’analisi di Adorno e Horkheimer (1947), avrebbe prodotto non emancipazione, bensì oppressione e dominio dell’uomo sull’uomo e alla cui base vi era il profondo convincimento che la conoscenza, basata sulla ragione, una volta liberata dai vincoli irrazionali del mito e della religione, avrebbe finalmente spezzato le catene dell’irrazionale che tenevano il Soggetto ostaggio delle sue paure.
La visione unitaria e armonica della realtà – una realtà basata sull’ordine – entra in crisi, contemporaneamente alla crisi delle concezioni idealistiche e positivistiche della storia, del tempo e del reale. Il Soggetto, avendo assistito alla frantumazione di tutti i vincoli della tradizione ed alla disgregazione degli apparati di consenso, si ritrova “solo” e senza quelle coordinate che gli possano indicare la giusta rotta fino a quel momento definita e garantita dal convincimento della perfetta coincidenza di reale e razionale. La Modernità (Berman, 1982; Harvey, 1990, Frisby, 1985) anche nella sua fase più estrema e radicale (la globalizzazione), si è confermata come l’età dell’ambivalenza e del paradosso, del conflitto aperto, della dialettica senza una sintesi, della crisi delle ideologie e dei paradigmi scientifici, un’epoca di disillusioni collettive che hanno spinto, quasi gettato, l’individuo lontano dal sociale. Un’età secolare contrassegnata da un continuo processo di ridefinizione degli immaginari sociali e degli orizzonti morali, da una sorta di Grande Sradicamento (Great Disembedding) (Taylor, 2007) che ha messo in discussione il concetto stesso di identità; una fase di mutamento che è sembrata configurarsi più come l’era del trionfo della pluralità dei giochi linguistici – aventi come fulcro l’azione sociale – che come l’era del globale e dell’omogeneo (Lyotard vs.Habermas).
Il pensiero moderno e contemporaneo, quindi, sembra partire proprio dalla consapevolezza di questa crisi, dal dato di fatto che non esistono più conoscenze indiscutibili, culture predominanti, valori assoluti, verità incontrovertibili, bensì conoscenze probabilisticamente e statisticamente attendibili, valori relativi, spiegazioni complesse. In altri termini, si prende atto che la conoscenza, oltre ad essere il risultato di un complesso processo di acquisizione intersoggettiva, costituisce l’esito tutt’altro che scontato di un percorso che si sviluppa, non tanto per deduzione logica o semplice accumulazione lineare di informazioni, quanto per tentativi ed errori (casuali o sistematici) in grado di far avanzare il pensiero e la ricerca.
Si tratta, fondamentalmente, di una crisi della razionalità occidentale e delle forme di vita da essa prodotte; una crisi che coincide con un momento autopoietico di autoriproduzione e autorinnovamento. I moderni sistemi sociali, basati sul concetto di fiducia, sul valore della conoscenza, sul sapere scientifico e sul controllo del rischio si trovano – per usare una metafora cara a Karl Marx – nelle stesse condizioni di un mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate.
La progressiva diffusione di nuovi mezzi di comunicazione, ad alto tasso di innovazione tecnologica, sta sconvolgendo architetture sociali e politiche, favorendo l’affermazione di un nuovo modo di produzione economica interamente basato sul possesso, la capacità di elaborazione e la diffusione delle conoscenze. La cosiddetta società/economia della conoscenza, sostituendo progressivamente le risorse materiali con quelle immateriali, definisce nuove forme di scambio sociale e nuove asimmetrie sociali che la Politica, sempre più ridimensionata a livello della prassi dall’economia e dalla finanza, non sembra più essere in grado di gestire.
La dinamicità intrinseca, che ne è scaturita, ha avuto come sua prima conseguenza un processo di sviluppo ineguale – la globalizzazione – che si è concretizzato in nuove forme di interdipendenza dall’impatto globale che il sapere riflessivo rende (auto)evidenti. La stessa globalizzazione, a nostro avviso, non si è mai rivelata come un momento di frattura (postmodernità) rispetto alla cosiddetta prima modernità; al contrario, essa ha costantemente mantenuto al suo interno tutte le contraddizioni tipiche del Moderno, estendendole su scala globale e radicalizzandone gli effetti. L’economia globale della conoscenza continua a mantenere al suo interno due spinte, già presenti nel Moderno, che si affrontano dialetticamente in campo aperto: da una parte l’interdipendenza (e interconnessione) economica e tecnologica, dall’altra, la frammentazione sociale, politica e culturale. Alla base di queste dinamiche vi è, in ogni caso, la ben nota consapevolezza della crisi del pensiero non più in grado di fornire modelli di problemi e soluzioni accettabili (Kuhn). La modernizzazione riflessiva (Beck, Giddens, Lash, 1994) è profondamente segnata da questo presupposto di inadeguatezza dei vecchi paradigmi e dei vecchi schemi conoscitivi, oltre che dalla consapevolezza che le strategie e le possibili soluzioni alla vulnerabilità dei sistemi vanno ricercate, comunque e sempre, dentro la stessa modernità.
All’interno dei moderni sistemi sociali complessi, le dimensioni della comunicazione e della produzione sociale di conoscenza hanno assunto una rilevanza straordinaria anche se spetta ancora alla Politica, nonostante la profonda crisi in cui versa, individuare ed elaborare le strategie più adeguate per fare in modo che tutti i soggetti siano realmente inclusi, contrastando quella percezione diffusa di “isolamento caotico” ma anche di vulnerabilità e precarietà delle esistenze, delle appartenenze e dei vissuti sociali. Questo anche perché l’homo faber ha voluto esercitare in modo smisurato la sua volontà di potenza, ma ciò non ha determinato soltanto nuove opportunità: ha creato anche nuove e drammatiche forme di conflittualità e disuguaglianza, ulteriormente segnate dall’accesso limitato o dalla mancata condivisione della conoscenza e delle risorse informative. É in questa direzione che la Politica può/deve lavorare per recuperare il suo spazio, ormai invaso ed egemonizzato dall’economia e dalla finanza.
La comunicazione, in modo complementare allo sviluppo delle forze produttive, è stata da sempre la variabile decisiva per lo sviluppo dei sistemi sociali. Il miglioramento dei flussi comunicativi, dal vertice alla base delle società umane, ha rappresentato sempre un progresso, quanto meno un momento di passaggio verso nuove forme della socialità e nuove forme di mediazione degli interessi e dei conflitti: la nascita dei sistemi democratici, la diplomazia nei rapporti internazionali e la burocrazia in quelli tra cittadino e Stato, ne sono degli esempi paradigmatici. Nell’attuale fase di mutamento, oltretutto contrassegnata da una profonda crisi (evidentemente) non soltanto economica, la comunicazione e la conoscenza sociale potrebbero concretamente contribuire anche ad un processo di riavvicinamento tra sistema di potere e società civile, definendo una nuova simmetria dei rapporti sociali, con inevitabile riconfigurazione e riposizionamento della sfera pubblica. In termini pratici, ciò si tradurrebbe nel rafforzamento di un’opinione pubblica (locale e globale) sempre più critica e informata e, per questa ragione, sempre più partecipe e destinataria attiva delle scelte della Politica. Potrebbe essere questo il vero valore aggiunto della modernità radicale, dopo la grande illusione del postmoderno. Da questo punto di vista, il nuovo ecosistema della conoscenza trova nell’economia interconnessa potenziali opportunità di democratizzazione della conoscenza e dei processi culturali in grado di scardinare, definitivamente, il vecchio modello industriale costituito da assetti consolidati, gerarchie, logiche di controllo e di chiusura al cambiamento. La conoscenza, risorsa immateriale strategica per il mutamento in corso, comincia ad essere sempre più vista e percepita come “bene comune” in grado di ristabilire rapporti sociali e di potere meno squilibrati e asimmetrici.
In questa stessa linea di discorso, è di vitale importanza il non ricadere nell’errore storico di misurare le disuguaglianze solo sulla base di indicatori economici: l’accesso alla conoscenza, all’informazione, all’istruzione, la possibilità di vedere riconosciuti la propria identità e i diritti di cittadinanza, l’eguaglianza delle opportunità, le libertà di manifestare liberamente il proprio pensiero e di realizzarsi, lo sviluppo della società aperta sono indicatori fondamentali tanto quanto il reddito pro-capite o il PIL. La Politica deve attivarsi affinché i media sociali e le reti diventino tecnologie di cooperazione e non di controllo, aprendo alla sperimentazione di nuove forme di partecipazione democratica ed al potere delle moltitudini mobili e intelligenti (Rheingold, 2002).
La logica del libero mercato autoregolato ha avuto un peso rilevante ma la dimensione socioculturale continua a rimanere assolutamente strategica nella lettura anche di fenomeni e processi economici. In tal senso, non possiamo non prendere atto come la società globale sia stata plasmata dai valori di un individualismo talvolta esasperato – anche dalla stessa retorica postmoderna – e dal mito di una produttività senza lavoratori. A nostro avviso, è stata creata quasi una mitologia dell’Individuo autonomo e svincolato da ogni legame, un individuo che, per le sue azioni, sembra non dover rispondere a niente e nessuno: altro che il riferimento alla ben nota distinzione tra etiche dell’intenzione ed etiche della responsabilità.
Siamo andati ben al di là di ogni vincolo giuridico e/o culturale: contano il denaro e il consumo e l’unico (micro)potere dei cittadini è nel loro essere consumatori. Tali dimensioni, insieme al vuoto di significato lasciato dalla crisi delle ideologie, hanno prodotto, tra le conseguenze, anche una sorta di generale disarmo morale, che nutre la società dell’irresponsabilità (Dominici, 2010) priva di qualsiasi etica del sacrificio.
La mitologia dell’individuo sovrano, portatore di diritti ma non di doveri, ha prodotto danni difficilmente calcolabili/valutabili soprattutto per ciò che concerne il rispetto del Bene comune e della “cosa pubblica”, ma anche il modo di percepire e osservare norme, valori, regole, modelli di comportamento etc.; una mitologia o, per meglio dire, una narrazione che ha prodotto, tra gli altri effetti, una deregolamentazione negativa e una deresponsabilizzazione degli attori sociali, a tutti i livelli. Anche da questo punto di vista, occorre uscire da questa fase di “navigazione a vista”, in cui i legami tra l’individuo e le istituzioni, tra l’individuo e le tradizionali agenzie di socializzazione (famiglia, scuola, religione etc.), tra la Politica e i cittadini, si sono fortemente indeboliti e questa distanza che si è creata ha certamente favorito il coinvolgimento sempre più massiccio e decisivo dei media – e nello specifico della Rete e dei media sociali – nel processo di formazione delle identità individuali e collettive e, perfino, nel riconoscimento e nella definizione operativa delle istanze sociali su cui operare delle rivendicazioni nei confronti della Politica.
Nell’era del mercato globale e della società della conoscenza, la produzione sociale di capitale viaggia di pari passo con la produzione sociale di rischi, anzi i rapporti di forza tra le due logiche si sono invertiti proprio a causa della riflessività che nega alle forze produttive l’opportunità di celare i loro effetti collaterali più latenti. I complessi e articolati meccanismi legati alla produzione sociale di conoscenza, supportati dalla Rete e dai social media, disvelano questa dimensione ricollocandola all’interno della sfera pubblica che ha, pur tra mille difficoltà, l’opportunità di tematizzare questioni e istanze (provenienti anche dal basso) escluse, in un primo momento, dal dibattito pubblico.
La società degli individui (Elias), tra i molteplici aspetti, ripropone l’homo faber che, con i suoi atteggiamenti tipici, costituisce una delle icone della modernità: è riuscito a strumentalizzare l’intera realtà e, trascinato dalla fiducia nella portata onnicomprensiva della categoria mezzi-fini, si è convinto di poter trovare una soluzione a qualsiasi problema, identificando acriticamente la produzione/fabbricazione con l’azione.
Gli attori sociali di questo eterno presente, ormai, interpretano qualsiasi comportamento sulla base del principio di utilità e sono quasi ossessionati dalla necessità di produrre e, soprattutto, consumare oggetti materiali, confondendo spesso “intelligenza” e “ingegnosità” (Arendt, 1958, p.227 e sgg.). Accade così che il rischio (Luhmann, 1991; Lupton, 1999), letto anche come deviazione dalla norma, sia divenuto ormai una dimensione connaturata ai moderni stati-nazione ed alla Politica – oltre che ai sistemi sociali; una Politica sempre più costretta a prendere decisioni (centralità della sfera pubblica) che hanno ripercussioni non soltanto a livello locale, in quanto «la comunicazione del rischio è diventata riflessiva e quindi universale, poiché evitare di correre dei rischi o pretenderne il rifiuto è a sua volta un comportamento rischioso» (Luhmann, 1991, p.5).
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Nella società ipercomplessa, l’individuo nel suo essere anche homo sapiens e non soltanto homo faber, sembra volersi tornare a fidare dei poteri della tecnica da cui, peraltro, è stato in passato più volte sedotto e abbandonato. Questa rinnovata fiducia nella razionalità trova nella Rete e nelle nuove tecnologie interattive dei fondamentali punti di appoggio in grado di rendere disponibile per tutti on line una enorme massa di “sapere accumulato” (Hess, Ostrom, a cura di, 2007). Ma, nella nostra analisi, va considerato un altro aspetto fondamentale: la vulnerabilità a cui il Soggetto é esposto nel corso di questi processi. Tale aspetto non può non essere valutato soprattutto perché accresce la complessità della nostra analisi: infatti, lo straordinario potenziamento delle modalità comunicative e la radicale differenziazione dei canali dell’offerta formativa hanno comportato una crescente capacità di autodeterminazione da parte del Soggetto in fatto di scelte, valori, modelli di comportamento, schemi cognitivi. Ad essere sconvolto nel suo complesso è stato il sistema simbolico condiviso insieme al (medium) linguaggio che tenta di descrivere e rappresentare questo ennesimo mutamento.
La civiltà del rischio, d’altra parte, pur presentandosi come straordinaria opportunità di evoluzione economica, politica e sociale, ha di fatto significativamente accresciuto il senso di insicurezza e vulnerabilità all’interno dei sistemi sociali, alimentando un clima di paura (e/o allarme sociale), a livello sia locale che globale, che mette radicalmente in discussione lo stesso “principio di precauzione” (Sunstein, 2005), peraltro sempre più sganciato dalla domanda sociale di protezione. Il sistema-mondo e la nuova economia informazionale, globale e interconnessa richiedono una nuova sensibilità per le problematiche riguardanti il Soggetto, i rapporti sociali e, soprattutto, lo spazio del sapere nella prospettiva di un rafforzamento della sfera pubblica politica transnazionale».
#CitaregliAutori
(CONTINUA)
Ri-condivido soltanto alcuni articoli e saggi, senza andare troppo indietro nel tempo (p.e. agli anni Novanta):
La CULTURA: “motore” del cambiamento e agente di cittadinanza. L’importanza di una visione sistemica (2015) – prima versione più asciutta è stata pubblicata su Il Sole 24 Ore nel 2014 (nei vari formati)
La “questione culturale” e il problema della responsabilità: il ruolo strategico di scuola e istruzione. In cerca di “teste ben fatte” (2014)
Educazione, perché è necessaria una #innovazione inclusiva – (vecchio contributo) un approccio e percorsi di #ricerca dal’95 #CitaregliAutori #MIUR #scuola #università (2016)
“Piero Dominici: viaggio nel territorio della complessità e della cittadinanza” via #NextLearning (conversazione in più episodi con il prof. Gianfranco Marini) (2017)
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Da una vecchia definizione ….
Come sempre, senza “tempi di lettura”
NB: Il testo è ricco di link e collegamenti ipertestuali e presenta, come sempre, dei percorsi bibliografici di approfondimento.
“L’innovazione è un tema cruciale per far fronte alle sfide della società ipercomplessa e della rivoluzione digitale, ma l’innovazione deve essere inclusiva e costruita dal basso e attraverso la negoziazione e può realizzarsi solo se fondata su sull’educazione e la formazione. Quando l’innovazione è calata dall’alto e segue vie esclusivamente legislative i rischi sono quelli di una “cittadinanza illusoria” e di una “innovazione tecnologica” senza cultura”. (cit. 1996 e sgg.)
Una riflessione (e un’analisi) che non può non partire da alcuni brani estratti dalla recente pubblicazione del “Rapporto Istat sulla Conoscenza 2018” e da alcune premesse fondamentali che, purtroppo, non possono mai essere date per scontate.
“Nella società ipercomplessa, la strategia è saltare le separazioni”
Research since 1995: https://link.springer.com/article/10.1007/s40309-017-0126-4#Sec6
N.B. Condividete e riutilizzate pure i contenuti pubblicati ma, cortesemente, citate sempre gli Autori e le Fonti anche quando si usano categorie concettuali e relative definizioni operative. Condividiamo la conoscenza e le informazioni, ma proviamo ad interrompere il circuito non virtuoso e scorretto del “copia e incolla”, alimentato da coloro che sanno soltanto “usare” il lavoro altrui. Le citazioni si fanno, in primo luogo, per correttezza e, in secondo luogo, perché il nostro lavoro (la nostra produzione intellettuale) è sempre il risultato del lavoro di tante “persone” che, come NOI, studiano e fanno ricerca, aiutandoci anche ad essere creativi e originali, orientando le nostre ipotesi di lavoro.
I testi che condivido sono il frutto di lavoro (passione!) e ricerche e, come avrete notato, sono sempre ricchi di citazioni. Continuo a registrare, con rammarico e una certa perplessità, come tale modo di procedere, che dovrebbe caratterizzare tutta la produzione intellettuale (non soltanto quella scientifica e/o accademica), sia sempre meno praticata e frequente in molti Autori e studiosi.
Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle tante scorrettezze ricevute in questi anni. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da vent’anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede.
Buona riflessione!
Immagine: opera di Banksy