L’Intelligenza Artificiale come “nuova frattura epistemologica”.

Il Pensiero e la civiltà ipertecnologica dell’automazione e della simulazione.

 

Gli uomini temono il pensiero più di qualsiasi cosa al mondo, più della rovina, più della morte stessa.

Il pensiero è rivoluzionario e terribile. Il pensiero non guarda ai privilegi, alle istituzioni stabilite e alle abitudini confortevoli.

Il pensiero è senza legge, indipendente dall’autorità, noncurante dell’approvata saggezza dell’età.

Il pensiero può guardare nel fondo dell’abisso e non avere timore.

Ma se il pensiero diventa proprietà di molti e non privilegio di pochi, dobbiamo finirla con la paura…

Bertrand Russell

 

Nella civiltà ipertecnologica dell’automazione e della simulazione, noi umani stiamo cercando di eliminare l’imprevedibilità e ogni possibilità di errore, di controllare e connettere fisicamente tutto, delegando alle macchine intelligenti (?), ai sistemi di intelligenza artificiale ed ai robot, ogni funzione e azione strategica, compresa quella del pensiero, con poca consapevolezza di come (non soltanto) proprio il pensiero – con tutta la sua complessità e non-osservabilità – non sia simulabile, emulabile, riproducibile, replicabile. La stessa Intelligenza Artificiale (straordinaria opportunità) – da me intesa e definita, già alla metà degli anni Novanta, come “nuova frattura epistemologica” (riguarda la conoscenza e i metodi attraverso i quali intendiamo ottenerla/conseguirla/raggiungerla/condividerla) – viene sempre più orientata – sia in termini di ricerca che di applicabilità – all’obiettivo cruciale di emulare/simulare l’intelligenza (come ripeto sempre, confusa e identificata con le capacità logiche e di calcolo, oltre che con il cd. problem solving), le menti umane[1] e il loro, non replicabile/non riproducibile, “prodotto complesso” ed emergente: il pensiero.

E già…il pensiero, questo pensiero, il “pensiero sul pensiero”, la “ricerca sul pensiero” – nonostante i tentativi, destinati al fallimento, di riprodurlo, emularlo, simularlo – talvolta, perfino, prototiparlo  – in tutta la sua complessità e indeterminatezza – è dimensione, da sempre, essenziale e di vitale importanza; dimensione, allo stesso tempo, (spesso) volutamente ignorata, svalutata, sminuita, considerata inutile, così poco rilevante per la civiltà dell’automazione “senza errore”, al punto di pensare di poterla delegare a sistemi artificiali e meccanici (pur sofisticati) e, in particolare, a quelli che sono modelli linguistici avanzati – addestrati e capaci di produrre (?) una conoscenza esclusivamente inferenziale, funzionale, statistico-probabilistica, una conoscenza decontestualizzata e dis-incarnata dai corpi, dalla memoria e dalle esperienze (il che – sia chiaro – non equivale a negare le potenzialità legate all’intelligenza artificiale);  una dimensione che, addirittura, si crede (?) di poterla far riprodurre/replicare dalle macchine intelligenti[2] e, più in generale, dai sistemi complicati, considerati quasi infallibili, in ogni caso, costantemente perfezionabili (à delega in bianco alla tecnologia à soluzionismo tecnologico*); una dimensione considerata così poco rilevante e determinante dal paradigma egemone della civiltà contemporanea, fondato su precise e funzionali “logiche di sistema” e, nello specifico, edificato su quelle che ho definito, in tempi non sospetti, “grandi illusioni della civiltà ipertecnologica e iperconnessa” (razionalità, controllo, misurazione, prevedibilità, eliminazione dell’errore), sull’automazione progressiva di qualsiasi tipo di meccanismo (l’aspirazione è quella di “gestire”, indirizzare e/o pre-determinare anche quelli sociali), oltre che sulla simulazione continua e sistematica, sulla più volte evocata marginalizzazione dell’Umano, in quanto “portatore” e potenziale creatore/produttore/esecutore dell’errore, di errori che i sistemi non possono “resettare”; già, proprio così, l’errore[3], da sempre, considerato, non “fonte di conoscenza e apprendimento”, bensì elemento da stigmatizzare, eliminare e rimuovere, anche dai processi educativi e formativi. Una prospettiva, a dir poco, disastrosa, come ripeto da quasi trent’anni.

Dicevo: un Umano, unico “detentore” della possibilità di sbagliare, di commettere “errori”, anche consapevolmente e volontariamente; un Umano “fattore” e “variabile complessa” di un’imprevedibilità, continua, sistemica ed emergente che, oltretutto, implica/comporta/richiede – necessariamente – assunzione di responsabilità[4]. Proprio quegli elementi – secondo tale paradigma – che debbono essere eliminati/rimossi per poter costruire sistemi sociali perfettamente funzionali, efficienti, prevedibili, gestibili, pre-determinabili, anche a livello dei singoli comportamenti sociali, individuali e collettivi.

Secondo tale visione, meccanicistica e tecnocratica, la Società e le organizzazioni vanno progettate e immaginate (?) come “macchine” perfette (e, quindi, non intelligenti) – o, per meglio dire, come “meccanismi” –, e non come “organismi”, sistemi ipercomplessi, quale esse sono. Di fatto, la “nuova natura” degli ecosistemi umani complessi. Se immaginiamo l’ecosistema globale come un immenso tessuto nervoso reticolare, i sistemi di intelligenza artificiale e i processi di automazione, progettati e realizzati da esseri umani, puntano proprio e sono finalizzati/funzionali a sostituire progressivamente le reti e i meccanismi umani e relazionali. L’ambiguità e l’ambivalenza, la multidimensionalità e l’imprevedibilità degli esseri umani mal si coniugano con gli assiomi della civiltà dell’automazione e degli algoritmi. Quegli stessi algoritmi, che non ammettono alcuna ambivalenza e ambiguità. E così…

E così, e non potrebbe essere altrimenti, nella civiltà dell’automazione e della “dittatura della concretezza”, dominano incontrastati i “fatti” – o quelli che etichettiamo come tali –, dominano incontrastati i “dati” – presentati come auto-evidenti, come “dati di fatto” – che, almeno secondo certe interpretazioni/narrazioni, fuorvianti, ingannevoli e molto interessate – oltre che in perfetta linea di continuità con le “grandi illusioni della civiltà ipertecnologica e iperconnessa” – sembrerebbero non richiedere più l’intervento, la preparazione logica, epistemologica e metodologica degli umani, la capacità di un pensiero sistemico e non più lineare/causale.

Secondo queste stesse narrazioni e prospettive interpretative, ben supportate da nuovi riduzionismi e determinismi, funzionali alla realizzazione di società tecnocratiche e distopiche, bastano i software e l’addestramento a saperli utilizzare e sono sufficienti i sistemi di intelligenza artificiale e/o, nello specifico, il machine learning, visto, presentato come “doping applicato al metodo scientifico” (sic!) e, metaforicamente, paragonato dallo stesso Pedro Domingos (ma anche da altri studiosi ed esperti) alla “spada con cui uccidere il mostro della complessità”. Tesi ed argomentazioni, quelle contenute nell’opera di Domingos – ma anche in altre pubblicazioni che hanno avuto un significativo successo editoriale –, che lasciano, tuttavia, trasparire inequivocabilmente una certa confusione, non soltanto terminologica e in termini di definizione operativa, per ciò che concerne lo studio e le ricerche sulla complessità ed i sistemi complessi. Una confusione che appare anche nell’analogia proposta e che riafferma, senza mezzi termini, quello che ho definito “errore degli errori”, vale a dire, il gigantesco e, per certi versi, atavico fraintendimento tra sistemi complicati e sistemi complessi, tra il mondo della vita e degli aggregati organici e il mondo tecnologico e dell’artificiale:

Per spiegare la potenza del machine learning, la cosa migliore, forse, è ricorrere ad un’analogia a basso contenuto tecnologico: l’agricoltura. In una società industriale, i beni sono prodotti nelle fabbriche: vuol dire che gli ingegneri devono capire esattamente come assemblarli a partire dalle loro componenti, come fabbricare le componenti stesse, e così via, fino alle materie prime. Un sacco di lavoro. I computer sono i beni più complessi (n.d.r. sic!) che siano mai stati inventati: progettarli, progettare le fabbriche che li costruiscono e i programmi che li utilizzano è un lavoro enorme. Per soddisfare una parte dei nostri bisogni, però, c’è un altro modo, molto più antico: lasciar fare alla natura. L’agricoltore pianta i semi, si assicura che ci siano acqua e cibo a sufficienza e aspetta la stagione del raccolto. Non possiamo immaginare una tecnologia che funzioni in maniera analoga? Certamente, ed è proprio quello che promette il machine learning. Gli algoritmi di apprendimento sono i semi, i dati sono il terreno e i programmi appresi sono le piante adulte. L’esperto di machine learning è come l’agricoltore: semina, irriga e concima il terreno, tiene d’occhio lo stato di salute del raccolto, ma per il resto non interferisce (n.d.r. significativo anche questo punto…anche a proposito del processo di marginalizzazione dell’Umano!). Non appena cominciamo ad analizzare il machine learning in quest’ottica balzano agli occhi due cose. La prima è che più dati abbiamo, più possiamo imparare. Niente dati? Nulla da imparare. Un sacco di dati? Molto da imparare (n.d.r. illusione della razionalità). La crescita esponenziale di montagne di dati disponibili è la ragione per cui il machine learning sta comparendo ovunque. Se lo si potesse acquistare al supermercato, sulla scatola ci sarebbe scritto “basta aggiungere i dati”. Il secondo elemento che balza agli occhi è che il machine learning è la spada con cui uccidere (sic!) il mostro della complessità. Con una quantità di dati sufficiente, un programma di apprendimento lungo poche centinaia di righe può generare senza problemi milioni di righe di codice, e può farlo a ripetizione, ogni volta per un problema diverso. Per il programmatore, la complessità si riduce in maniera fenomenale. Naturalmente, al mostro della complessità spuntano nuove teste non appena tagliamo le vecchie, proprio come all’Idra, ma all’inizio sono piccole, e il tempo che impiegano a crescere gioca a nostro favore[5].

Alcune delle affermazioni appena esposte sono, per certi versi, surreali dal momento che negano la valenza dell’errore, dell’imprevedibilità, della devianza, veri e propri elementi costitutivi del Sociale, dell’Umano, della Vita.

Ancora una volta, ritornano i “dati” e i “programmi di apprendimento” per ridurre la complessità, comprenderla/conoscerla in “maniera fenomenale”. Come se questa infinita disponibilità di dati (big data) fosse, già di per sé, “conoscenza”, con una netta sottovalutazione/non considerazione dei processi di significazione e di una mediazione logica, metodologica, epistemologica e, più in generale, teorica. “Dati” che sono, senz’altro, fondamentali (decisivi) ma che, ripeto sempre, vengono erroneamente presentati come “dati di fatto” e che, come ci insegnavano, appunto, nei vecchi corsi di metodologia della ricerca e di epistemologia “non parlano mai da soli”; di conseguenza, accanto al paradigma della civiltà ipertecnologica, non possono che dominare incontrastate – almeno, sempre secondo lo stesso paradigma egemone – e contare soltanto le competenze, le competenze digitali, il “saper fare”. Dimensioni necessarie ma, come ripeto da sempre, insufficienti, soprattutto in termini di approccio e di nuove epistemologie.

E, a tal proposito, ricordando la grandissima Hannah Arendt[6]:

Se la conoscenza (nel senso moderno di know-how, di competenza tecnica) si separasse irreparabilmente dal pensiero, allora diventeremmo esseri senza speranza, schiavi non tanto delle nostre macchine quanto della nostra competenza, creature prive di pensiero alla mercé di ogni dispositivo tecnicamente possibile, per quanto micidiale

E, storicamente, l’assenza/mancanza di pensiero può rivelarsi perfino pericolosa[7].

Di fondo, e in buona sostanza, in altre parole, si continua a non pensare alla costruzione, sociale e culturale, della Persona e del Cittadino; si continua a non pensare mai al “prendersi cura della Società”; in altre parole, si continua a non pensare mai al lungo periodo, ad un vero “cambiamento sistemico” che non può che originarsi e scaturire dal basso; e, fatto ancor più preoccupante, si continua a non pensare/a non avere consapevolezza dell’urgenza di “ripensare a come pensiamo”, al pensiero e, allo stesso tempo, al sistema di pensiero. Dominano incontrastati il “saper fare”, gli automatismi, l’ideologia della concretezza, l’ossessione della concretezza che, peraltro, ben si coniugano con l’ideologia e l’ossessione della semplificazione. Un’ossessione, quella della concretezza e della misurazione/quantificazione di ogni entità, fenomeno, processo e, perfino, emozione che, peraltro, non da oggi, pregiudica ogni possibilità di innovazione e cambiamento profondo; domina incontrastata l’esaltazione acritica della velocità* e del soluzionismo tecnologico di maniera, in ogni dimensione del Sociale e del Vitale[8].

In altri termini, domina incontrastata quella che ho definito, diversi anni fa, la “dittatura della concretezza”…The Tyranny of Concreteness (su cui ho lavorato molto): una dittatura, cognitiva e culturale, che, supportata dall’attuale architettura complessiva dei saperi e delle competenze*, ha portato con sé una cultura della valutazione, totalmente inadeguata e incapace di cogliere le dimensioni complesse e qualitative (!) non osservabili, le sfumature, le ambiguità, le contraddizioni, i conflitti, le ambivalenze, le coesistenze, tipiche dell’Umano, del Sociale, del Vitale.

Oltretutto, ormai, sembra proprio che il “pensare” (ma anche il pensiero, i pensieri, il sistema di pensiero, i sistemi di pensiero) che, come noto richiede “tempo” e capacità di astrazione (tra le tante dimensioni), ci renda poco veloci e, di conseguenza, poco “efficienti” secondo anche vecchi miti di certe culture organizzative. Vecchi miti che, al di là di certe narrazioni, e nonostante la maggior parte degli esperti, insieme allo stesso discorso pubblico, sostengano il contrario, non sono mai tramontati, anzi! E non posso non ripetermi, anche questa volta: “questione educativa e culturale”, da sempre! Vecchi miti del progettare, realizzare e gestire le organizzazioni e i sistemi sociali, che affondano le proprie radici proprio nell’erronea visione complessiva che porta, tuttora, a confondere sistemi complicati e sistemi complessi, meccanismi e organismi.

Eh già, il Pensare e il Pensiero: a cosa servono, che “utilità” possono avere per il genere umano se, in fondo, in fondo, allo scopo di diventare sempre più infallibili, quasi perfetti come le macchine (?), sempre più efficienti ed efficaci, stiamo puntando tutto – come organizzazioni e come sistemi sociali – su (iper)velocità, processi di simulazione e automazione; in tal senso, sono pienamente funzionali ed adeguati, l’obiettivo e le intenzioni – peraltro, apertamente dichiarati – di “istruire”(appunto!), educare (?), formare, quasi addestrare, soprattutto/esclusivamente, dei tecnici iper-specialisti[9] e/o, peggio ancora, dei “meri esecutori di funzioni e di regole[10]. Ecco perché, al di là di altri fattori di contesto da considerarsi, siamo rimasti molto indietro in termini di pensiero, di sistema di pensiero, di processi educativi e formativi, di (ri)progettazione/ripensamento della didattica e, perfino, della stessa ricerca. Perché continuiamo a educare e (de)formare al “pensiero disgiuntivo” che ci abilita a separare, dividere, isolare ciò che è (profondamente) unito, e non soltanto correlato e interdipendente, sminuendo e svalutando, oltretutto, ogni capacità di astrazione e immaginazione. Scomporre, isolare, semplificare (anche ciò che non è semplificabile) costituiscono da sempre le nostre risposte (semplici), i nostri illusori dispositivi di rassicurazione – ormai sempre più all’insegna di un soluzionismo tecnologico e delle immancabili spiegazioni riduzionistiche e deterministiche – rispetto alla trasformazione antropologica, alla (iper)complessità della vita e del sociale, e la nostra risposta a tale (iper)complessità.

E così, identificando, riconoscendo, rappresentando come separate, isolabili e scomponibili, le parti/gli oggetti/le entità, che sono sempre “relazioni” e “sistemi” costitutivi della realtà fenomenica, non esitiamo neanche un momento a chiudere, separare e recludere i saperi, le conoscenze, le esperienze, i vissuti. Operazione senz’altro non semplice, complicata, che, da sempre, segna l’evoluzione dell’azione sociale, delle organizzazioni, dei sistemi sociali, della VITA. Isolare, selezionare, distinguere/separare, recludere, ma anche ricomporre, ri-unire, ri-connettere: si tratta, in altri termini, di funzioni strategiche assolte proprio dai modelli educativi e culturali e dalle stesse forme di mediazione simbolica (Cassirer) (codici, linguaggi, cultura/e, diritto, comunicazione, religione, arte etc.) che, sostanzialmente, rendono anche meno evidenti i nostri limiti e la incompletezza. Tali processi e dinamiche mettono in luce, ancora una volta, la sostanziale inadeguatezza delle nostre istituzioni educative e formative e, più in generale, del nostro sistema di pensiero e dei paradigmi che ci hanno aiutato/accompagnato, fin qui, nel rendere leggibile e interpretabile la realtà, il mondo (apparentemente) “fuori di NOI”.

Educare e formare al pensiero disgiuntivo (cit.), rafforzare gli specialismi, creare saperi chiusi che impediscono qualunque dialogo e contaminazione (senza neanche arrivare alla trans-disciplinarità), è quanto meno paradossale in una fase delicatissima di transizione e di cambiamento dei paradigmi; in una fase, come detto, di “sintesi complesse” e di progressiva dissoluzione di qualunque confine, limite[11] e/o vincolo. Proprio alla luce di quanto appena detto, e in questa prospettiva, tra i vari ambiti/campi di studio, ricerca e azione, particolare importanza sta assumendo la riflessione, e la ricerca, sul rapporto/interazione/sintesi uomo-macchina: un rapporto e un’interazione visti, non soltanto in passato, anche in termini di “subalternità” dell’essere umano (nuovo Prometeo) all’universo delle macchine, peraltro da lui progettato e realizzato. Un essere umano che, in un’era in cui la Macchina è diventata (quasi) soggetto storico dominante, si riscopre “antiquato” e ridotto, come tutto la realtà fenomenica, a materia prima da manipolare[12]. I rischi sono notevoli e difficilmente valutabili, ma l’obiettivo, a mio avviso, è/dev’essere/deve rimanere quello di co-costruire le condizioni di una “sintesi complessa” che sappia finalmente portarci oltre la devastante separazione tra cultura e tecnologia, nella prospettiva di “ricomporre la frattura tra l’Umano e il Tecnologico”.

Come già detto, questo progressivo impossessarsi delle leve della propria evoluzione ci obbliga, pertanto, a ripensare l’Umano e la sua interazione, per certi versi, ambigua con la tecnica, il tecnologico e, nello specifico, con le macchine intelligenti (?), i robot, l’intelligenza artificiale e i nuovi ecosistemi così come si vanno strutturando: un’interazione complessa da cui non può/non potrà che scaturire una sintesi complessa di cui non siamo ancora in grado di valutare prospettive, sviluppi e implicazioni. Tuttavia, sempre a proposito, delle questioni “naturale versus artificiale” (“falsa dicotomia”), “Umano vs Tecnologico” e, nello specifico, con riferimento all’ “intelligenza artificiale”, confesso di essere, da sempre, estremamente critico verso il concetto stesso di “intelligenza artificiale” (1995 e sgg.), dal momento che si fonda sul presupposto erroneo che fa coincidere l’idea stessa/il concetto stesso d’intelligenza (oltre che il pensiero) con la capacità di calcolo e l’abilità nel trovare delle soluzioni a problemi (problem solving), spesso ripetitivi, sistematici e/o modellizzati.

E così viene da interrogarsi: in quale direzione stiamo andando? Talvolta, l’impressione, – ma, evidentemente, è più di un’impressione –, è quella di continuare a “navigare a vista”, in una condizione di razionalità sempre più limitata e ingestibilità delle dinamiche/dei processi. Nonostante le straordinarie scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche, non è in alcun modo aumentata la consapevolezza dei nostri limiti e della nostra incompletezza di “esseri umani”. Si tratta, in fondo, dei grandi paradossi della civiltà ipertecnologica e iperconnessa: una civiltà che, come detto più volte, si nutre della conoscenza ma anche delle illusioni della conoscenza[13]; si nutre di evidenze empiriche (pur importanti, decisive), sempre più definite/riconosciute come “oggettive” e auto-evidenti; allo stesso tempo, si nutre di dilemmi e certezze illusorie, senza la necessaria cultura della complessità e dell’imprevedibilità per affrontarli e metabolizzarli; infine, si nutre di paradigmi e modelli scientifici e, allo stesso tempo, di riduzionismi e determinismi sempre più egemoni, a fronte di una (iper)complessità crescente che, peraltro, continua a mostrarne, in maniera palese, limiti ed inadeguatezze. Illuminanti, a mio avviso, le parole di Giorgio Israel:

L’idea di razionalità è qualcosa di assai più vasto di quanto viene predicato dalle varie concezioni riduzionistiche. Dovrebbe essere chiaro che la battaglia per la difesa della razionalità – la quale non deve starci a cuore meno di certi suoi esagitati fautori di facciata – non ha assolutamente nulla a che fare con la difesa a oltranza di una metafisica materialistica. Al contrario, siamo convinti che l’affermazione di una visione autenticamente razionalistica e scientifica passi attraverso l’assunzione di un approccio fenomenologico e attraverso il rifiuto di presentare come risultati scientifici oggettivi le varie ideologie metafisiche, esplicite o latenti che esse siano. Questo punto di vista è certamente difficile – perché un atteggiamento ideologico è assai più comodo, soprattutto se mascherato da oggettivismo scientifico –, ma rappresenta l’unica maniera efficace di difendere la razionalità. Al cuore della metafisica materialistica, che mira a prendere in ostaggio la scienza e la razionalità, vi è la metafora della macchina vivente, intesa in un duplice senso: in quanto espressione dell’idea che l’uomo non è altro che una macchina, e come affermazione della possibilità di realizzare una macchina che diventa uomo. Forse è proprio qui che si manifesta, al suo grado più estremo, la mistificazione consistente nel far passare come risultati scientifici “positivi” quelle che non sono altro che credenze, aspirazioni o mitologie. […] Occorre, tuttavia, non dimenticare che la scienza non si nutre soltanto di oggettività, ma anche di metafisica e di mitologie, quanto meno come motivi ispiratori[14].

Come abbiamo visto, la civiltà ipertecnologica porta con sé, non soltanto straordinarie opportunità e potenzialità innovative, ma anche una serie di illusioni, le quali possono essere ricondotte all’idea che noi “esseri umani” saremo sempre più in grado – e sempre di più lo faremo – di delegare le nostre scelte e – aggiungo io – la nostra responsabilità a sistemi e dispositivi tecnologici: in altre parole, la dimensione del tecnologicamente controllato continuerà ad aumentare e, con essa, continuerà a diffondersi la certezza illusoria che il “fattore” umano, sociale e relazionale, siano sempre meno importanti, perché nel frattempo avremo (appunto) progressivamente delegato tutte le decisioni e le scelte alle tecnologie, agli algoritmi o ai robot.

Ci stiamo sempre più convincendo che il digitale, le intelligenze artificiali e le tecnologie possano risolvere tutto, possano preservarci da ogni pericolo, e ignoriamo un aspetto importante: il fattore umano è (e sarà) sempre decisivo dal momento che è dietro ogni processo, dietro ogni meccanismo, dietro ogni algoritmo. Ma – mi ripeto –, non è inutile ribadirlo: di fronte alle sfide dell’ipercomplessità, non possiamo che registrare la sostanziale inadeguatezza delle architetture che caratterizzano i nostri saperi e, con essi, la nostra Scuola e la nostra Università.

Questa tematica è così centrale, dal momento che ogni processo di innovazione tecnologica e di cambiamento ha sempre determinato, e sempre determinerà, elementi di stress e vulnerabilità nei sistemi; se non proviamo a correggere le “false dicotomie” e la sostanziale inadeguatezza degli attuali processi educativi e didattico-formativi (oltre alle questioni riguardanti la governance di scuola e università), tra altri vent’anni saremo ancora qui a parlare di come la tecnologia acceleri e di come la cultura non riesca a starle dietro. In una condizione, critica, di perenne “ritardo culturale”.

Come si può tentare, allora, di contrastare questa ritardo culturale sistemico, ormai, strutturale? Continuo ad esserne convinto, da sempre: solo lavorando, a fondo e in maniera radicale, sull’educazione, sui processi educativi, sulle istituzioni educative, sulla cultura della ricerca scientifica, sulle culture della valutazione (che, attualmente, orientano tutto), pensando al lungo periodo, e superando quello che ho definito il “grande equivoco”, oltre che le “false dicotomie”, il “pensiero disgiuntivo”, e certe storiche logiche di separazione. Temi e questioni di enorme importanza anche, e soprattutto, in termini di potere e di negoziazione dei processi e degli algoritmi (prodotti da umani!) – sempre più potenti e pervasivi – ma anche, e soprattutto, in termini di cittadinanza, inclusione e democrazia. Tra intelligenze (?) artificiali ed ecosistemi programmati per l’eterodirezione.

 

Immagine: Diagramma creato da Piero Dominici       #CitaregliAutori #QuoteTheAuthors

 

Per approfondire ulteriormente:

Dominici P. (2023), Oltre i cigni neri. L’urgenza di aprirsi all’indeterminato, FrancoAngeli, Milano 2023** (con prefazione di Edgar Morin).

**In corso di pubblicazione l’edizione in inglese con il titolo: Beyond Black Swans. Inhabiting Indeterminacy (Springer Nature – Scientific Series)

 

Dominici P. (2022), “Beyond Black Swans. Managing Complexity: A Contradiction in Terms?”, in Perko I., Espejo R., Lepskiy V., Novikov D.A. (eds) WOSC 2021. Lecture Notes in Networks and Systems, vol 495, Springer Nature, Cham.

 

Dominici P. (2024), Anatomies and Dynamics of the Society-Mechanism: Among Myths of Simplification, Facilitation, and Disintermediation, in Cepni E., Chaos, Complexity, and Sustainability in Management, IGI Global Publishing (2024) DOI: 10.4018/979-8-3693-2125-6.ch001.

 

Dominici P. (2024), Proprietà emergenti. Emergent Properties: dimensioni qualitative del Sociale e sfide epistemologiche dell’Intelligenza Artificiale, FarncoAngeli, Milano.

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Life, study and scientific research cannot be kept separate (an old illusion). And so, as always…

I share with pleasure a (very) short selection of scientific publications:

  1. “Anatomies and Dynamics of the Society-Mechanism: Among Myths of Simplification, Facilitation and Disintermediation”, in “Chaos, Complexity and Sustainability in Management”

Copyright: © 2024

ISBN13: 9798369321256ISBN13

DOI: 10.4018/979-8-3693-2125-6.ch001

#ScientificBooks #Series

 

📚Dominici P., “Human Hypercomplexity: Error and Unpredictability in Complex Multi-Chaotic Social Systems”,

in, 📚👉 Karaca Y., Baleanu D., Zhang Yu-Dong, Gervasi O., Moonis M. Eds., “Multi-Chaos, Fractal and Multi-Fractional Artificial Intelligence of Different Complex Systems”, #Elsevier, Academic Press, ISBN: 9780323900324 – 1st Edition – 2022.

#PeerReviewed

🌐➡️ https://academia.edu/resource/work/122389588

 

📚 Anatomies and Dynamics of the Society-Mechanism: Among Myths of Simplification, Facilitation and Disintermediation”

🌐➡️ https://academia.edu/resource/work/121248616

 

🌐🌎📚🏛️🎓 #news #PeerReviewed

I share with pleasure a new scientific publication… #UNESCO #ScientificJournal #research

🇺🇳📖🖋️ #Essay

📌➡️ “Sustainability Is Social Complexity: Re-Imagining Education toward a Culture of Unpredictability”, in “Sustainability”, 2023, 15,16719.

✅➡️ https://www.mdpi.com/2071-1050/15/24/16719

Academic #Editors: Henrique J.O. Pinho, Célio Gonçalo Marques, Luiz Oosterbeek and Dina

M.R. Mateus

🟨➡️ PDF https://mdpi-res.com/d_attachment/sustainability/sustainability-15-16719/article_deploy/sustainability-15-16719.pdf?version=1702278058

 

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📚🎓 Beyond the Emergency Civilization: The Urgency of Educating Toward Unpredictability”

in Higher Education in Emergencies: Best Practices and Benchmarking

ISBN: 978-1-80117-379-7, eISBN: 978-1-80117-378-0

🌐➡️ Here is the link to PDF:

➡️ https://academia.edu/resource/work/122389588

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“Democracy is Complexity. Social Transformation from Below”

#OpenAccess #PeerReviewed

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(2023), “Beyond the Emergency Civilization: The Urgency of Educating Toward Unpredictability”, Sengupta, E. (Ed.) Higher Education in Emergencies, Emerald Publishing Limited, Leeds, pp. 25-45. 

https://www.academia.edu/121247944/Beyond_the_emergency_civilization_the_Urgency_of_edUcating_toward_UnpredictaBility

 

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“From Emergency to Emergence. Learning to inhabit complexity and to expect the unexpected”, in

Pdf  https://academia.edu/resource/work/99942554

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Beyond the Darkness of our Age. For a Non-Mechanistic View of Complex Organization as Living Organisms” in #RTSA

The distinction between ‘society-mechanism’ and ‘society-organism’ – on which I have been working and doing research for many years – is linked to the confusion we continue to make, in educational, social, economic, social and cultural terms, between ‘complicated systems’ (manageable, predictable) and ‘complex systems’ (unpredictable, irreversible and marked by ‘emergent properties’).

La distinction entre “société-mécanisme” et “société-organisme” – sur laquelle je travaille et fais des recherches depuis de nombreuses années – est liée à la confusion que nous continuons à faire, en termes éducatifs, sociaux, économiques, sociaux et culturels, entre “systèmes compliqués” (gérables, prévisibles) et “systèmes complexes” (imprévisibles, irréversibles et marqués par des “propriétés émergentes”)”

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Dominici, P. The weak link of democracy and the challenges of educating toward global citizenship. Prospects (2022). UNESCO

Springer Nature – #PeerReviewed

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War, Complexity, and One-dimensional Thinking: Thinking is Acting à https://www.cadmusjournal.org/article/volume-4-issue-6/war-complexity-and-one-dimensional-thinking

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Research Article

The Digital Mockingbird: Anthropological Transformation and the “New Nature”, in World Futures.The Journal of New Paradigm, Routledge, Taylor & Francis, Feb. 2022.

https://doi.org/10.1080/02604027.2022.2028539

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“La Gran Equivocación: Replantear la educación y la formación virtual para la “sociedad hipercompleja”, in “Comunicación y Hombre”.Número 18. Año 2022

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Beyond the Darkness of our Age. For a Non-Mechanistic View of Complex Organization as Living Organisms” in RTSA

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”From Below: Roots and Grassroots of Societal Transformation, The Social Construction of Change”, in CADMUS, 2021

“That systemic change must begin from grassroots communities and single individuals and groups, and by definition can never be a top-down imposition, implicates a necessary rethinking of our educational institutions, which are still based on logics of separation and on “false dichotomies” (quote)

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”Educating for the Future in the Age of Obsolescence”,

This article was peer-reviewed and selected as one of the “outstanding papers” presented at the 2019 IEEE 18th International Congress.

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For an Inclusive Innovation. Healing the fracture between the Human and the technological*”  #PeerReviewed

               “Objects as Systems. The strategic role of Education”

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A New Paradigm in Global Higher Education for Sustainable Development and Human Security”, November, 2021 | BY G.JACOBS, J. RAMANATHAN, R. WOLFF, R.PRICOPIE, P.DOMINICI, A.ZUCCONI, in CADMUS

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”Controversies on hypercomplexity and on education in the hypertechnological era”

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”Communication and the SOCIAL PRODUCTION of Knowledge. A ‘new social contract’ for the ‘society of individuals’

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”Education, FakeNews and the Complexity of Democracy”.

“The real problems we are facing today are not the fake news, post-truths, deep fakes, or disinformation of various kinds and origins, but a socially constructed pre-disposition to conformism; in short, the decline of democracy. These are not problems merely of technology and cannot be solved by technology alone” (quote).

An approach and research since 1995


NOTE 

[1] Si veda, in particolare: Damasio A.R. (2021), Feeling & Knowing. Making Minds Conscious, trad.it. Sentire e conoscere, Adelphi, Milano 2022.

[2] Cfr. J. Dorrier, New Study Finds a Single Neuron Is a Surprisingly Complex Little Computer, in, “Singularity Hub”. Di seguito, il link: https://singularityhub.com/2021/09/12/new-study-finds-a-single-neuron-is-a-surprisingly-complex-little-computer/; S.Fan, How AI Is Deepening Our Understanding of the Brain, in “Singularity Hub”, 2021. Di seguito, il link: https://singularityhub.com/2021/11/23/how-ai-is-deepening-our-understanding-of-the-brain/

[3] Siamo tornati spesso, nel tempo e in diverse pubblicazioni (Dominici P., 1995-1996, 2005-2021), sulla rilevanza strategica dell’errore, sulla sua valenza di vitale importanza, non soltanto per i processi cognitivi e di apprendimento, ma anche, e soprattutto, per la ricerca e la conoscenza scientifica; per non parlare dell’importanza di “costruire una cultura dell’errore”, fin dai primissimi anni di scuola, portandola al centro dei processi educativi e formativi, oltre che della ricerca scientifica stessa. Eppure, l’errore continua ad essere stigmatizzato e ad essere definito/visto/riconosciuto come qualcosa da rimuovere ed evitare, a qualunque costa. Un grave…errore, appunto. Nella storia della Filosofia (e non soltanto), per esempio, l’errore è riconducibile, in genere, alla sfera del “giudizio”, e non a quella degli enunciati, nel quadro di un’intima correlazione con la ricerca della “verità”. In diverse teorie classiche, l’errore ha a che vedere con la mancata applicazione delle regole logiche e/o del conoscere e richiede/richiederebbe anche un criterio valido di giudizio. Può essere conseguenza dell’imperfezione della natura umana, di un atto di volontà e/o di sentimenti intervenuti nelle varie circostanze; allo stesso tempo, nelle scienze sociali può essere prodotto di/da processi sociali e culturali di negoziazione, di etichettamento e, più in generale, di costruzione sociale. Processi sociali e culturali – che si coniugano anche con il rifiuto e/o la mancata adesione al sistema di norme, valori, modelli di comportamento – nei quali, l’errore incontra alcune etichette/stigmi/concetti come quelli di devianza/anormalità/irrazionalità e con le dimensioni della prevedibilità dei comportamenti (attesi) – sempre segnati da arbitrio e convenzione come i codici, i linguaggi, i processi semantici e comunicativi. La Treccani definisce l’errore nei seguenti termini e con le seguenti specifiche., legate anche alle cd. “scienze esatte”: erróre [Der. del lat. error -oris, da errare “sbagliare”] Nel calcolo numerico, la differenza (positiva o negativa) tra il valore calcolato di un numero e il suo valore esatto, che si riscontra quando ci si limiti a un certo grado di approssimazione (per eccesso o per difetto, rispettiv.) ritenuto soddisfacente per un determinato fine, oppure quando un’approssimazione sia resa necessaria dalla natura stessa del calcolo. ◆ Dato sperimentale che non corrisponde a quello vero e anche, con signif. quantitativo, lo scarto di un tale dato o risultato dal valore o risultato vero o presunto tale: v. oltre: E. di misura. ◆ E. accidentale: v. oltre: E. di misura. ◆ E. apparente: nella teoria gaussiana degli e., lo stesso che e. assoluto: v. oltre: E. di misura. ◆ E. casuale: lo stesso che e. accidentale: v. oltre: E. di misura. ◆ E. derivato: v. misure fisiche: IV 51 a. ◆ E. di messa a fuoco dell’immagine: v. ottica geometrica: IV 388 d. ◆ E. di misura: generic., l’incertezza che deve considerarsi associata alla determinazione del valore di una grandezza in un dato procedimento di misura, sulla base della constatazione che, ripetendo più volte la misurazione della stessa grandezza con lo stesso procedimento, si ottengono in generale risultati diversi; tale incertezza è espressa specific. Dall’e. assoluto, differenza, con segno, tra la misura e il valore vero (o assunto tale) oppure, equival., dall’e. relativo, rapporto, eventualmente percentuale, tra l’e. di misura assoluto e il valore vero; quanto alla loro natura, si parla di e. sistematici, cioè che intervengono sempre e con la medesima entità, ed e. accidentali, per loro natura casuali sia come evenienza che come entità: v. misure fisiche: IV 48 b. ◆ E. di osservazione: lo stesso che e. di misura. Poi, non soltanto a livello di definizioni, anche in virtù e inconseguenza dei campi disciplinari di riferimento, esiste – come noto – una tipologia articolata di errori: “errore standard”, analitico, sistematico, relativo, casuale, assoluto, algoritmico, accidentale, Temi e questioni sui quali, ancora una volta, esiste una letteratura sterminata e multidisciplinare. Oltre a richiamare le altre parti della monografia in cui viene affrontata la questione, mi limito a segnalare, tra i “classici” su questi temi: Canguilhem G. (1966), Le normal et le pathologique, trad.it. Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998; Oppenheimer J.R, Scienza e Pensiero comune, Bollati Boringhieri, Torino 1965: altro “classico”, Oppenheimer, grande fisico e scienziato, parla di “scienza” come “scoperta degli errori” (pp.61-63). Tra le pubblicazioni più recenti, anche introduttive al tema ed alle numerose implicazioni correlate: Baldini M., Epistemologia e pedagogia dell’errore, La Scuola, Brescia 1986; Benes R. et al., Per una pedagogia dell’errore, Asterios, Trieste 2017; Dominici P., “Dentro la “civiltà senza errore”. Sintesi complesse: l’Umano, il legame sociale e la civiltà ipertecnologica”, in A. De Cesaris (a cura di), Vite digitali. Essere umani nella società del XXI Secolo, FrancoAngeli, Milano 2020. Tra i “classici”, segnalo anche: Bruner J.S., The Process of Education, Harvard University Press, Cambridge 1961, opera nella quale, tra le numerose questioni affrontate, si definisce e riconosce l’errore come elemento costitutivo dell’apprendimento.

[4] Dominici P., op.cit., 1995-1996, 2005 e sgg..

[5] Cfr. Domingos P. (2015). op.cit., pp. 29-30. Su tali questioni, si veda anche: Finn E. (2017), What algorithms want: immagination in the age of computing, trad.it., Che cosa vogliono gli algoritmi. L’immaginazione nell’era dei computer, Einaudi, Torino 2018.

[6] Come non ricordare, in tal senso, le parole di Hannah Arendt: “Restai colpita dall’evidente superficialità del colpevole, superficialità che rendeva impossibile ricondurre l’incontestabile malvagità dei suoi atti a un livello più profondo di cause e motivazioni. Gli atti erano mostruosi, ma l’attore risultava quanto mai ordinario, mediocre, tutt’altro che demoniaco e mostruoso. Nessun segno in lui di ferme convinzioni ideologiche o specifiche condizioni malvagie, e l’unica caratteristica degna di nota che si potesse individuare nel suo comportamento fu: non stupidità, ma mancanza di pensiero.”

[7] Cfr. Arendt H. (1958), The Human Condition, trad.it. Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1964.

[8] Ibidem.

[9] Si veda anche quella che ho definito la “Dottrina STEM”, “nuovo paradigma riduzionista”, perfettamente funzionale alla visione neoliberista delle istituzioni educative e formative. Cfr. in particolare: Dominici P., 1996-2021, op.cit.

[10] Dominici P., 1995-1996, 2005, 2014, 2021, op.cit., e sgg.

[11] Sul tema del “limite”, si veda in particolare: Bodei R., Limite, il Mulino, Bologna 2016

[12] In particolare, sulla questione complessa, e sempre attuale, della “subalternità” dell’essere umano alle macchine, rinvio ad un grande “classico”: Anders G.(1956), Die Antiquiertheit des Menschen, I: Über die Seele im Zeitalter der zweiten industriellen Revolution, trad.it. L’uomo è antiquato. Vol.I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2003; Anders G.(1980), Die Antiquiertheit des Menschen, II: Über die Zerstörung des Lebens im Zeitalter der dritten industriellen Revolution, trad.it. L’uomo è antiquato. Vol.I. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Si vedano anche: Brynjolfsson E., McAfee A. (2014), The Second Machine Age, trad.it. La nuova rivoluzione delle macchine, Feltrinelli, Milano, 2015; Cingolani R, Metta G., Umani e umanoidi, il Mulino, Bologna 2015.

[13] Sulla questioni legate alla “conoscenza” ed alle illusioni della conoscenza, si vedano: Sloman S., Fernbach P. (2017), The Knowledge Illusion. Why We Never Think Alone, trad.it. L’illusione della conoscenza, Cortina, Milano, 2018; Boorstin D. J. (1994), Cleopatra’s Nose. Essays on the Unespected, Vintage Books, New York; Boorstin D. J. (1998), The Seekers. The Story of man’s continuing quest to understand the world, trad.it. L’avventura della ricerca, Cortina, Milano 2002; Hustvedt S. (2016), The Delusions of Certainty, trad.it. Le illusioni della certezza, Einaudi, Torino 2018.

[14] Cfr. Israel G. (2004), op.cit., pp. 10-11. Su tali dimensioni, si veda anche l’interessante analisi contenuta in: Enriques F.(1906), Problemi della scienza, Bologna: Zanichelli 1985. Il matematico e storico della scienza Federigo Enriques, peraltro citato anche dallo stesso Israel, parla anche di un “sistema di immagini” che stimola “associazioni nuove” funzionali allo sviluppo della scienza. Dello stesso Autore, si veda anche: Enriques F., Il significato della storia del pensiero scientifico, Zanichelli, Bologna 1932.