Cigni neri e paradigmi inadeguati.

Pubblico alcuni parti estratte dalla monografia scientifica “Oltre i cigni neri. L’urgenza di aprirsi all’indeterminato”, FrancoAngeli, 2023 – con la prefazione di Edgar Morin.

 

Permettetemi alcune considerazioni preliminari.

Paradossalmente, proprio in Italia (scrivo “paradossalmente” perché la monografia scientifica è stata pubblicata, per il momento, soltanto in italiano), questo libro è, senz’altro, quello di cui meno si parlato e discusso, in questi ultimi tre anni e non soltanto in ambito accademico e mediatico.

Ancor di più, nello specifico, tranne rarissime eccezioni, i colleghi italiani dei settori scientifico-disciplinari (SSD) a me più affini, lo hanno completamente/volutamente (?) ignorato, non soltanto nelle fasi di valutazione della carriera accademico-scientifica, anche per ragioni facilmente intuibili. Eppure, ogni volta che mi son trovato e mi ritrovo all’estero, al di là dell’effettivo contributo/valore dell’opera stessa, il solo fatto che sia presente la prefazione di Edgar Morin, apre/ha sempre aperto, dischiude/ha dischiuso puntualmente, sistematicamente, scenari e opportunità meravigliose di dibattito e collaborazione scientifica.

A tal proposito, preciso come mi tocchi operare (ancora) queste arcaiche, oltre che sanguinose, distinzioni perché, proprio nel nostro Paese, con particolare accuratezza e sofisticazione, ci siamo inventati di tutto per ostacolare la multi/inter/transdisciplinarità costringendo, di fatto, chi studia  e fa ricerca a parlare e collaborare (?) solo con i propri “simili” (stessi SSD).

Un danno sistemico incalcolabile, che denuncio da tre decenni (oltre ad avermi ripetutamente danneggiato, insieme con altri colleghi e colleghe che, come me, abitano le zone di confine e, in particolare, la ricerca trans-disciplinare) e che, anche ammesso che si decida di cambiare direzione/prospettiva/strategia/politiche, ci porteremo dietro per molti altri decenni ancora.

Educazione e formazione alla razionalità ed al controllo (totali), mono-disciplinarismo e iperspecializzazione sono tuttora gli “assi portanti” di una cultura egemone all’interno delle nostre amate istituzioni educative e formative (svuotate delle loro funzioni essenziali, vitali anche per le democrazie!), oltre che dello stesso ecosistema della ricerca e della conoscenza** (1995 e sgg.).

E, quando verifichi che, per anni e anni, colleghi e colleghe promuovono libri e pubblicazioni di tutti i generi, anche non accademico-scientifici, tranne i tuoi. Comprendi bene la criticità della situazione. Una ragione (sistemica) profonda c’è sempre. Ma la passione fa oltrepassare ogni ostacolo e/o condizione di sostanziale isolamento.

Come non rilevare, da questo punto di vista, che, tranne la significativa recensione di Mauro Ceruti, filosofo ed epistemologo di fama internazionale, apparsa sull’inserto culturale “Domenica24” de Il Sole24Ore, non c’è stata traccia neanche nei social, eccezion fatta per alcune pagine gestite da insegnanti di Scuola interessati.

Eppure, nonostante questo silenzio assordante e questo isolamento, tra pochi giorni, l’opera – frutto di anni di studi e ricerche – sarà pubblicata dal prestigioso editore accademico-scientifico Springer Nature; allo stesso tempo, Oltre i cigni neri è in corso di traduzione in altre lingue ma, soprattutto, è stata presentata e dibattuta, più volte, in diversi contesti internazionali.

A tal proposito, una delle prossime conferenze UNESCO, in primavera, si aprirà proprio con la presentazione dell’edizione inglese “Beyond Black Swans. Inhabiting indeterminacy”, Springer Nature, January 2026.

Nel lasciarvi ai brani estratti, auguro buon lavoro e buona ricerca a tutti/e!

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Cigni neri e paradigmi inadeguati..

La nostra vita è emergenza, è permanente relazione, sequenza infinita, e non lineare, di processi dinamici in cui l’emergente si manifesta in tutti i modi possibili e inimmaginabili, imprevedibili. La nostra vita è “sequenza infinita di tanti cigni neri”[1], secondo la vecchia metafora già in uso presso gli antichi: “cigni neri” dalle numerose sfumature, segnati da un’ambivalenza originaria e da contraddizioni apparentemente insanabili. A tale proposito, si ha la netta sensazione che, spesso, a tutti i livelli di azione della prassi organizzativa e sociale, coloro i quali, in presenza di situazioni/dinamiche sfuggite al loro controllo, insistono sulla questione/metafora del “cigno nero”[2], dell’evento unico e imprevedibile o, comunque, altamente improbabile, non cerchino/non facciano altro che operare/costruire delle (“classiche”) razionalizzazioni a posteriori in grado di rassicurare gli altri e sé stessi rispetto al fatto che, nonostante qualche episodio, tutto rimane sotto controllo, gestibile e prevedibile. E così, la vecchia “illusione del controllo” – di impadronirsi del caso e del proprio destino – continua ad occupare una posizione di assoluta egemonia, non soltanto in termini di immaginari organizzativi e sociali, nonostante le evidenze ne abbiano mostrato la profonda inconsistenza e inadeguatezza. Al contrario, la vita sociale e umana è caratterizzata da infinite sequenze, non lineari, di cigni neri. Errore, imprevedibilità, complessità e dinamismo sistemico ne sono gli elementi costitutivi.

L’emergenza globale sistemica del 2020 (tuttora, in continua evoluzione), l’ennesima “emergenza” con caratteri di globalità, senz’altro più importante, sistemica e invasiva di altre, ha evidenziato, ancora una volta, una serie di questioni e di vulnerabilità sistemiche anche, e soprattutto, in termini di approccio e metodologia, di scelte e strategie da adottare. E, così, a fronte di una ipercomplessità sempre più evidente e riconoscibile che, tuttora, connota il mutamento e che trova drammaticamente impreparate, in primis, le istituzioni educative e formative; a fronte di una crescita esponenziale delle interdipendenze / interconnessioni / interazioni/ condizionamenti / retroazioni che innervano fenomeni e processi, assistiamo, da tempo e quasi paradossalmente, al dominio/egemonia di analisi/spiegazioni riduzionistiche e deterministiche e al ritorno di una visione/concezione neo-positivistica del reale e della realtà. E, come spesso accade in presenza di emergenze globali e sistemiche, da più parti sono state evocate la (iper)complessità dei processi e delle dinamiche in corso e l’urgenza di un approccio sistemico a questa stessa complessità, spesso confusa e maltrattata, non soltanto a livello semantico e terminologico; purtroppo, ancora una volta, si è trattato di evocazioni utilizzate più come slogan che come percorsi verso una rinnovata consapevolezza e verso strategie, finalmente, sistemiche e transnazionali! Come puntualmente accade nelle situazioni di emergenza e/o di fronte a crisi/disastri di qualsiasi genere, stanno tutti riscoprendo e riconoscendo – al valore della Scienza e della conoscenza scientifica e, più in generale e ad un altro livello, della preparazione e dell’esperienza sul campo – la rilevanza cruciale e la centralità strategica di educazione, libertà, responsabilità (individuale e collettiva – ripeto ogni volta: concetti relazionali), della ben nota “questione culturale”; in altri termini, stanno tutti ri-scoprendo e riconoscendo – come sempre capita in queste situazioni – il ruolo fondamentale assunto dai fattori/dalle variabili sociali e culturali. E, con essi, anche il peso/ruolo che, da sempre, hanno la paura, le paure, le emozioni, i sentimenti, la cultura dell’indifferenza, le culture del rischio e dell’emergenza, oggi più che mai alimentati da un ecosistema dell’informazione e della comunicazione progettato soprattutto per essere veloce e virale, secondo logiche di controllo e sorveglianza ormai ben note.

A tali considerazioni, si aggiunga, come affermato da Bauman:

L’incertezza è l’habitat naturale della vita umana, sebbene la speranza di sfuggire ad essa sia il motore delle attività umana. Sfuggire all’incertezza è un ingrediente fondamentale, o almeno il tacito presupposto, di qualsiasi immagine composita della felicità. È per questo che una felicità “autentica, adeguata e totale” sembra rimanere costantemente a una certa distanza da noi: come un orizzonte che, come tutti gli orizzonti, si allontana ogni volta che cerchiamo di avvicinarsi a esso[3]

E così, tra cambiamento dei paradigmi e trasformazione antropologica (1996), stiamo assistendo/vivendo – con poca consapevolezza – il ribaltamento (the Overturn) dell’interazione complessa tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale*[4] (ibidem): una questione profonda anche, e soprattutto, in termini di “cultura della comunicazione” (1996), resa ancor più complessa, e problematica, dall’assenza di un sistema di pensiero e di un modello teorico-interpretativo in grado di osservare, riconoscere e comprendere l’ipercomplessità e l’irruzione, per certi versi, prepotente del caos[5].

Accade così che questa nuova complessità sociale definisca le condizioni strutturali per l’affermazione di un sapere riflessivo che deve fare i conti con la crisi del pensiero, dei paradigmi conoscitivi e con l’incapacità di promuovere soluzioni accettabili. I sistemi di orientamento conoscitivo e valoriale si mostrano inadeguati rispetto ad una realtà sociale costantemente in evoluzione, costituita da sistemi complessi – “organismi” e non “meccanismi” – a loro volta segnati da un’estrema sensibilità alle perturbazioni (ambientali ed ecosistemiche), da proprietà e dimensioni non osservabili in partenza, capaci di auto-organizzarsi, di evolvere in maniera irreversibile e tutt’altro che lineare e prevedibile[6].

Se fino a qualche tempo fa, il problema era proprio quello di riconoscere e prendere atto della “natura” complessa e irriducibile della complessità, attualmente la questione sembra (è) essere quella di continuare a sottovalutare la dimensione fondante e fondativa del pensiero.

Proprio in questa prospettiva e nella consapevolezza di questa continua e sistemica azione di sottovalutazione di fattori e variabili determinanti, non posso che continuare a ripetere “tempi duri, durissimi per il pensiero”, e non soltanto.

(Continuano) Tempi duri, molto duri, per il pensiero, per chi propone un pensiero e/o un sistema di pensiero, per chi “pensa” tentando di uscire da certe narrazioni fin troppo rassicuranti o, al contrario, catastrofistiche, per chi pensa concretamente (quasi un ossimoro di questi tempi) che, per ripartire (verbo da metafora meccanicistica) e pensare davvero al “lungo periodo”, si debba/si sarebbe dovuto mettere mano, in maniera radicale, all’educazione e alla ricerca sull’educazione e la didattica; tempi duri, molto duri – ed, evidentemente, non mi riferisco soltanto a queste settimane di emergenza globale, così difficili e critiche – che hanno ridato fiato e forza a vecchie narrazioni semplificatrici, riduzionistiche e deterministiche, anche del digitale e della civiltà iperconnessa.

Tempi duri, durissimi, per chi continua ad insistere sul lungo periodo, sull’urgenza di creare una cultura della responsabilità e della prevenzione, ripartendo, evidentemente, mi ripeto ancora una volta, da educazione, formazione, ricerca, liberandole da mono-disciplinarismo, logiche di reclusione dei saperi e false dicotomie; tempi duri, durissimi, per chi riflette e studia la crisi del pensiero (non delle parole e dei linguaggi), in atto da molto tempo, in tutte le sue sfumature e declinazioni.

Una dimensione assolutamente sottovalutata, ormai da qualche decennio, anche perché il pensiero, così come il teorico (teoria vs ricerca/pratica, altra falsa dicotomia…si alimentano vicendevolmente), l’astratto, perfino la speculazione, oltre ad essere visti e percepiti, non soltanto dalle opinioni pubbliche, come del tutto “inutili”, sono destinati a “perdere”, comunque e sempre, nel confronto, peraltro fuorviante e ingannevole, con tutto ciò che è immagine, con tutto ciò che può essere visualizzato, rappresentato (un po’ quello che è successo, negli anni, ai libri di testo delle scuole) in dati e statistiche che – meglio, per chiarezza, esplicitarlo ogni volta – considero e sono fondamentali, e non soltanto per affrontare questa pandemia e le future emergenze sistemiche.

Ma questa pandemia mai conclusa, questa serie di pandemie, hanno messo in luce numerose inadeguatezze e vulnerabilità, individuali, soggettive, personali, sistemiche, strutturali che, tuttavia, per tutta una serie di ragioni sociali, storiche e culturali (su cui siamo tornati spesso), continuiamo ad affrontare secondo approcci riduzionistici e deterministici. E, forse (evidentemente, per chi scrive, il ‘forse’ si potrebbe anche eliminare), questa è una fase di crisi (attraversamento/passaggio/transizione) del pensiero – lo stesso Edgar Morin è tornato su questa dimensione fondante – e di assenza di un “sistema di pensiero”[7], che arriva da molto lontano.

È a questo livello dell’analisi che si comprende bene e si può avere l’ennesima conferma, ancora una volta, di quanto tutti i discorsi sul cambio di paradigma, sulla trasformazione antropologica, sull’importanza delle contaminazioni tra i saperi e tra le competenze; sull’importanza della filosofia e della formazione umanistica-politico-sociale, sull’urgenza di ricomporre la frattura tra l’Umano e il Tecnologico, tra la formazione umanistica e la formazione scientifica; sull’approccio alla complessità e l’urgenza di una visione sistemica; sull’importanza di un’innovazione inclusiva e di costruire una cultura (anche) del digitale per abitare il digitale (1996), la “nuova Natura” ecosistemica. E potrei continuare all’infinito: si comprende bene e si può avere l’ennesima conferma di quanto tutti i discorsi, più o meno illuminati, e le “narrazioni” di questi anni su questi argomenti fossero soltanto, nella migliore delle ipotesi, buone intenzioni, mai concretizzate, in cui non si è mai creduto seriamente.

Temi e questioni alla moda da cavalcare, di volta in volta, per mostrarsi/dichiararsi sempre pronti e preparati su tutto e a tutto, sempre “esperti” di tutto e del tutto. Abbiamo visto e stiamo vedendo ancora, come si proceda, anche nel corso di questa emergenza globale e sistemica. Fino alla prossima emergenza, fino al prossimo “cigno nero”.

Le conseguenze di questa miopia sistemica e di questa sottovalutazione/non considerazione non sono, evidentemente, per chi pensa o prova a porre la questione dell’urgenza di un pensiero “altro” (passatemi la semplificazione “vero”) e/o di un “sistema di pensiero” – che, mi ripeto, deve/dovrebbe andare, non da oggi, di pari passo con la riforma radicale di educazione e didattica; non sono per chi studia e fa ricerca su tali temi e questioni che, ancor di più, se sganciato, autonomo e indipendente dai partiti, non trova mai spazio nei gruppi di cd. esperti coinvolti. Le conseguenze – bene esser chiari – sono per le Persone e le collettività, la qualità dei processi educativi e delle istituzioni, della democrazia stessa. Ancor di più in questi momenti di straordinaria, continua e sistemica emergenza.

Pur conoscendo e comprendendo le logiche dell’emergenza, tornano ancora più forti e invasivi i discorsi e le narrazioni legate alle “grandi illusioni della civiltà ipertecnologica”[8]. Tutto è osservabile (?), misurabile in termini quantitativi – appunto, quantificabile – e, di conseguenza, tutto è prevedibile (tranne i “cigni neri”), addirittura controllabile e pre-determinabile, attraverso i sistemi di intelligenza artificiale. Di conseguenza, servono/contano solo i ‘fatti’(?) o, per meglio dire, ciò che riconosciamo come “fatti”, sulla base di ipotesi e teorie che, in quel momento, ci appaiono convincenti e, almeno in apparenza, efficaci; contano solo i “dati” presentati come “dati di fatto”, anche se mancano variabili, correlazioni o evidenze certe (oltre che le cd. note metodologiche) e, anche per queste ragioni, nessuno è in grado di prevedere con assoluta certezza l’evolversi, tutt’altro che lineare, di questa pandemia (serie di pandemie) e di altre emergenze sistemiche; non da oggi, e nonostante le consapevolezze acquisite, da tempo, sulle caratteristiche/dimensioni dell’osservazione scientifica e sul ruolo dell’“osservatore”, è tornato forte, oltre che egemone, in molti ambienti organizzativi e istituzionali, il famoso “principio di oggettività”, che, fin da subito, riconosce e attribuisce alla Scienza l’obiettivo fondamentale (appunto) di osservare e indagare i “fatti” nella loro pura ed essenziale oggettività, senza alcuna contaminazione/ingerenza da parte del Soggetto; in fondo, si tratta del principio costitutivo dell’epistemologia della Scienza moderna, poi, in qualche modo, demolito proprio da alcuni grandi scienziati; un principio epistemologico, poi tradotto anche in culture pedagogiche e organizzative, che tuttora ha profonde implicazioni in tutti gli ambiti della prassi organizzativa e sociale: si pensi all’egemonia della tecnocrazia ed al ruolo/alle tipologie degli “esperti” coinvolti nei processi decisionali.

E così, per la civiltà ipertecnologica e iperconnessa, non possono che servire/contare soltanto certi “saperi utili”, soltanto le competenze tecniche, il saper fare, il know how, e i tecnici iperspecializzati, insomma, contano solo e soltanto il “saper fare/saper eseguire”, il cd. know how, il problem solving; contano, solo ed esclusivamente, certe “competenze” e – mi ripeto – una certa visione tecnocratica e, ormai anche ideologica, dei saperi, delle competenze, della conoscenza, della Società[9].

Tutte dimensioni fondamentali e imprescindibili, ci mancherebbe, altrimenti non se ne viene fuori, a maggior ragione in questa fase così critica e dai numerosi risvolti imprevedibili. La questione ineludibile, che continua a condannarci all’inadeguatezza ed al ritardo culturale, è la sistematica sottovalutazione e non considerazione delle dimensioni altre dei sistemi complessi, delle emergenze che li connotano/strutturano, e, allargando ulteriormente lo sguardo, delle dimensioni e variabili che segnano le nostre vite/esistenze, molto spesso non osservabili in partenza. E, così, continuando a seguire questa prospettiva, a dir poco, miope e inadeguata, accade che si continui a pensare (?) che servano/contino/debbano essere coinvolti soltanto quei saperi e quelle competenze che sono in grado, almeno a loro dire, di semplificare, facilitare o, comunque, “mostrare”/rappresentare/alimentare immaginari e immaginazioni su come, nonostante tutto, qualsiasi problema/emergenza sia facilmente gestibile, controllabile, risolvibile.

 

  1. Semplificare tutto, anche ciò che non è semplificabile

Le società e le democrazie tecnocratiche, attraverso l’automazione, il digitale e i sistemi di intelligenza artificiale (straordinarie opportunità, mi ripeto), intendono andare proprio in questa direzione che, in buona sostanza, è quella di progettare e realizzare le organizzazioni e i sistemi sociali, non come “organismi” aperti, dinamici, complessi e in continua evoluzione (quali essi sono), bensì come fossero “macchine” e ingranaggi perfetti o, comunque, sempre perfettibili, all’interno dei quali è possibile pianificare e predeterminare ogni azione, ogni scelta, ogni comportamento, ogni strategia. Sullo sfondo, torna, ancora una volta, l’utopia/la distopia di costruire una civiltà senza errore e di una Società-Meccanismo* che non prevede/non accetta/non consente alcuna forma di imprevedibilità, di a-normalità e/o devianza dalla norma; anche se la distopia peggiore, senz’altro la più inquietante, è quella di voler ridurre l’essere umano a macchina, una macchina apparentemente “perfetta”, incapace di commettere errori e, soprattutto, sempre meno consapevole delle proprie fragilità e vulnerabilità; ancora una volta, torna quello che ho definito “l’errore degli errori” (1995-1996): la confusione tra “sistemi complicati” e “sistemi complessi” che tanti effetti, a dir poco, negativi ha prodotto nel tempo.

A tal proposito, dopo tanti anni di studi e ricerche, oltre che di esperienza, ho la netta sensazione che, spesso, un po’ a tutti i livelli di azione della prassi organizzativa e sociale, quelli che, in presenza di situazioni/dinamiche sfuggite al loro controllo (illusione del controllo), insistono sulla questione/metafora del “cigno nero” (e non mi riferisco, evidentemente, a Taleb ed al suo famoso The Black Swan), dell’evento unico e imprevedibile o, comunque, altamente improbabile, non cerchino/non facciano altro che – lo ribadisco – operare/costruire delle (“classiche”) “razionalizzazioni a posteriori”, in grado di tranquillizzare e rassicurare gli altri e sé stessi rispetto al fatto che, nonostante qualche episodio, tutto rimane “sotto controllo” e prevedibile. Ancora una volta, non riusciamo a fare i conti e prendere consapevolezza dei “fattori” e delle “variabili” che, non da oggi, ci condannano all’impreparazione e all’inadeguatezza.

Come ripeto spesso: da qualche tempo, tutti parlano di pensiero critico, di critical thinking, di cambio di paradigma/i (sic!), di complessità, di sistemi complessi, perfino di centralità della Persona e/o del Cittadino; tutti, ma proprio tutti, parlano/scrivono/dibattono di contaminazioni dei saperi, di interdisciplinarità e multidisciplinarità, di contaminare formazione umanistica e formazione scientifica, senza neanche studiare/prepararsi/documentarsi un po’, incorrendo in propagandistici slogan e clamorose imprecisioni, non soltanto terminologiche. Discorsi e testi di ogni genere che, poi, al di là dell’uso affascinante e persuasivo delle parole, continuano – a dir poco – a sottovalutare, a non considerare, le dimensioni della ipercomplessità di cui parlano. Oltre le parole, i video, le apparizioni mediatiche e sulla stampa, magari con meravigliosi ed emozionanti discorsi, al momento dell’applicazione e della traduzione operativa di quegli splendidi discorsi o campagne di marketing sociale, emerge subito chiaramente come si tratti soltanto di narrazioni e/o discorsi di facciata (per usare un eufemismo). Per fare un esempio, tra i tanti possibili: per ‘fare innovazione’ (con tutte le sfumature e il portato ideologico della parola) bastano dati, tecnologie e, soprattutto, tecnologi. Tutt’al più il problema è l’adeguamento normativo e giuridico: quindi, si punta tutto sul coinvolgimento esclusivo di giuristi o esperti di diritto, oltre a quello inevitabile di informatici e, più in generale, di competenze e saperi tecnici. Ma quale innovazione sociale e culturale si può promuovere e/o attivare in questo modo? Evidentemente, soltanto un’innovazione esclusiva, imposta, come sempre storicamente avvenuto, dall’alto, da élites più o meno illuminate.

Da decenni, più o meno tutti scriviamo, dibattiamo (?) e parliamo di questi temi, (poi c’è anche chi li studia e fa ricerca, con rigore e metodo), eppure dove ci ritroviamo? A che punto siamo arrivati? Ogni volta facciamo i conti con (appunto) evidenze empiriche, dati e ricerche (UNESCO, OCSE, Istat, Censis etc.) che sottolineano/evidenziano, puntualmente, il nostro ritardo strutturale e sistemico, sotto ogni punto di vista. Tutti (quasi tutti) coloro che hanno responsabilità di potere e decisione, ricadono da decenni in questa impostazione fuorviante e ingannevole che, tra le tante conseguenze, continua/continuerà a riprodurre quel ‘modello’ di innovazione tecnologica imposta dall’alto e senza una “cultura della complessità” che la supporti in alcun modo; un’impostazione che non permetterà mai ad organizzazioni complesse ed ecosistemi di metabolizzare la trasformazione tecnologica che, come ripetuto più e più volte, produce/innesca/determina – anche se non si tratta di “nesso di causalità” – una trasformazione che è, soprattutto, antropologica.

E così: altro che “costruzione dal basso” (altro concetto sempre evocato), altro che cambiamento sistemico[10], altro che innovazione sociale, altro che cittadinanza (digitale e non) e democrazia partecipata, altro che politiche e lungo periodo; stiamo andando, e da tanti anni, nella direzione diametralmente opposta, secondo le tradizionali logiche di controllo (logiche di breve periodo) ed emergenza.

Tutto intorno a noi sembra muoversi freneticamente, per le tante narrazioni e la sistematica stimolazione operata da uno storytelling fantasmagorico e ben costruito, ma su tante questioni tutto è, sostanzialmente, fermo. Torna e ritorna – la richiamo, parafrasandola – una celebre e vecchia “figura” filosofica: l’eterno ritorno dell’identico a sé stesso.

Vedrete quanti, anche questa volta, diranno di averlo sempre “pensato” (!) e sostenuto, pur mancando le “prove” a sostegno e, quelle esistenti, affermando (spesso) tesi e visioni diametralmente opposte (mi riferisco ad articoli/testi scritti, interviste, pubblicazioni scientifiche e/o divulgative etc. etc.). Aggiungo e, in questi casi, torno sempre a chiedermi in relazione al conformismo dilagante ed all’assenza di un pensiero critico sull’innovazione: ma se queste idee/tesi/critiche sono state sempre dette e praticate (?) – un discorso che riguarda anche le questioni della multi/inter/trans-disciplinarità e del pensiero critico (ops… critical thinking), non soltanto dentro le istituzioni educative e formative – ma, come mai, siamo fermi a (oltre) vent’anni fa e continuiamo, su molte questioni, a navigare a vista e a farci trovare del tutto impreparati e inadeguati rispetto all’emergente, all’inatteso e all’imprevedibile?

Un’emergente emergenza e una prevedibile imprevedibilità che – mi ripeto – sono caratteristiche strutturali, ontologiche, dimensioni fondanti della complessità, anzi della ipercomplessità. Del nostro essere “esseri viventi, umani, sociali”.

Ancora una volta, nonostante gli straordinari avanzamenti nel campo della ricerca scientifica e delle tecnologie, siamo/abitiamo il tempo della massima imprevedibilità, incertezza, precarietà e, soprattutto, il tempo della radicale obsolescenza di tutte le dimensioni e i processi che caratterizzano l’azione sociale e la vita umana. Pensieri, saperi e competenze compresi.

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[1] Cfr. Dominici P., op.cit., 1996-2020.

[2] Non mi riferisco, evidentemente, a Nassim Nicholas Taleb e alla sua famosa opera The Black Swan. Il noto saggista, accademico e operatore di borsa di origini libanesi, Autore anche di Giocati dal caso (e di altri saggi), mettendoci in guardia dalle convinzioni inconfutabili, soltanto perché confermate dalle “evidenze empiriche” (su questi temi, la letteratura scientifica è sterminata, oltre che multidisciplinare), definisce in modo chiaro e netto il “Cigno nero” (scritto, volutamente, con la prima lettera maiuscola): si tratta di un (a) “evento isolato”, al di fuori delle “normali aspettative” (aggiungo: si comprende bene, ancora una volta, il peso dei processi sociali di rappresentazione sociale, di percezione sociale e di “accettabilità sociale” del rischio, dell’imprevisto, dell’improbabile cfr. anche Dominici P., op.cit., 2010); un evento con un (b) “impatto enorme” che, inevitabilmente, spinge noi umani ad (c) elaborare/fornire giustificazioni a posteriori della sua comparsa, “per renderlo spiegabile e prevedibile” (vedi p.11). Aggiungo: nell’illusione di poterlo rendere spiegabile e, soprattutto, prevedibile. Taleb N.N. (2007), The Black Swan, trad.it. Il cigno nero, come l’improbabile governa la nostra vita, Il Saggiatore, Milano 2007. Si veda anche: Boorstin D.J. (1994), Cleopatra’s Nose. Essays on the Unespected, Vintage Books, New York.

[3] Cfr. Bauman Z., The Art of Life, Polity Press, Cambridge 2008

[4] Dominici P. (1995-1996) e sgg., op.cit.

[5] Ibidem.

[6] Cfr in particolare: Dominici P., 2005, 2014, 2019, op.cit.

[7] Cfr. Dominici P., (1995-1996) (2003), op.cit., e sgg.

[8] Per ragioni di chiarezza le ricordo, anche in questo caso: razionalità, controllo, prevedibilità, misurabilità, eliminazione dell’errore.

[9] Cfr. Dominici P. (1995-1996), 2014, 2019, 2021, 2022, op.cit.

[10] Su tali questioni, rinvio, in modo particolare, a due recenti articoli scientifici: 1) Dominici P., Beyond the Darkness of our Age. For a Non-Mechanistic View of Complex Organization as Living Organisms, «Rivista Trimestrale di Scienze dell’Amministrazione», 2022. Di seguito, il link: http://rtsa.eu/RTSA_2_2022_Dominici.pdf?fs=e&s=cl; 2) Dominici P., “From Below: Roots and Grassroots of Societal Transformation, The Social Construction of Change”, «CADMUS», World Academy of Art and Science, 2021. “That systemic change must begin from grassroots communities and single individuals and groups, and by definition can never be a top-down imposition, implicates a necessary rethinking of our educational institutions, which are still based on logics of separation and on “false dichotomies” (quote). Di seguito, il link: http://cadmusjournal.org/article/volume-4/issue-5/essay5-social-construction-change.