La società asimmetrica* e la centralità della “questione culturale”: le resistenze al cambiamento e le “leve” per innescarlo

L’evoluzione degli ecosistemi sociali (1996) sta lentamente progredendo verso una ridefinizione delle asimmetrie, che porta con sé l’esigenza di un “nuovo contratto sociale” (2003). Pur essendo letteralmente esplosa la dimensione di ciò che è tecnicamente controllato e controllabile (interconnesso e interdipendente), non possiamo non rilevare come vulnerabilità e imprevedibilità si rivelino sempre più condizioni empiriche delle organizzazioni e degli attuali sistemi complessi. Di conseguenza, diventa ancor più urgente una riformulazione del pensiero e dei saperi (in chiave aperta e multidisciplinare) che deve, successivamente, concretizzarsi in proposte e strategie educative funzionali alla costruzione sociale del cambiamento. Un cambiamento che, ricordiamolo, se imposto dall’alto è (e sarà) sempre un cambiamento per pochi e di breve periodo… Perché questo è il vero “fattore” cruciale del cambiamento e dei processi di innovazione: il “fattore” culturale, una “variabile” complessa in grado, nel lungo periodo, di innescare e accompagnare i processi economici, politici, sociali. E, come dico sempre, non c’è alcuno spazio per l’improvvisazione…non sono sufficienti (necessarie, sì) campagne di comunicazione, il continuo e incessante ricorso al marketing degli eventi, campagne più o meno virali e/o #hashtag, più o meno indovinati: il livello strategico è quello concernente i processi educativi (la scuola, sopra ogni cosa, e le altre agenzie di socializzazione); è il livello dove è possibile costruire, oltre che “teste bene fatte” (pensiero critico, pensiero sistemico, educazione alla complessità), la cultura della legalità, della prevenzione, della responsabilità e determinare le condizioni socioculturali per un ridimensionamento dell’egemonia dei valori individualistici ed egoistici, che hanno significativamente contribuito all’indebolimento del legame sociale e della Comunità.

Perché, quando si dice “la questione è culturale” (!), soltanto l’affermazione di un tale principio, ci costringe a fare i conti (come detto tante volte) con una visione sistemica ed un approccio che non può che essere multidisciplinare.

Ma per realizzare un programma di lungo periodo così complesso e ambizioso, è necessario che i nostri giovani, fin dai primi anni di scuola, conoscano, vivano e applichino la “logica”, la filosofia – come “strumento” e pratica di costruzione e sviluppo dell’identità e del pensiero, della propria capacità di ragionare su sé stessi, sulle proprie emozioni e sul rapporto con gli ALTRI – e il “pensiero critico” alle loro esperienze, dal momento che all’università è davvero difficile modificare in tal senso una forma mentis già strutturata. Di fondamentale importanza, per esempio, insegnare a sviluppare/verificare/falsificare logicamente le proprie argomentazioni, confrontandosi con l’Altro e perfino con l’autorità (l’insegnante stesso/a o, più in generale, la persona adulta). Le nuove generazioni hanno un disperato bisogno (scusate la ripetizione) di un “metodo” con il quale pensare, ragionare, sintetizzare, dare sistematicità alle tante (troppe?) informazioni ricevute; un “metodo” con il quale saper riconoscere i livelli di connessione tra i fenomeni (su queste tematiche segnalo anche lo stimolante dibattito sul “diritto alla filosofia”- che prende spunto dall’opera (una serie di scritti) di J. Derrida (1990), in cui viene posto il problema di chi abbia diritto alla filosofia e a quali condizioni; è possibile un accesso diretto alla filosofia – alla formazione critica, aggiungo – senza la tradizionale mediazione delle istituzioni e come porsi di fronte alla domanda filosofica? Si veda il sito di AmicaSofia; tale dibattito sarà ulteriormente approfondito in una Conferenza internazionale organizzata dall’Università Ca’ Foscari di Venezia); ma hanno un disperato bisogno di logica e di un metodo anche per utilizzare consapevolmente, e proficuamente, le nuove tecnologie della connessione, sapendo abitare i nuovi ecosistemi sociali (Dominici, 1996), partecipando attivamente alle reti che ne costituiscono l’architettura. L’urgenza di un’educazione e di una formazione alla complessità e al pensiero critico, che formi ed educhi – quasi “addestri” – ad individuare le correlazioni tra i fenomeni e i processi, tra i saperi e la vita vissuta è sempre più evidente. Un’educazione ed una formazione in grado di abilitare le persone a valutare criticamente le origini storico-sociali di norme e modelli culturali; a riflettere e distinguere ciò che è “natura” da ciò che è “cultura” e frutto di arbitrio e convenzione (dicotomia che andrebbe superata una volta per tutte!); a riconoscere nella diversità e nel pluralismo dei “valori” fondamentali e non dei “pericoli”. Come scritto anche in passato, per realizzare obiettivi così complessi, servono politiche di lungo periodo e un rilancio in grande stile degli studi umanistici e, più in generale, della formazione umanistica, a tutti i livelli (scuola, università, ricerca etc.); il resto, sempre nel lungo periodo, arriverebbe quasi di conseguenza. La questione di fondo è che questo continua ad essere un Paese che, nella retorica politica e mediatica, oltre che nelle narrazioni prodotte, racconta ogni volta di voler puntare su formazione e ricerca, ma poi puntualmente, fa il contrario (solo di recente, vedi dati ed elaborazioni ROARS ).

Come avevamo scritto anche in passato: “L’argomento è estremamente delicato e difficile da sciogliere per le tante implicazioni. Certamente possiamo partire da un assunto: esiste una stretta correlazione tra scuola/istruzione e una cittadinanza realmente attiva e partecipata (ne abbiamo parlato anche in un altro post), a maggior ragione in sistemi sociali, come il nostro, caratterizzati da scarsa (per non dire inesistente) mobilità sociale verticale e da un familismo (im)morale diffuso che rendono ancora questa società fortemente corporativa e resiliente al (vero e profondo) cambiamento e all’innovazione sociale. Nelle società avanzate (non solo), scuole, istruzione e formazione rappresentano da sempre le uniche possibilità di riscatto sociale e di miglioramento della propria condizione sociale di partenza; ancora di più lo potrebbero/dovrebbero essere in una società rigidamente strutturata…insomma gli unici “ascensori sociali”, ormai (purtroppo) quasi del tutto bloccati da tempo: la crisi dei sistemi di welfare completa un quadro estremamente problematico che, nel rendere la precarietà condizione esistenziale, ha determinato un indebolimento dei meccanismi di solidarietà, mettendo in discussione il contratto sociale anche tra le generazioni, tra le quali è in atto una dinamica conflittuale”.

Mai dimenticare, in tal senso, che scuola e istruzione non di qualità (concetto che andrebbe sciolto) creano le condizioni strutturali per una società diseguale, non in grado di garantire neanche le condizioni di eguaglianza delle opportunità di partenza. Germi della “questione culturale” e di quella che ho chiamato la “società asimmetrica” (Dominici)

E, a questo livello, ci sarebbe da fare un lungo discorso sulla totale mancanza di politiche di orientamento in grado di creare (finalmente) quella cinghia di trasmissione necessaria tra scuola e università. Scuola e università non dialogano, oltre a conoscere poco i destinatari principali delle loro azioni. E, fino a quando scuola e università saranno “pensate” come entità separate, non andremo da nessuna parte…la “famosa” visione sistemica molto parlata e poco praticata. Ma vorrei qui aggiungere un ulteriore elemento di riflessione con cui dobbiamo fare i conti: al di là di tutti i discorsi, le analisi, perfino i tanti luoghi comuni, ma anche e soprattutto i dati raccolti ed elaborati sui titoli di studio, le cosiddette “lauree inutili”(sic!) e l’inserimento sul mercato del lavoro (a proposito di dati e luoghi comuni rinvio ancora una volta ad un’interessante analisi del ROARS) molti giovani scelgono alcuni indirizzi di studio (fino a qualche tempo fa si sarebbe detto “la Facoltà”), in modo particolare nell’area umanistica ma anche in quella delle scienze sociali, non per un reale interesse/passione per quelle materie, ma semplicemente perché in quel corso di laurea (si sono sentiti dire/raccontare e, talvolta, lo dico con rammarico, è così…) “è più facile conseguire la laurea”. Parlo, evidentemente, con cognizione di causa, avendo oltretutto progettato e realizzato azioni di customer satisfaction (anche di tipo qualitativo), rivolte agli studenti, nei diversi atenei dove ho insegnato e svolto attività di ricerca, anche quando tali attività non erano ancora previste da regolamenti e riforme (?) varie; anche quando non era ancora stata messa in moto questa “megamacchina” della valutazione (questione complessa che viene sempre più ridotta ad uno sterile oggettivismo scientifico (?) che considera significativo soltanto ciò che può essere “misurato”), piena di contraddizioni e paradossi, che ci sta davvero trasformando in burocrati a danno di quelle che dovrebbero essere le “nostre” vocazioni: ricerca e didattica (dimensioni non separate). E ciò che emerge, e ritorna con continuità, nelle attività di rilevazione riguardanti il profilo degli studenti, ma anche in quelle di valutazione della didattica e dell’apprendimento (con tutte le criticità relative ai metodi di rilevazione), è una situazione critica, non soltanto per ciò che concerne conoscenze e competenze acquisite, ma anche in termini di motivazioni delle scelte e di individuazione dei percorsi lavorativi e professionali. L’università, in alcuni casi, si configura quasi come un’area di parcheggio in cui attendere tempi migliori…tempi che difficilmente arriveranno se non ci si prepara seriamente: lo studio e la formazione richiedono sacrificio, al di là di tutta la tecnologia e degli “strumenti” più fantasiosi che possiamo inserire nella didattica, per renderla meno noiosa e più accattivante. Ci sarebbe molto da dire anche sui tanti giovani che decidono di smettere di studiare o di non studiare proprio e che magari, allo stesso tempo, non cercano neanche un lavoro. In ogni caso, per approfondire, oltre ai vari rapporti Istat, Censis, Ocse etc., rinvio eventualmente anche a dati ed elaborazioni sui seguenti siti http://www.almalaurea.it/ e http://www.universitaly.it/ . E non dobbiamo essere ipocriti o nascondercelo che, anche gli studenti meno interessati, motivati e/o preparati (a meno che non abbandonino prima gli studi), prima o poi, riescono a conseguire il diploma di laurea, senza che quegli studi siano minimamente serviti a qualcosa.

La dimensione cruciale della responsabilità e il valore assoluto di educazione e formazione

Questo è il problema! Non che la formazione non serva (serve tutta la vita!); non che studiare non serva …anche questo abbiamo dovuto sentir dire, invece di “comunicare”, con le azioni concrete e le risorse investite, che istruzione e formazione sono da sempre gli unici “ascensori sociali” in grado di contrastare quelle disuguaglianze strutturali preesistenti, p.e. a quelle digitali, che caratterizzano la nostra epoca (oggi finalmente si riparla anche di “povertà educativa”, una realtà drammatica spesso ignorata). In molti casi, si tratta di discorsi e/o frasi pronunciate da chi non intende rendere più dinamica e “aperta”, in termini di opportunità, una società – lo ripeto – senza mobilità sociale verticale e fortemente corporativa. Ancora: non che le lauree umanistiche e/o dell’area politico-sociale non servano…che, peraltro, è un luogo comune smentito anche da ricerche e, nei fatti, dalla complessità dei sistemi sociali e della prassi organizzativa. Un luogo comune tutto delle italiche genti, basterebbe gettare lo sguardo fuori dai nostri confini (anche mentali), anche e soprattutto in quei Paesi che, nella nostra esterofilia talvolta eccessiva, indichiamo sempre come modelli da seguire. Sarà scontato e banale, ma bisogno “gridarlo”: non servono laureati impreparati (lo dico con il massimo rispetto per quei giovani che, in ogni caso, decidono di studiare solo per il “pezzo di carta” da attaccare alla parete…), che hanno percepito e vissuto l’università – e noi tutte/i abbiamo delle responsabilità anche in queste derive – come un semplice “esamificio” e/o “diplomificio”, non un luogo ove crescere, maturare e confrontarsi, soprattutto con chi non la pensa come “noi”; non servono laureati senza una formazione critica, non in grado di analizzare e risolvere alcun tipo di problema o che, magari, non sanno neanche esprimersi correttamente in italiano (basterebbe vedere il livello di alcune tesi di laurea).

Senza tanti giri di parole, il problema, come tutti sanno/sappiamo, è che si è deciso di puntare esclusivamente sull’aumentare la quantità dei laureati, dimenticandosi, in molti casi, la qualità (concetto complesso, multidimensionale) e il valore della loro formazione (che, talvolta, non è più certificata neanche dalla votazione finale conseguita) anche e soprattutto, come persone e cittadini (si spera) messi almeno in condizione di formulare giudizi e valutazioni con una relativa autonomia e criticità. Tali dinamiche – mi ripeto – danneggiano pesantemente chi invece ha scelto quegli stessi studi/percorsi di formazione/alta formazione per interesse e con convinzione: si trovano e si troveranno a lottare con tutta una serie di pregiudizi difficili da smontare e decostruire. Ma l’ipercomplessità con cui interagiamo quotidianamente, a livello sociale e lavorativo/professionale, richiede urgentemente figure professionali e competenze finora considerate erroneamente non necessarie, meno importanti.

D’altronde, come detto, se si punta solo su criteri quantitativi, se contano solo le statistiche e certe statistichese contano soltanto le classifiche e la loro lettura acritica (e, talvolta, interessata)anche per assegnare le poche risorse a disposizione, non ci può poi lamentare dell’università-esamificio (il problema, d’altra parte, è l’assenza di una “vera” cultura della valutazione a tutti i livelli), esito inevitabile di un certa visione distorta dell’educazione e della formazione, della nostra idea di Persona, del nostro “contratto sociale” (completamente saltato), della nostra idea di Società che parla e straparla di “meritocrazia”, senza minimamente garantire le opportunità di partenza e conoscere la difficile situazione; basti pensare ai dati sulla “povertà educativa” e sull’analfabetismo funzionale, che non mi sono mai stancato di richiamare e sottolineare, in questi anni di nuovismo acritico all’insegna di una rinnovata, e illimitata, fede nella tecnologia (fondamentale, chiariamolo) e nella digitalizzazione, “capaci” – secondo le narrazioni egemoni – di fornire soluzioni semplici (a problemi complessi) e apparentemente immediate; ma all’insegna anche di un determinismo tecnologico portatore di semplificazioni, perfino di argomentazioni illogiche – molto presenti nel discorso pubblico – che individuano correlazioni, addirittura nessi di causalità inesistenti tra p.e. la digitalizzazione e la soluzione di problemi complessi come la corruzione e l’illegalità diffusa. Già, la Società: non un qualcosa di astratto, siamo NOI, i nostri valori, la cultura, le nostre reti di relazione e le forme di mediazione simbolica con cui riduciamo la complessità, gestiamo l’incertezza e la vulnerabilità dei sistemi, proviamo a mediare i conflitti.

La “questione culturale” ha radici profonde e molteplici variabili e concauseOltre all’importanza di politiche e investimenti su educazione, formazione e ricerca (no slogan), ci dev’essere un cambiamento culturale e di mentalità che può avvenire – non è semplice né scontato – solo nel lungo periodo, iniziando a lavorarci da subito: istruzione e formazione debbono essere protagoniste. E forse – ma questa è un’opinione strettamente personale – dovremmo smetterla di pensare all’istruzione e all’educazione solo ed esclusivamente come “mezzi” per ottenere un lavoro (stesso discorso per la formazione che, in ogni caso, deve essere più finalizzata). Il problema è che non siamo più in grado neanche di comunicare l’importanza, il valore dell’istruzione e della formazione. E la formazione umanistica e, nello specifico campo delle scienze politiche e sociali, è centrale per tanti motivi – di cui abbiamo parlato anche in post precedenti – ma anche e soprattutto perché tra i probabili sbocchi professionali ci sono stati, e continueranno ad esserci, proprio l’insegnamento (l’educazione e la formazione dei nostri giovani) e la Pubblica amministrazione. Dobbiamo, in tal senso, pensare seriamente a come far riguadagnare credibilità (ma non è una questione di pubblicità e/o marketing), all’istruzione, alla laurea e, in particolare, a certi titoli di studio riconducibili ad alcune aree disciplinari, considerate erroneamente meno importanti. Problema di consapevolezza, di volontà politica (?) ma anche di consapevolezza e responsabilità da parte di tutti.

Un fatto è certo: si continua ad affrontare una questione così strategica in termini che ne banalizzano la complessità e le dimensioni coinvolte; “le lauree umanistiche – e la formazione umanistica – non servono e/o non danno lavoro”, soldi buttati…per non parlare della vecchissima e fuorviante contrapposizione/diatriba tra cultura umanistica e cultura scientifica (su cui abbiamo scritto molto, non da oggi), una “roba” tutta italica che puntualmente riecheggia nel discorso pubblico. Ed è davvero incredibile che se ne debba ancora parlare e che, quando lo si fa, il tema venga percepito come originale, quasi rivoluzionario….ancora una volta, è indicativo di quel ritardo culturale assolutamente sottovalutato (si crede siano “cose” per accademici), le cui implicazioni sono profonde e a più livelli: educazione, istruzione, formazione, saperi esperti coinvolti nelle politiche, nelle analisi e nelle strategie, culture organizzative, culture della sicurezza e della prevenzione; strategie per la resilienza e la gestione dei rischi e dell’incertezza; mediazione e gestione dei conflitti; riduzione della complessità etc. A ciò si aggiunga che, purtroppo, qualunque discorso, su qualsiasi tema, nel nostro Paese tende subito alla polarizzazione ed alla lettura ideologica e di parte. Al di là dei dati spesso letti in maniera acritica o, in qualche caso, interessata, il problema fondamentale – lo ribadiamo con forza – è che non servono laureati impreparati, non servono laureati che, in alcuni/molti casi, non sanno parlare e scrivere correttamente in italiano; non servono laureati la cui maturazione intellettuale non sia stata minimamente segnata/scalfita dalle materie e dagli studi effettuati etc. Alcuni titoli di studio continuano ad essere più spendibili sul mercato del lavoro, non tanto per un discorso di conoscenze e/o specifiche competenze maturate e richieste – che eventualmente sono necessarie per svolgere alcune “mansioni” (e, sono sempre stato convinto, che il lavoro si apprenda solo nei luoghi di lavoro)- quanto per la credibilità e la considerazione di cui – in alcuni casi, con merito – ancora godono (il “marchio”, il “brand”…questo conta, anche nell’alta formazione): sono considerate, in ogni caso, “lauree difficili”, caratterizzate da percorsi di studio più impegnativi e selettivi, che garantiscono maggiormente chi deve selezionare le risorse umane. Ma, nel lungo periodo, se si considereranno solo i suddetti criteri quantitativi, il livello dovrà abbassarsi anche in questi settori. Se la logica resterà quella di aumentare il numero degli studenti iscritti e il numero dei laureati in corso, non se ne verrà fuori: bene esser chiari, si tratta di obiettivi assolutamente condivisibili, ma che devono essere integrati da strategie più attente alla qualità dei laureati (concetto complesso, che va operazionalizzato). Mi ripeto: non basta, come si è provato a fare in questi anni, aumentare il numero dei laureati, i nostri giovani devono arrivare a completare un processo di maturazione intellettuale, anche come persone (anche, e soprattutto, perché le organizzazioni dove andranno a lavorare sono “fatte” di persone), che evidentemente non può prescindere da una preparazione seria e rigorosa in grado di plasmare menti elastiche e aperte. Il dibattito pubblico e mediatico senz’altro non aiuta perché fatto di slogan e di fiammate emotive, di semplificazioni e luoghi comuni che, di volta in volta, vengono cavalcati dalla politica.

Come ripeto da anni, la complessità del mutamento in atto richiede profili e competenze diversificate e non soltanto “tecniche”, ma servono giovani preparati! La laurea deve tornare ad indicare, sempre e comunque, un valore; deve tornare, al di là dei dibattiti sul valore legale del titolo di studio, a certificare una qualità della formazione ed una maturazione intellettuale della persona che la consegue, indipendentemente dalla valutazione finale. E nell’affrontare tali questioni senza peli sulla lingua, intendo riaffermarne, con continuità e forza, la rilevanza strategica di tali problematiche per la cosiddetta “questione culturale”: da sempre, da sempre(!), istruzione e formazione sono gli unici “strumenti” in grado di dare dinamicità a sistemi sociali senza mobilità sociale verticale, senza meritocrazia e con un familismo amorale diffuso. A ciò aggiungo, che è di vitale importanza curare con attenzione anche la qualità della formazione di chi sceglie indirizzi di studio, considerati meno strategici (scienze umanistiche e scienze politico-sociali), perché una volta usciti dal circuito universitario, potrebbero andare a lavorare proprio nei settori strategici della pubblica amministrazione e, in particolare, dell’insegnamento. E, non soltanto la politica, ma ognuna/o di noi è chiamato a prendersi le proprie responsabilità! Non c’ è soltanto il livello dei sistemi e delle grandi organizzazioni/apparati.

 

Questione culturale, legalità e cultura della furbizia

Altra dimensione cruciale della “questione culturale” riguarda la mentalità diffusa, nel nostro Paese, di risolvere tutto esclusivamente con il ricorso al Legislatore (cui si è aggiunta, ancora una volta, la convinzione/narrazione che la digitalizzazione risolverà ogni problema). Un Paese che, ai limiti del paradosso, è fondato culturalmente sul “principio di irresponsabilità” (Dominici 2003 e 2009), oltre che su una diffusa incoerenza dei comportamenti (ricordo sempre la formula ETICA vs ETICHETTA); un’irresponsabilità diffusa in tutti i settori vera cifra della “questione culturale”, che legittima chi aggira le leggi, le regole e, perfino, le norme sociali condivise (cultura della furbizia). Una cultura diffusa, già a livello di processi educativi, che porta a vedere nelle regole e in certi valori (legalità, cittadinanza, bene comune, interesse generale etc.), soprattutto un ostacolo alla propria autoaffermazione. La furbizia è ormai sinonimo di intelligenza perfino nelle valutazioni che diamo dei comportamenti di bambini e adolescenti…che saranno i cittadini di domani! Si pensi, in tal senso, anche alla metastasi della corruzione che, come la cronaca degli ultimi decenni ha messo in luce, coinvolge non soltanto la cd. “casta”, bensì ampi settori della società civile che, probabilmente, continuano a credere nonostante tutto di poter avere vantaggi dalla “casta” stessa; un’irresponsabilità che si articola anche in comportamenti eticamente scorretti e non attenti neanche al principio di precauzione. Dunque, un’irresponsabilità diffusa che rende socialmente accettabile la violazione di leggi e norme, il ricorso al clientelismo e al familismo immorale (forzo il concetto). Accade così che la soluzione ai problemi, per certi versi inevitabile (ma, evidentemente, non è l’unica strada percorribile), sia sempre la medesima: il continuo ricorso a leggi e normative sempre più rigide e stringenti: intendiamoci bene, si tratta in molti casi di condizioni necessarie, addirittura fondamentali ma, come ampiamente dimostrato dalla storia sociale, politica ed economica di questo Paese, si tratta di condizioni/fattori non sufficienti.

 

Concludo questa mia riflessione – che riprende temi da me seguiti, con passione, ormai da molto tempo – riproponendo in ordine sparso alcune considerazioni, scusandomi in anticipo, non solo per la lunghezza del contributo, ma anche per la semplificazione di alcune di queste che meriterebbero ben altro approfondimento (che rinvio a precedenti pubblicazioni e in corso di stampa). Ma, evidentemente, quando parliamo di “questione culturale” andiamo a toccare il nervo scoperto di questo Paese: un Paese che continua ad illudersi di risolvere ogni problema soltanto con le leggi (il diritto penale, in particolare), i divieti e la repressione: “emergenza educativa”, vuoto etico (Jonas), torpore morale, nichilismo, cultura della furbizia e di un’illegalità legittima (Dominici), clientelismo, corruzione, familismo amorale (Banfield): questioni complesse che non si risolveranno con decreti e sanzioni sempre più dure (necessarie ma non sufficienti); questioni complesse che non saranno risolte dalla digitalizzazione, da sistemi informatici e/o app sempre più sofisticate (estremamente utili ma non risolutive). Il problema centrale – lo ribadiamo con forza – è l’educazione, i modelli culturali, la ricerca di un’etica condivisa e, aggiungo, la testimonianza dei comportamenti.

“ Il nostro è un Paese dal quadro normativo e legislativo complesso e articolato: esistono molte leggi (forse, troppe), codici professionali, carte deontologiche, linee guida, sistemi di regole formali, sistemi di orientamento valoriale e conoscitivo. Eppure questi “strumenti” si sono rivelati condizione necessaria ma non sufficiente, perché esiste una dimensione, cruciale e fondante allo stesso tempo, che è quella della responsabilità; una dimensione che sfugge a qualsiasi tipo di “gabbia” e/o sistema di controllo, perché attiene proprio alla libertà delle persone (altro discorso da approfondire, legato al tema dell’emancipazione nella modernità: interessante il concetto di “libertà generativa”). E da questo punto di vista, come non essere d’accordo con chi afferma che viviamo in una “società degli individui”, che sentono di non dover rispondere a nessuno dei loro atti, tanto meno ad una “comunità” i cui legami si sono fortemente indeboliti (e c’è chi parla di fine del legame sociale). Qualche anno fa, intitolai un mio libro “La società dell’irresponsabilità” proprio per connotare questa condizione critica, ricollegabile solo in parte alla crisi economica (o ad indicatori di tipo economico): la “questione culturale” mette in luce, ancora una volta, non solo la crisi delle istituzioni formative, ma anche la debolezza dei vecchi apparati e delle vecchie logiche di controllo e repressione che non risolvono mai i problemi alla base; che sono sempre strategie di “breve periodo” (cultura dell’emergenza vs. cultura della prevenzione, a tutti i livelli e in tutti i settori della prassi).Dobbiamo confrontarci con una “natura” intrinsecamente problematica e complessa dei sistemi sociali, non più riconducibile alle sole categorie (significative) di rischio, incertezza, vulnerabilità, liquidità etc. A ciò si aggiunga che, quasi paradossalmente, mai come in questi anni si è discusso (e si discute) di etica e di responsabilità in tutti i campi dell’azione sociale (dalla politica alla cultura, dall’informazione all’innovazione scientifica e tecnologica etc.). Si potrebbe semplificare tale paradosso con la “formula”: trionfo dell’etichetta sull’etica. Paese di paradossi e contraddizioni (non soltanto sul piano culturale): da una parte, per ogni “nuovo” problema si invocano subito nuove leggi, nuovi codici deontologici, nuove prescrizioni, nuovi divieti; dall’altra, culturalmente, consideriamo quelle stesse leggi, norme, “regole” come un ostacolo alla nostra autoaffermazione ed al nostro successo/prestigio sociale. D’altra parte, ciò che spesso sembra venire a mancare è proprio la coerenza dei comportamenti che, comunicativamente parlando, risulterebbe (è!) molto più efficace delle parole e dei principi spiegati attraverso un linguaggio, più o meno, politicamente corretto. Da questo punto di vista, come peraltro sottolineato da più parti, siamo di fronte ad una vera e propria “emergenza educativa” legata ad una molteplicità di fattori e variabili, che hanno determinato una trasformazione profonda dei processi di socializzazione ed una crisi delle tradizionali agenzie/istituzioni deputate all’interiorizzazione dei valori ed alla formazione delle personalità/identità (riconoscimento-rispetto-altruismo-senso civico-cittadinanza vissuta e non subita).Mi riferisco, in tal senso, al concetto di “policentrismo formativo”. Questo Paese non ripartirà senza affrontare seriamente tali problematiche: credo di non dover neanche argomentare la correlazione strettissima esistente tra istruzione (accesso, condivisione) e cittadinanza. In questa sede, si discute dei “cittadini di domani” che corrono seriamente il rischio di crescere e socializzarsi ad una cultura della furbizia, dell’illegalità e/o del familismo amorale (apparentemente?) dominante”.

La comunicazione (interrotta) tra le generazioni

La “questione culturale”, qui più volte richiamata, è legata come detto anche, e soprattutto, ad un problema di interruzione/crisi della comunicazione tra le generazioni (concetto che andrebbe sciolto e sviluppato). In questa prospettiva di analisi, non possiamo non registrare come i media (vecchi e nuovi, per non parlare dei social networks) – insieme al famoso “gruppo dei pari” – si siano letteralmente divorati lo spazio comunicativo e del sapere (?) gestito, in passato, della tradizionali istituzioni e agenzie educative e formative”.

L’importanza della vocazione…

“…Sugli attori sociali e sulle professionalità protagoniste del processo educativo e formativo sono forse radicale, ma preferisco sempre dire apertamente ciò che penso (va precisato che, in questi ultimi decenni, scuola e università sono state pesantemente penalizzate da tagli e controriforme). Ci sono lavori/professioni che andrebbero fatti/scelti anche, e soprattutto, perché si avverte una “vocazione” e non soltanto per una forma di prestigio sociale e/o perché permettono magari di esercitare forme di micropotere sugli altri. ”Prendersi cura” di una persona (concetto complesso), insegnare, formare, condividere ed elaborare non significa soltanto trasmettere e/o impartire nozioni: i figli, gli studenti e, più in generale, i giovani – come dire – ti aspettano al varco, osservano “come ti comporti”. Insomma, contano i “fatti”, non le “parole”. La “tua” (nostra) credibilità e autorevolezza si fonda sui comportamenti e sulla loro coerenza rispetto a quanto affermiamo (problema che riguarda anche la politica). Se chiedi correttezza, devi darla per primo, se pretendi rispetto e senso di responsabilità, devi prima di tutto essere rispettoso dell’Altro e responsabile etc., anche se la relazione è asimmetrica a causa del ruolo e della gerarchia. E non puoi fingere, non nel lungo periodo. Ecco perché certi “ruoli” e certe “attività” richiedono, a mio avviso, consapevolezza, partecipazione, passione, perfino empatia, oltre evidentemente alla preparazione che dovrei dare per scontata. E’ necessario “mettersi in gioco” puntando sull’inclusione dell’ALTRO”.

Al di là delle tante letture legate al lavoro, segnalo volentieri un libro che mi sta appassionando (fin dalle prime pagine), anche in termini di visione e valori condivisi…questioni su cui lavoro da molti anni, idee e prospettive che continuo a (provare a) condividere…il valore assoluto dello studio, dell’educazione e della formazione…perfino “il piacere delle cose che si fanno senza pensare a cosa servono”:

Paola Mastrocola, La passione ribelle, Laterza, Roma-Bari 2015

 

Sulle questioni inerenti la formazione e l’apprendimento, segnalo volentieri anche:

Aureliana Alberici, La possibilità di cambiare. Apprendere ad apprendere come risorsa strategica per la vita, FrancoAngeli, Milano 2008

Castello e D. Pepe (a cura di), Apprendimento e Nuove tecnologie, FrancoAngeli, Milano 2010

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