L’egemonia di un modello feudale e l’assenza di un pensiero critico sul mutamento

Ne parlo ormai da tanti anni (ma autonomia e indipendenza spesso non pagano) e se ne comincia a discutere anche se – lo dico con rammarico – facendo sempre attenzione a non infastidire troppo il potere e la politica che ha poi la responsabilità di decidere: manca un “pensiero critico” sul mutamento in atto e, nello specifico, sull’innovazione e sul digitale. Manca un pensiero critico che sappia andare al di là sia delle narrazioni del potere (e della politica) che delle rappresentazioni mediatiche e delle reti esclusive*.

Narrazioni e rappresentazioni – non soltanto mediatiche – che, in realtà, si rivelano sempre funzionali al mantenere i sistemi stabili e ordinati (almeno, apparentemente – la stabilità non appartiene ai “sistemi complessi”), in una Società (NOI, le strutture e le reti sociali) che è ancora profondamente feudale** e corporativa sia per ciò che concerne i meccanismi di reclutamento che i processi di emancipazione ed inclusione (->assenza di mobilità sociale verticale).

La rivoluzione digitale, le tecnologie della connessione e le architetture della Rete – che costituiscono e innervano il “nuovo ecosistema globale” (Dominici,1996) – stanno modificando in profondità strutture ed ecosistemi, accrescendo la dimensione di ciò che è tecnicamente controllato (e controllabile) e, allo stesso tempo, deresponsabilizzando le persone all’interno dei processi organizzativi; tuttavia, difficilmente riusciranno a modificare un modello sociale e culturale che, per l’appunto, è ancora feudale e asimmetrico***.

Un modello sociale e culturale, fondato su logiche di “esclusività” e controllo totale, che si traduce nella ricerca quasi ossessiva del definire un NOI sempre opposto e antitetico ad un VOI, nel definire chi “è dentro” da chi “è fuori” rispetto a certe reti e corporazioni; che si traduce nella ricerca, ancora una volta ossessiva, di definire confini, vincoli, reti (ancora una volta, chiuse ed esclusive), perfino classifiche dei presunti “migliori” e delle cd. “eccellenze” (altre retoriche devastanti nei loro effetti…altro che “cambiamento sistemico”, da tutti evocato soltanto come slogan)in tutti i settori e saperi esperti, di cui spesso fanno parte amici o, comunque, persone vicine per idee e appartenenze. A ciò si aggiunga, un primato della politica che, se da una parte, soffre il predominio/la sottomissione all’economia ed alla finanza, dall’altra, continua ad essere massimamente invasiva in tutte le sfere della prassi sociale e culturale.

Il tutto all’interno di logiche di mera visibilità ed ETICHETTA che continuano ad essere dominanti e, almeno per ora, di successo. La questione culturale, in tal senso, è il vero ostacolo ad un cambiamento effettivo e sostanziale di lungo periodo (e su questo tema, rinvio a diversi articoli/contributi pubblicati negli anni).

La nostra Scuola e la nostra Università – lo ripeto sempre – non educano e non formano alla complessità, all’imprevedibilità (Dominici, 1995-1996) ed al pensiero critico e ciò rende ancor più complicato questo tipo di cambiamento culturale, anche nel lungo, lunghissimo periodo.

E sempre a proposito di conformismo….

Non posso non ripensare a diversi anni fa, ma anche più di recente, quando chi parlava di una crisi non tanto, o comunque, non soltanto economica, veniva quasi deriso sia in campo accademico che nel discorso pubblico.

Si tratta di una riflessione che riguarda da vicino – oltre che la storica, atavica, confusione tra “sistemi complessi” e “sistemi complicati” (ibidem) – i “saperi esperti” esclusi dall’analisi e dalla gestione dei problemi e, più in generale, la ricomposizione della illogica, fuorviante e strumentale separazione tra formazione umanistica e formazione scientifica, su cui siamo tornati molte volte in passato. Attualmente tali discorsi stanno entrando nel dibattito pubblico – lentamente ci si arriva – ma il problema è che le tematiche devono, prima, essere/diventare “alla moda”.

Ciò che colpisce di più è che, proprio coloro che hanno sempre considerato solo le “variabili” economia e progresso tecnologico (e i relativi indicatori) per analizzare la crisi e gestire il mutamento, sono gli stessi che, oggi, si presentano quasi come unici “depositari” di analisi e intuizioni, non soltanto contraddittorie rispetto alle precedenti, ma che altri hanno fatto, prima di loro, non ascoltati per tanti fattori – che chiamerò – ‘culturali’.

Stesso discorso sul digitale e la digitalizzazione: fino a poco fa, la narrazione egemone era “il digitale e la digitalizzazione risolveranno ogni problema (dalla corruzione alla partecipazione dei cittadini) e semplificheranno tutto“(è accaduto l’esatto contrario!)… “unico problema è/sarà il digital divide“… “Rete = orizzontalità, partecipazione, libertà, cittadinanza, democrazia”: una narrazione, di più, una serie di narrazioni che si estendevano/si estendono (tuttora) alla Scuola ed ai processi educativi, con i cd. “nativi digitali” (a mio parere, l’altra narrazione costruita ad hoc e priva di ogni base empiricamente fondata e strutturata…ad eccezione, evidentemente, del dato anagrafico) presentati come veri e propri fenomeni, capaci di apprendere e creare qualsiasi cosa, per il semplice fatto di essere nati durante la cd. rivoluzione digitale: e, ancora, introdurre “strumenti” digitali e multimediali migliorerà tutto…il pensiero (mai realmente considerato) l’apprendimento e le prestazioni, le capacità di analisi e il “saper fare”(assurto quasi a valore assoluto anche nei processi educativi)...chi non capisce è un apocalittico, si oppone al cambiamento, è “contro il digitale” etc.; ora che, lentamente, ci si sta rendendo conto che le questioni sono un po’ più complesse (noi, invece, siamo bravi a renderle complicate), cambio di rotta!

Ben venga – ci mancherebbe altro – ma, almeno ogni tanto, una piccola ammissione da parte di questi (super)esperti di tutto e guru vari…invece, come se niente fosse, al solito, loro “l’avevano già detto” (per fortuna, dichiarazioni, articoli e, talvolta, libri, pubblicazioni, scientifiche e non, sono lì a confermare il contrario… anche se, poi, nessuno approfondisce).

Si usano le parole, i neologismi, i concetti, meglio ancora, gli anglicismi … perfino i verbi, come “etichette” e “parole-soluzione” funzionali al garantire, formalmente, oltre che in maniera superficiale, l’importanza e l’originalità di qualsiasi tema e questione; ma, poi, come sempre, approcci, epistemologie e metodologie, rimangono quelli di… sempre.

Perché, come ripeto da sempre, non si può essere esperte/i di tutto, men che meno quando ad essere chiamati in causa, appunto, sono l’approccio, gli approcci, le epistemologie e le metodologie!

Sempre, con riferimento a queste/i super-esperte/i di tutto: tutto ciò che dicono e scrivono è sempre farina del loro sacco (ricordo, sempre, che la conoscenza è processo sociale di acquisizione intersoggettiva…siamo sempre in qualche modo sulla “spalle dei giganti”)… non citano mai i “veri” lavori/pubblicazioni che li hanno ispirati (uso un eufemismo); alcuni arrivano ad essere considerati quasi dei “profeti” (dei “visionari”… termine più alla moda) – possono essere accademici, ricercatrici/ricercatori (che, magari, non hanno mai fatto ricerca), tecnologi, giornalisti, blogger non fa differenza; qualunque cosa dicano/scrivano viene (spesso) passivamente accettata e presentata come “verità” rivoluzionaria, pur antitetica a quella precedentemente sostenuta.

All’insegna di quello che ho definito, in tempi non sospetti, “nuovismo acritico di maniera” (cit.). In qualche caso, se parlano inglese meglio ancora, neanche se ne valuta il rilievo e lo spessore critico, insomma procediamo molto per “etichette” e “brand”.

Da questo punto di vista, conformismo e meccanismi di omologazione – “dispositivi” importanti e funzionali alla coesione dei sistemi sociali e delle organizzazioni – ne escono ulteriormente rafforzati anche per l’incoerenza di tanti attori (studiose/i, intellettuali, leaders d’opinione etc.) che, al contrario, dovrebbero operare per decostruirli o, quanto meno, metterli in discussione.

In prospettiva futura, la mancanza di educazione alla complessità e di una formazione critica è ancor più devastante, perché abilita i cittadini di domani soltanto ad osservare e descrivere le dinamiche e i fenomeni in cui sono coinvolti, sempre ammesso che abbiano un metodo per selezionare le informazioni e/o analizzare i dati, dandogli sistematicità.

Lo ripeterò sempre… fino alla nausea: si può essere sudditi anche in democrazia, ma – e qui la consapevolezza che, a mio avviso, manca – abbiamo tutte/i delle responsabilità nell’alimentare conformismo, stereotipi, pregiudizi (di qualsiasi genere), nel consolidare le strutture di una società asimmetrica* (Dominici), chiusa, corporativa, in molti casi incapace di co-creare concretamente opportunità che non riguardino élite e gruppi ristretti; incapace di creare quegli “anticorpi” necessari per innescare le dinamiche di cambiamento, ma soprattutto innescare l’innovazione che è processo complesso e che richiede il coraggio di rendere instabile qualcosa che è sempre stabile e ordinatamente rassicurante (culture e modelli culturali)

Altra considerazione: non ci possono e non ci potranno mai essere inclusione, cittadinanza e “vera” innovazione (sistemica, sociale e culturale, e non soltanto tecnologica) fino a quando il conformismo (e le forze dell’omologazione) – da sempre pre-requisito fondamentale per l’esistenza delle organizzazioni e la coesione dentro i sistemi sociali – è/sarà così esteso e pervasivo all’interno del tessuto sociale e delle organizzazioni. Soprattutto in una fase così delicata, segnata dalla crisi dei valori della Comunità e dei legami sociali, dal trionfo dell’indifferenza e di sentimenti di anti-socialità, il conformismo si presenta di fatto come il collante sociale più importante: un collante che mantiene l’ordine e l’equilibrio ma, contemporaneamente, impedisce, o quanto meno rallenta, il cambiamento ed un’innovazione sociale realmente aperta e inclusiva.

L’innovazione è processo sistemico e complesso (ibidem) che implica un cambiamento profondo, anche e soprattutto, nel modo di vedere, osservare, comprendere i fenomeni, i processi, gli oggetti, le “cose” (->prospettiva sistemica): innovare significa (anche) avere il coraggio di destabilizzare qualcosa che è profondamente stabile, radicato, ordinato e, per certi versi, ideale.

Innovare costituisce sempre una sfida (essenziale) che comporta l’abbandonare certezze, visioni consolidate e comportamenti rituali, liberarsi perfino dalla stessa idea che le “cose” si fanno in un certo modo perché così ha sempre funzionato. Innovare significa abitare il conflitto e aprirsi all’indeterminato (Dominici, 1995-1996, 2003 e sgg.).

Storicamente (poi, lo so, ci possono essere delle eccezioni), coloro che sono al potere – o, comunque, in una posizione di “vantaggio relativo” – e hanno la responsabilità del decidere, anche a livello di organizzazioni meno complesse, difficilmente possono essere motivati/interessati ad innovare e cambiare concretamente, proprio perché le dinamiche dei processi innovativi non possono che rendere meno stabili e meno controllabili le situazioni in cui sono coinvolti e il contesto stesso.

E’ sempre il fattore socioculturale ad essere determinante, sia nella statica che nella dinamica di sistemi sociali e organizzazioni complesse. Manca ancora una piena consapevolezza e, soprattutto, la traduzione operativa quando tale consapevolezza viene dichiarata.

 

Allego a questo post alcuni precedenti contributi che sviluppano le questioni accennate:

1) La condizione del sapere nella società della conoscenza

http://bit.ly/1wAmbAD

2. La Società interconnessa e il ritardo nella cultura della comunicazione

http://bit.ly/1HgiZ2k

3. Competenze e saperi per la Società Interconnessa: le due culture e la complessità

http://bit.ly/1QXZzkI

4.La cultura motore del cambiamento, ma anche agente di democratizzazione e cittadinanza

http://bit.ly/1qaeFYq  

5.La società asimmetrica* e la centralità della “questione culturale”: le resistenze al cambiamento e le “leve” per innescarlo

http://bit.ly/1QXZJZF

6.La questione culturale e il problema della responsabilità: il ruolo strategico di scuola e istruzione. In cerca di “teste bene fatte”

http://bit.ly/1tjO7ni

7.L’ipercomplessità e una crisi non soltanto economica

http://bit.ly/1LS0Qbz

8. L’accesso è la nuova misura dei rapporti sociali …nuove categorie per una nuova complessità

http://bit.ly/1CkENRf

9. Nella Rete: sapere riflessivo e sistemi ad alta interdipendenza…tra inclusione ed esclusione

http://bit.ly/1P0QfgE

10.Il rischio di essere sudditi in democrazia

http://bit.ly/RoRScn

 

N.B. Condividete e riutilizzate pure i contenuti pubblicati ma, cortesemente, citate sempre gli Autori e la fonte, anche quando si usano categorie concettuali e relative definizioni operative. Condividiamo la conoscenza e le informazioni, ma proviamo ad interrompere il circuito non virtuoso e profondamente scorretto del “copia e incolla” e/o della sofisticata parafrasi; un circuito alimentato da coloro che sanno soltanto “usare” il lavoro degli altri.

Avrete tutte/i riconosciuto l’immagine: il Maestro cattivo di Gerald Scarfe