Perché la cultura della sostenibilità va costruita, socialmente e culturalmente, e non può essere imposta dall’alto*.
Come sempre, senza “tempi di lettura”
“Ma, alla base del nostro lavoro anche un altro intimo convincimento: che la comunicazione etica, il sapere condiviso e la conoscenza diffusa (open), a livello locale e globale, rappresentino realmente i pre-requisiti fondamentali per la realizzazione del “progetto” […] di una società globale più equa, inclusiva e solidale, che ponga nuovamente alla sua base i “valori” dell’essere umano (Nuovo Umanesimo), la sua educazione, la centralità della Persona e i diritti di cittadinanza globale” (P.Dominici, 1998).
Desidero ripartire proprio dal titolo di questo ebook, In viaggio verso la sostenibilità, che contiene una “figura”, una metafora, particolarmente significativa, oltre che indovinata. Perché di questo si tratta, di un viaggio lungo e complesso che non prevede, non può permettersi, ulteriori “scorciatoie” e, su tutte, quella tradizionale, e più ricorrente, nel nostro contesto storico-culturale di riferimento: quella che individua nel fattore giuridico-normativo e in quello tecnologico le condizioni necessarie (lo sono) e sufficienti per un’innovazione inclusiva (2000) e, appunto, per uno sviluppo sostenibile. Si tratta, contrariamente a questa visione/narrazione tuttora egemone, di un viaggio che deve necessariamente considerare tante variabili, concause e parametri di misura e che comporta la ri-definizione e costruzione sociale delle condizioni strutturali del cambiamento culturale; che richiede, come scrissi molti anni fa, il ripensamento del “contratto sociale” (1998 e sgg.). Per queste ed altre ragioni, la questione educativa e culturale si rivela, ancora una volta, assolutamente strategica. Un obiettivo complesso e, necessariamente, di lungo periodo: ripensare un modello di sviluppo interamente centrato sul consumo – e non sulle Persone e/o il lavoro – che ha mostrato, senza mezze misure, tutte le sue criticità e debolezze strutturali; criticità e debolezze strutturali che hanno fatto avvertire ancor di più l’urgenza di identificare e co-costruire, socialmente e culturalmente, le condizioni abilitanti la crescita di sistemi sociali fondati sulla sostenibilità e, più in generale, sul “principio responsabilità” (Jonas). Temi e questioni di vitale importanza che, oltre a richiedere un approccio sistemico alla (iper)complessità (Dominici, 1996), trovano proprio nell’educazione e nella formazione, nell’urgenza di ripensare i processi educativi, i saperi e gli spazi relazionali e comunicativi, le uniche “leve” in grado di sollevare sistemi sociali sempre più chiusi e sempre più segnati da paure, che ruotano intorno all’eterno dilemma sicurezza vs. libertà, ma anche da profonde disuguaglianze e nuove asimmetrie.
Perché la “vera” innovazione, e il cambiamento culturale che la caratterizza sempre, sono processi complessi, anzi sono ipercomplessità da governare: istruzione, educazione, formazione ne devono (dovrebbero) essere gli assi portanti, non semplici “strumenti” che arrivano a valle dei processi di mutamento per correggere traiettorie e discontinuità inattese e/o imprevedibili. Altrimenti, saremo sempre costretti a rincorrere le accelerazioni dell’innovazione tecnologica e di un sistema-mondo attualmente “progettato” e concepito per esaltare una competizione senza regole e, soprattutto, per non aspettare chi rimane indietro; e soltanto ora ci si comincia a rendere conto di quanto miope e autolesionista sia questa visione e, con essa, le strategie e le politiche che l’accompagnano, a livello locale e globale. Se non correggeremo la rotta, continueremo a rincorrere con pochissime speranze di poter gestire e, allo stesso tempo, metabolizzare i cambiamenti indotti dalla società ipercomplessa e asimmetrica (Dominici, 2005). D’altra parte, mi ripeto, il livello strategico continua ad essere, da sempre, quello riguardante l’educazione (e la formazione) e i processi educativi. Perché sono i fattori sociali e culturali, spesso sottovalutati, ad essere determinanti.
Perché la questione è “culturale” e riguarda, in primo luogo, l’educazione, anche e soprattutto, alla libertà che comporta responsabilità (concetti relazionali, intimamente legati), con tutte le variabili e le sfumature del caso da considerarsi.
Per esempio, ci sarebbe da dire e fare moltissimo in termini di educazione all’empatia! Si tratta, a nostro avviso, di pre-requisiti fondamentali per qualsiasi tipo e “forma” di crescita/sviluppo sostenibile. E, oltre alla cura di alcune fondamentali dimensioni educative (emotiva, sociale, relazionale, etica) i nostri giovani (le nuove generazioni) – fin dai primi anni di scuola – hanno/avranno sempre più bisogno di conoscere, vivere, praticare e applicare la logica (all’università è davvero difficile modificare una forma mentis già strutturata), partendo da una “nuova epistemologia” e da una rinnovata consapevolezza del valore strategico dell’errore e, più in generale, della possibilità di sbagliare; hanno/avranno sempre più un disperato bisogno di un “metodo” (oltre che di un sistema di pensiero) con il quale pensare, ragionare, sintetizzare, individuare correlazioni, dare sistematicità alle tante (troppe?) informazioni ricevute (logica e filosofia come pratiche di consapevolezza).
In altre parole, hanno/avranno sempre più un disperato bisogno di un’educazione e formazione alla complessità e al pensiero critico, che appunto formi ed educhi – quasi “addestri” – ad individuare le connessioni tra i fenomeni e i processi, tra il dentro e il fuori, tra il “tutto” e le “parti”, tra i saperi e la vita vissuta; che metta in condizione, per esempio, di valutare criticamente le origini storico-sociali di norme e modelli culturali, di riflettere e distinguere ciò che è “natura” da ciò che è “cultura” e frutto di convenzione, di riconoscere le continue contaminazioni tra ciò che è “naturale” e ciò che è “artificiale” (dicotomie che andrebbero superate una volta per tutte!); di riconoscere nella diversità e nel pluralismo dei “valori” fondamentali e non dei “pericoli”; di ripensare il nostro rapporto (complesso) con l’ambiente e gli ecosistemi.
In questa linea di discorso, si avverte l’urgenza di ripensare anche la nostra interazione complessa con il mondo degli oggetti e delle cose, con una rinnovata capacità di guardare oltre schemi e modelli tradizionali, oltre quelle che ho definito, in tempi non sospetti, le “false dicotomie” (natura vs. cultura; teoria vs. ricerca/pratica; formazione scientifica vs. formazione umanistica; conoscenze vs. competenze; hard skills vs. soft skills etc.).
Se non lavoreremo a fondo su tali “variabili” fondamentali – evidentemente, anche per ciò che concerne la vecchia questione della formazione dei formatori (a tal proposito, Scuola e Università vanno ripensate e ri-progettate insieme, non come entità separate) – (magari) saremo senz’altro in grado di costruire sistemi ed ecosistemi sostenibili, ma questi saranno abitati e co-costruiti da “individui” che non pensano e agiscono da Persone e Cittadini. Costruire ecosistemi sostenibili, ripensare il “contratto sociale” significa affrontare la sfida della e alla ipercomplessità, una sfida ineludibile che ci chiede, in primo luogo, di ripensare educazione e istruzione, in maniera profonda, radicale.
E, per far questo, occorre ripensare in chiave relazionale anche gli stessi concetti di libertà e responsabilità, ponendo al centro le Persone, gli spazi educativi, relazionali, comunicativi. Può sembrare la più classica delle lotte contro i mulini a vento, ma va portata avanti! Anche e soprattutto perché, lo ribadisco con forza, il cambiamento culturale che il passaggio alla sostenibilità richiede urgentemente, non può e non potrà mai essere imposto dall’alto.
#CitaregliAutori
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…perché siamo sempre sulle “spalle dei giganti”
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*Contributo estratto dalla nuova pubblicazione: “In viaggio verso la sostenibilità” – Volume VI, Collana “Comunicazione Sociale”, Fondazione Pubblicità Progresso, Milano 2017.
Di seguito il link alla pubblicazione (ebook):
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N.B. Condividete e riutilizzate pure i contenuti pubblicati ma, cortesemente, citate sempre gli Autori e le Fonti anche quando si usano categorie concettuali e relative definizioni operative. Condividiamo la conoscenza e le informazioni, ma proviamo ad interrompere il circuito non virtuoso e scorretto del “copia e incolla”, alimentato da coloro che sanno soltanto “usare” il lavoro altrui. Le citazioni si fanno, in primo luogo, per correttezza e, in secondo luogo, perché il nostro lavoro (la nostra produzione intellettuale) è sempre il risultato del lavoro di tante “persone” che, come NOI, studiano e fanno ricerca, aiutandoci anche ad essere creativi e originali, orientando le nostre ipotesi di lavoro.
I testi che condivido sono il frutto di lavoro (passione!) e ricerche e, come avrete notato, sono sempre ricchi di citazioni. Continuo a registrare, con rammarico e una certa perplessità, come tale modo di procedere, che dovrebbe caratterizzare tutta la produzione intellettuale (non soltanto quella scientifica e/o accademica), sia sempre meno praticata e frequente in molti Autori e studiosi.
Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle tante scorrettezze ricevute in questi anni. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da vent’anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede.
Buona riflessione!
Immagine: foto di Piero Dominici