Gettando lo sguardo sulle immagini. Tra etica e complessità della comunicazione

Come ho avuto modo di scrivere in passato: «La realtà in cui viviamo e agiamo è una realtà che tendiamo a percepire come “naturale”, così come spesso identifichiamo come “naturali” processi che, al contrario, sono “culturali” e che scaturiscono da complesse dinamiche di produzione sociale dei codici e dei simboli condivisi. Possiamo senz’altro affermare che questa realtà empirica è la risultante di un processo di semiosi illimitata in cui questa viene totalmente e completamente “etichettata”: in altri termini, il mondo intorno a noi viene ricoperto di etichette cariche di significato che di fatto attivano continui ed incessanti processi interpretativi anche in assenza di un interlocutore. Potremmo dire, richiamando una famosa metafora di Baudelaire, di trovarci proiettati, quasi gettati, all’interno di un’immensa “foresta di simbolinella quale la decodifica (interpretazione) dei significati semplici e complessi, manifesti e latenti, è operazione tutt’altro che scontata. Quando tentiamo di interpretare un comportamento, una situazione, un’immagine o un testo di qualsiasi genere, forse non siamo mai sufficientemente consapevoli delle numerose implicazioni e passaggi (logici, cognitivi, semantici, relazionali e sociali) che questa operazione comporta. Sembra diventare un processo quasi istintivo che, tuttavia, segue modalità pre-codificate all’interno dei modelli culturali egemoni. Ciò avviene già ad un primo livello di base in cui le parole e i concetti, nel dare un “nome” agli oggetti ed ai processi, ne rendono possibile la definizione in loro assenza. Gli enunciati, invece, svolgono la funzione di mettere in relazione tali denominazioni, creando tra queste delle connessioni che accrescono la complessità interpretativa: infatti, le parole non possono essere pensate e decodificate che all’interno delle frasi, dei testi e delle situazioni concrete in cui vengono utilizzate. Pertanto, non è possibile pensare di isolare e decontestualizzare le parole e i termini al fine di individuarne un’interpretazione più corretta e/o dimensioni semantiche più convincenti. Allo stesso modo, dobbiamo essere consapevoli che, nel momento in cui si condivide un codice linguistico, qualsiasi parola, qualsiasi significato della parola costituisce di fatto un “prodotto sociale” (e relazionale). Viceversa, il significato testuale tende a configurarsi come preciso e concreto, anche se definito all’interno del sistema di regole e valori condiviso in un contesto storico-sociale.

Altro aspetto importante riguarda il diverso valore informativo contenuto in ogni enunciato: cioè, il rapporto tra parola e oggetto “etichettato” (denominato) non esaurisce mai la questione fondamentale del suo significato. Inoltre, le singole parole non hanno soltanto un rapporto di denotazione (denominazione) o riferimento con gli oggetti che designano, esse in maniera molto più articolata esprimono un senso.

Conseguentemente, alla luce di quanto esposto, anche se in maniera sintetica, possiamo ora richiamare le funzioni vitali assolte dal linguaggio e dalla comunicazione all’interno delle organizzazioni e dei sistemi sociali:

  • riduzione della complessità;
  • gestione dell’incertezza/rischio;
  • mediazione del conflitto.

Linguaggio e comunicazione, permettendo la condivisione delle risorse informative e conoscitive, rappresentano il vero valore aggiunto dell’azione sociale che si caratterizza essenzialmente come un problema di conoscenza e di gestione delle informazioni = complessità, incertezza, insicurezza, fiducia, legame sociale, paura, fiducia, coesione etc. […] (Dominici 1996 e sgg.)Per poter arrivare a riflettere ed analizzare il tema dell’etica (e della complessità) dell’informazione e della comunicazione è assolutamente necessario, per non dire propedeutico, tentare di chiarire prima alcune questioni riguardanti il rapporto tra linguaggio e realtà e, in secondo luogo, le funzioni che linguaggio e comunicazione assolvono all’interno dei sistemi sociali. Evidentemente, nel far questo, si è costretti ad individuare e definire alcuni percorsi teorici piuttosto articolati ma convincenti nel supportare le nostre argomentazioni che, peraltro, non possono non basarsi su una presa di posizione che intendiamo assumere in questa sede rispetto alle questioni etiche e deontologiche. Sono questioni strettamente correlate a quelli che possiamo definire sistemi di orientamento valoriale.Per entrare nel merito dell’analisi, è possibile sostanziare da subito tali questioni, ponendoci dei quesiti che – teniamo a precisare – non vogliono rappresentare, e di fatto non rappresentano, la semplice riformulazione delleben note aporìe dell’etica della comunicazione e, più in generale, degli studi su linguaggio e comunicazione. Altrimenti, la nostra analisi rischierebbe di rimanere ancorata ad un piano puramente descrittivo, legato inevitabilmente soltanto ad una (presunta) correttezza tecnica e formale. Si tratta di domande le cui risposte si potrebbero rivelare (continueremo a ritornarci), a nostro avviso, oltre che funzionali, assolutamente fondamentali per il tipo di lettura critica che vogliamo proporre.

È il linguaggio che prende forma a partire dagli oggetti a cui si riferisce oppure è il linguaggio a far esistere i propri oggetti, definendoli e rendendoli “argomenti del sapere”?

Qual è il rapporto tra linguaggio, parole e oggetti denominati?

E a seguire: qual è la relazione tra parole, oggetti e significati?

Quali sono le funzioni essenziali che assolvono il linguaggio e la comunicazione all’interno dei gruppi e dei sistemi sociali?

È possibile, alla luce di una natura intrinsecamente complessa e sfaccettata, arrivare alla definizione di un linguaggio e di una comunicazione “neutri” ed equidistanti, assolutamente “oggettivi” e in grado di preservare i principi della correttezza, dell’obiettività e della responsabilità?

Quali sono, in tal senso, il ruolo e le funzioni che concretamente assolvono i codici deontologici (etiche dell’intenzione)?

E quale può essere il contributo (valore aggiunto) della prospettiva etica e, in particolare, dell’etica della responsabilità?

Ed ancora: è possibile trovare un accordo sulle dimensioni non soltanto semantiche ma pragmatiche del comunicare?

E per ultima, ma non meno importante: esiste una correlazione – noi ne siamo convinti – tra formazione/possesso delle competenze/aggiornamento continuo e il comunicare in maniera eticamente responsabile?» (Dominici, 2003 e 2008).

 

Comunicazione è complessità (1996)

Da queste considerazioni preliminari e dalle (sempre poche) domande formulate, si comprende ancora una volta la complessità dei diversi livelli di analisi da considerarsi. Una complessità che, ancora una volta, richiede un approccio sistemico, fondato su multidisciplinarità e interdisciplinarità.

Etica e complessità delle immagini …tra arbitrarietà e ambiguità

Per ciò che concerne la complessità delle immagini, possiamo senz’altro introdurre una serie di argomentazioni più mirate e funzionali. Prima di tutto: già a livello di definizione/i, non possiamo non rilevare come si tratti, a tutti gli effetti, di un “oggetto/sistema complesso”, che le stesse definizioni non riescono ad abbracciare nella sua multidimensionalità, non soltanto semantica, e nelle numerose variabili coinvolte. Si tratta di definizioni incomplete e che si mostrano deboli, per tante ragioni.

Vediamone alcune. L’immagine è: “1) Forma esteriore di un corpo percepita coi sensi, specialmente con la vista; 2) (fis.) In un sistema ottico, riproduzione reale o apparente di un oggetto secondo le leggi dell’ottica geometrica; 3) rappresentazione grafica o plastica di un oggetto reale; 4) (est.) come figura, riproduzione esatta o estremamente simile di qualcuno o qualcosa; 5) figura che evoca una specifica realtà; 6) (mat.) rappresentazione; 7) Rappresentazione mentale rievocata dalla memoria; 8) Prodotto della fantasia, dell’immaginazione etc.” (Vocabolario di N.Zingarelli). Ancora, l’immagine è: “Forma esteriore degli oggetti corporei in quanto viene percepita attraverso il senso della vista; rappresentazione con mezzi tecnici o artistici della forma esteriore di cosa reale o fittizia” (Treccani). Ma, potremmo anche affermare che… le immagini, in fondo, sono come le “cose”, anche se sono cose senza materia, per dirla con Aristotele…Partendo da questi presupposti, le immagini possono essere intese come prodotti “complessi” dell’immaginazione, legate a sensazioni e percezioni.

Le immagini, inoltre,  da sempre sono viste e identificate con le “sensazioni” e/o le “percezioni”; e, con le nostre parole, potremmo dire, l’immagine è segno e similitudine delle cose, che esiste e persiste oltre, al di là delle “cose”.

A tali dimensioni, già di per sé complesse, variabili e incerte, si potrebbero aggiungere la riflessione e l’analisi del ruolo e delle funzioni assolte dall’immagine/dalle immagini all’interno del nuovo ecosistema globale della comunicazione (1996), che abbiamo così definito in passato:

«La società interconnessa è una società ipercomplessa, in cui il trattamento e l’elaborazione delle informazioni e della conoscenza sono ormai divenute le risorse principali; un tipo di società in cui alla crescita esponenziale delle opportunità di connessione e di trasmissione delle informazioni, che costituiscono dei fattori fondamentali di sviluppo economico e sociale, non corrisponde ancora un analogo aumento delle opportunità di comunicazione, da noi intesa come processo sociale di condivisione della conoscenza che implica pariteticità e reciprocità (inclusione). La tecnologia, i social networks e, più in generale, la rivoluzione digitale, pur avendo determinato un cambio di paradigma (1996), creando le condizioni strutturali per l’interdipendenza (e l’efficienza) dei sistemi e delle organizzazioni e intensificando i flussi immateriali tra gli attori sociali, non sono tuttora in grado di garantire che le reti di interazione create generino relazioni, fino in fondo, comunicative, basate cioè su rapporti simmetrici e di reale condivisione. In altre parole, la Rete crea un nuovo ecosistema della comunicazione ma, pur ridefinendo lo spazio del sapere, non può garantire, in sé e per sé, orizzontalità o relazioni più simmetriche. La differenza, ancora una volta, è nelle persone e negli utilizzi che si fanno della tecnologia, al di là dei tanti interessi in gioco». (cfr.  https://www.ipsa.org/news/member-book/dentro-la-societ%C3%A0-interconnessa-prospettive-etiche-un-nuovo-ecosistema-della-comuni )

Infine, l’immagine ha un potere, anzi, probabilmente, ha molti poteri. Si potrebbe scrivere molto a lungo, chiamando in causa numerosi saperi e campi disciplinari. Temi e questioni sulle quali, come noto, esiste una letteratura scientifica a dir poco sterminata.

Tuttavia, in questo caso, attraverso la recensione di Achille Zarlenga, lascio volentieri la parola ad un libro interessante e di cui suggerisco una lettura attenta. Di Giovanni Scarafile, Etica delle immagini, Morcelliana, Brescia 2016. In questa sede, mi limito a dire che l’Autore, muovendosi dentro un approccio interdisciplinare e transdisciplinare (attualmente, invocato e dichiarato da tutti, ma praticato da pochi), mostra tutta l’ambivalenza e, appunto, la complessità dell’argomento, ponendo l’attenzione sulla dimensione etica della immagine/delle immagini. Una lettura, e percorsi di lettura, al di là dell’etica delle immagini, che ci aiutano a riflettere sul senso profondo della comunicazione e del comunicare.

 

Di seguito, il testo della recensione. Buona riflessione!

Giovanni Scarafile, Etica delle immagini, Morcelliana, Brescia 2015. di Achille Zarlenga

Etica delle immagini, libro che Giovanni Scarafile, docente di Etica della comunicazione e di Filosofia del cinema presso l’Università del Salento, nella collana «Etiche Speciali» diretta da Adriano Fabris per l’editore Morcelliana, costituisce un indubbio materiale di interesse per numerosi settori specifici dell’indagine filosofica che spaziano dall’estetica alla morale, dalla filosofia del linguaggio all’ermeneutica, dalla semiotica alla fenomenologia. L’esiguo spessore del volume non induca in errore il lettore poiché, una volta approcciato il testo, ci si renderà conto della interdisciplinarità del campo di ricerca il cui merito è di chiamare in causa i più variegati ambiti del sapere. La domanda fondamentale a cui l’autore tenta di rispondere è la seguente: qual è la richiesta di senso che si cela dietro il soggetto che percepisce l’immagine? O, in altre parole, che tipo di significato attribuisce l’interprete all’oggetto? Per ottemperare al suo scopo, Scarafile non si limiterà a fornire una semplice descrizione della varie implicazioni sussistenti tra i concetti dell’etica e dell’estetica ma, attraverso il riferimento a personaggi letterari come Johannes e Lord Chandos — protagonisti rispettivamente delle opere di Kay Munk e Hugo von Hofmannsthal — punterà a dimostrare come all’esercizio di qualsiasi concetto sia complementare la parola, medium attraverso il quale si schiude l’irripetibile univocità e singolarità dell’evento, resosi palese grazie al proficuo legame istituito tra scrittura e creazione dell’identità personale. Analogamente al Leviatano di Thomas Hobbes, la prima pagina di questo scritto è costituita dalla copertina dove, non a caso, l’autore decide di collocare il quadro The Ambassadors (1533) dipinto da Hans Holbein il Giovane, il cui significato è di indicare l’impotenza dell’uomo e il suo memento mori — a dispetto di tutti gli altri oggetti presenti nel dipinto che, invece, indicano la potenza tecnologica del mondo moderno. Entrando all’interno delle pagine, notiamo che il primo riferimento teoretico è Kant che, proprio nella sua Critica del giudizio, tenta di gettare un ponte tra mondo morale e mondo sensibile. Al termine dell’Introduzione vengono poi compendiate le tre questioni capitali del libro, ovvero: a) nesso tra immagine e valori; b) oggettività della rappresentazione fotografica; c) implicazione spettatoriale. Lo stesso piano dell’opera si snoda su questi punti, che ne costituiscono l’ossatura. I capitoli del libro sono quindi intelligentemente costruiti dall’autore proprio sulle intuizioni appena menzionate e permettono di prendere coscienza, fin da subito, del percorso che egli vuol battere insieme al lettore. Per quanto concerne il primo punto, Scarafile, mediante l’ausilio dell’indagine fenomenologica, riesce ad agganciare la tematica dell’immagine alla sfera dei valori, spostando il focus sulla nozione di interdisciplinarità che, seguendo la lezione di Popper, diviene la base per affrontare le questioni poste dai problemi appartenenti alla più diverse matrici — nel caso specifico del testo, i quesiti derivanti dall’ambito morale e iconografico. Tale approccio esige una determinata tassonomia che l’autore formula mediante i seguenti termini: narrow, broad, shared, cooperative, methodological e theoretical (p. 28). L’accento posto su questa peculiare tipologia di analisi gli consente di mostrare quella che pare essere la questione più spinosa inerente all’immagine, ossia la crisi dei valori a cui è sottoposta la sua interpretazione. Il problema può tuttavia essere aggirato mediante il riferimento alla triade che si istituisce tra arte, fenomenologia e semiotica, in quanto l’interconnessione tra queste discipline funge da viatico alla tematica esplicitata nel secondo punto, che si costituisce come parte maggiormente problematica del testo. In questa sede l’intento di Scarafile è di invalidare uno dei paradigmi portanti della riflessione fotografica, ossia il suo legame con l’oggettività. Per adempiere al suo scopo, l’autore punta ad eliminare i comuni pregiudizi che gravano sull’immagine fotografica mediante l’utilizzo di un preciso armamentario teoretico di cui ci limitiamo unicamente ad elencare le seguenti voci: intenzionalità predicativa delle immagini; dinamica di ricezione di un’immagine; climax evenemenziale; tipologia del segno (pp. 46-47). L’obiettivo è quindi sfatare l’idea in base alla quale la fotografia coincida con la sottrazione della soggettività e, contemporaneamente, mostrare come la sua presunta oggettività sia in realtà più mitologica che altro; per far ciò, Scarafile si avvarrà di alcune testimonianze dirette, ricavate dagli esperimenti fotografici condotti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento sui pazienti dell’ospedale psichiatrico della Salpêtrière. L’analisi del rapporto tra isteria e fotografia gli permette di sottolineare il ruolo attivo del paziente nella interazione con il medico — un concetto già espresso da Michel Foucault in Nascita della clinica, che tuttavia non viene menzionato da Scarafile. Ciononostante, il percorso battuto gli consente di porre l’accento sul residuo anarchico che permane nella fotografia e, allo stesso tempo, di evidenziarne il merito di rendere vana qualsiasi pretesa di valutazione oggettiva della malattia. In queste pagine vi è inoltre un riferimento che, seppur abbozzato, apre la strada ad un ampio ventaglio di domande, ovvero il significato pragmatico dell’immagine e il suo rapporto con il contesto nel quale viene esperita. Questa particolare dialettica tra l’oggettività dell’immagine fotografica e la condizione storico-esistenziale del soggetto immortalato ha avuto il merito di isolare due tendenze: «a) l’ineliminabilità del ruolo dello spettatore interprete; b) l’affermarsi di una nozione risemantizzata di oggettività che include l’interprete più che espungerlo»(p.77). Le conclusioni ricavate nel secondo punto aprono la strada all’analisi della terza questione, concernente il ruolo dell’implicazione spettatoriale. Il primo elemento degno di nota è l’iscrizione dell’immagine all’interno di un particolare campo, o reticolo, di formazioni discorsive; il riferimento non è casuale, infatti il rimando alla forza latente del linguaggio consente a Scarafile di chiamare in causa il potenziale ontologico in esso contenuto. L’equivalenza pattuita tra immagine e parola permette di affermare che «se, nel caso del linguaggio, la sostanza è indipendente dalle apparenze, nel caso delle immagini, la sostanza è dipendente dalle apparenze. In altre parole, un’immagine non può mai essere separata dal contesto, quando il contesto cambia, l’identità stessa di ciò che è rappresentata è alterata» (p. 87). Ai fini di un’esatta comprensione dell’immagine, il ruolo dello spettatore assurge quindi a fondamento indispensabile e serve a ribadire l’esclusività della visione personale. Tale approccio ermeneutico — Gadamer è una presenza costante in queste pagine — può, secondo l’autore, «rivendicare per sé l’attribuzione al dominio morale, in ragione della consustanzialità del rimando all’oggettività del conoscere e all’implicazione dello spettatore» (p. 102). La rappresentazione della cosa pare dunque legarsi indissolubilmente allo sguardo dello spettatore — quasi che ivi riecheggi la proposizione 6.421 del Tractatus logicus-philosophicus di Wittgenstein, in base alla quale etica ed estetica sono tutt’uno — tuttavia Scarafile introduce un elemento di indubbia novità, in quanto le due dimensioni non entrano in relazione univoca, bensì permangono in un rapporto biunivoco; proprio nella parzialità di tale rapporto si situa la possibilità di «appropriazione dell’evento del linguaggio». L’utilizzo delle virgolette è d’obbligo poiché, in appendice allo scritto, vi è un saggio, pubblicato originariamente nel 2010 con il titolo Johannes e Chandos: cenni sull’evemenzialità della parola tra logos e dabar, che tenta appunto di pensare l’evento del linguaggio mediante il duplice riferimento alla dimensione ebraica e greca. Se il protagonista Johannes del film Ordet, tratto dall’omonima opera del pastore protestante Kay Munk, rappresenta la dialettica di visto-non visto e detto-non detto, Lord Chandos, scaturito dalla penna di Hugo von Hofmannsthal, pone invece il problema dell’identità. Questo rapporto tra scrittura ed io, questa coincidenza tra parola ed essere, viene rinvenuta da Scarafile direttamente nella radici del dabar ebraico, esemplificato da Johannes, visto che «nella lettura ebraica della Bibbia si dà spazio ad una sorta di resistenza alla Parola» (p. 137). L’incursione nei terreni del giudaismo è funzionale alla strategia concettuale dell’autore dato che gli consente di mettere in guardia il lettore dalla confusio linguarum, errore che scaturisce dalla comprensione idolatrica del nome. Tale interpretazione viene riagganciata al tema dell’immagine e funge da ausilio all’intendimento del carattere, eminentemente prospettico, della coscienza rappresentativa, che può accedere alla comprensione delle cose solo mediante i lati e le sfaccettature che esse lasciano intravedere. La riflessione su questi casi letterari permette a Scarafile di chiudere il saggio tramite l’edificazione di un ponte ideale che, collegando logos e dabar, tenta di salvaguardare la possibilità di un ascolto dell’essere senza, per questo, costringerlo all’interno di registri predefiniti. In conclusione quindi, Etica delle immagini, si rivela essere un saggio altamente denso di spunti e riferimenti teoretici e, grazie all’ausilio di elementi artistici quali dipinti, fotografie, film, libri, lascia aperta l’eventualità di una fruizione estetica del prodotto culturale, imperniata su di una sua positiva ricezione in campo morale.

 

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I testi che condivido sono il frutto di lavoro (passione!) e ricerche e, come avrete notato, sono sempre ricchi di citazioni. Continuo a registrare, con rammarico e una certa perplessità, come tale modo di procedere, che dovrebbe caratterizzare tutta la produzione intellettuale (non soltanto quella scientifica e/o accademica), sia sempre meno praticata e frequente in molti Autori e studiosi.

Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle tante scorrettezze ricevute in questi anni. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da vent’anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede. 

Buona riflessione!

Immagine: opera di M.C. Escher