A Roma, nel corso del XXX Congresso Nazionale AIF, si sono confrontati, su questi ed altri temi, di fondamentale importanza, studiosi ed esperti di ambiti disciplinari e professionali differenti, provando a ri-costruire una visione complessiva del mutamento in atto, uno sguardo d’insieme, un’analisi che non può che essere multidisciplinare, interdisciplinare, sistemica. Condividendo conoscenze, competenze, esperienze, vissuti. Al di là dei confini e di qualsiasi logica di separazione. Tentativi di dialogo lungo traiettorie irregolari e discontinue. Osservazioni e attraversamenti della e sulla complessità.
Il Congresso, “Il ruolo della formazione nell’epoca dell’informazione. Dalle competenze trasversali alle competenze staminali”, è stato interamente seguito da Radio Radicale e potrete accedere ai contenuti presenti sulla pagina (cliccare sul titolo).
Condivido volentieri…
Come sempre, senza “tempi di lettura”. Al termine del testo, come sempre (!) links ad altri contributi (e pubblicazioni) e riferimenti bibliografici #CitaregliAutori
Il cambiamento si annida sempre più nelle zone di tensione e conflitto, nelle nostre debolezze e inadeguatezze, nelle anomalie, nelle fluttuazioni e nei dilemmi che caratterizzano la conoscenza, l’azione sociale, i sistemi complessi (adattivi); il cambiamento si annida perfino nella nostra incompletezza che ci permette di essere creativi e ricorrere all’immaginazione, cercando percorsi alternativi, abbandonando, se necessario, le vie già percorse; il cambiamento si annida sempre più nei momenti di incertezza, in quegli errori e in quelle vulnerabilità che, spesso, ignoriamo e/o cerchiamo di non vedere. Un cambiamento (e un’innovazione) che rischia, tuttavia, di essere opportunità “per pochi”, se non ripenseremo a fondo, in maniera radicale, educazione, formazione, ricerca. Come ripeto spesso, occorre mettere in discussione i saperi, i confini tra i saperi, le pratiche consolidate, riconsiderando la valenza strategica delle emozioni e degli immaginari individuali e collettivi; in altri termini, è necessario avere (anche) il coraggio di rompere equilibri, spezzare le catene della tradizione, abbandonare il certo per l’incerto; scegliere, almeno provvisoriamente, di correre il rischio di essere vulnerabili. Abitando i confini, i territori inesplorati, oltrepassando quei vincoli e quelle logiche di separazione (tipiche delle istituzioni educative e formative) che ci impediscono di cogliere il senso più profondo del vitale, del sociale, del relazionale e di comprenderne la complessità e l’ambivalenza. Dimensioni appunto complesse, mai riducibili/riconducibili a formule matematiche e/o sequenze di dati. Non da oggi, si avverte l’urgenza, a maggior ragione nella civiltà del controllo e della simulazione, di educare all’imprevedibilità, valorizzando l’errore e costruendo una vera “cultura dell’errore” (Dominici, 1995 e sgg.) all’interno dei processi educativi e formativi (non soltanto). Occorre, pertanto, essere consapevoli – non soltanto a parole e nel discorso pubblico – che il futuro (come ripetiamo sempre, la “vera” innovazione, quella sociale e culturale) è di chi riuscirà a ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico (ibid.), di chi riuscirà a ridefinire e ripensare la relazione complessa tra naturale e artificiale; di chi saprà coniugare (non separare) conoscenze e competenze; di chi saprà coniugare, di più, fondere le due culture (umanistica e scientifica) sia a livello di educazione e formazione, che di definizione di profili e competenze professionali (sulle competenze: non mi stancherò mai di ripeterlo…sono necessarie sia le hard che le soft skills). Facendo attenzione alle continue tentazioni delle vie brevi, delle soluzioni semplici, delle strade giù percorse e, per questo, rassicuranti che spesso nascondono soltanto interessi economici e di potere, visioni ideologiche rese ben visibili, oltre che accettabili e condivisibili, attraverso un’incessante attività di promozione e marketing degli eventi. “Innovare significa destabilizzare” (cit.), ma occorre, prima di tutto, educare e formare criticamente le Persone.
Questa sfida è “la” sfida e – sia chiaro – si tratta di una sfida dal carattere globale, e non soltanto locale/nazionale. D’altronde: come ripensare il modello di sviluppo senza ridefinire/rinnovare/ripensare l’educazione e la formazione? Come contrastare vecchie e nuove forme di discriminazione, senza lavorare a fondo su educazione e processi educativi? Come contrastare le nuove disuguaglianze/asimmetrie, a livello locale e globale – che sono asimmetrie soprattutto di carattere conoscitivo e culturale – senza ripartire, ancora una volta, dalle questioni educative e culturali? Come contrastare corruzione e criminalità diffuse, senza pensare concretamente, oltre che a reprimere e sorvegliare, a definire e realizzare le condizioni di prevenzione di tali fenomeni (complessi) e di una “cultura della prevenzione e della responsabilità”?
In conclusione: ripensare educazione e formazione – “entità” strettamente correlate e interdipendenti, che vanno pensate come un unico sistema (ibidem) …vedrete che, anche su questo punto, tutti diranno di averlo sempre sostenuto – è la sfida delle sfide, destinata già ora a segnare un momento di passaggio decisivo, con profonde implicazioni e ricadute, non soltanto per il lavoro e i profili professionali del futuro, ma anche, e soprattutto, per la cittadinanza, l’inclusione, la democrazia, il “vivere insieme”.
Come vado ripetendo ormai da molti anni, stiamo educando e formando dei meri esecutori di mansioni/funzioni e di regole (Dominici, 1995 e sgg.) che, oltre a non interrogarsi su ciò che eseguono, applicano e osservano, non sono/sembrano in grado di allargare le proprie visioni e di avere uno sguardo d’insieme. Sanno soltanto isolare e separare (eseguire) e non trovare le connessioni/relazioni tra le parti/variabili/concause. Noi dovremmo educare e formare a vedere gli oggetti come sistemi e non i sistemi come oggetti (1995 e sgg.). Trattare i sistemi complessi come fossero sistemi complicati significa partire dall’illusione della loro prevedibilità e del controllo totali. Un’illusione di cui spesso continuiamo a pagare le conseguenze. Penso all’Intelligenza Artificiale e ai nuovi sistemi di automazione, di gestione delle informazioni, alle pretese di invulnerabilità determinate dalle nuove sofisticate tecnologie. Come affermato più e più volte in passato, “Ci siamo illusi, non da oggi, di poter espellere l’errore e l’imprevedibilità, oltre che dai processi educativi e formativi, dalle dinamiche organizzative e, più in generale, dai sistemi sociali” (ibidem): ma il fattore umano è e sarà sempre quello decisivo, anche in termini di fattore di vulnerabilità di qualsiasi sistema complesso.
#CitaregliAutori
Allego volentieri la pubblicazione “Oltre la libertà di essere sudditi”:
http://www.casadellacultura.it/viaborgogna3/viaborgogna3-n5-allegato.pdf
Karl Jaspers (1925) «L’autenticità è ciò che è più profondo in contrapposizione a ciò che è più superficiale; per es. ciò che tocca il fondo di ogni esistenza psichica di contro a ciò che ne sfiora l’epidermide, ciò che dura di contro a ciò che è momentaneo, ciò che è cresciuto e si è sviluppato con la persona stessa contro a ciò che la persona ha accattato o imitato».
Parole su cui riflettere a lungo, a mio avviso, oggi ancor più attuali…
Ri-condivido alcuni brani pubblicati in passato:
L’ipercomplessità e le “false dicotomie” (1995)
Natura versus cultura; naturale versus artificiale; Umano versus tecnologico, cultura versus tecnologia, teoria versus ricerca/ pratica; formazione scientifica versus formazione umanistica; pensiero e ragione versus emozioni; ragione versus creatività e immaginazione; corpo versus mente; complessità versus specializzazione; interdisciplinarità versus specializzazione; conoscenze versus competenze; forma/e versus contenuto; hard skills versus soft skills (le ho definite, molti anni fa, “false dicotomie”). Proviamo ad osservare, a descrivere, a riconoscere, a comprendere la complessità, l’umano, la vita, la vitalità dello spirito, quell’ “essenziale” che è (sempre) “invisibile agli occhi”(cit.) ricorrendo sempre a divisioni, separazioni, distinzioni, fratture che spesso non portano alla conoscenza e/o al sapere, bensì ad un senso di appaesamento e rassicurazione, caratteristico di tutte le culture (di fatto, portatrici di identità), rispetto all’incertezza ed alla variabilità della vita e del reale. Isolare, separare e recludere i saperi, le conoscenze, le esperienze, i vissuti, è operazione complessa che, da sempre, segna l’evoluzione dei sistemi sociali, delle organizzazioni, dell’azione sociale. Si tratta, peraltro, di funzioni strategiche assolte proprio dai modelli culturali. D’altronde definire e creare distinzioni fa parte della nostra educazione e formazione al pensiero logico, anche se c’è dell’altro.
Continuiamo a vedere, ad osservare, a tentare di comprendere la realtà secondo logiche, modelli, schemi che ne riducono (apparentemente) la varietà, l’imprevedibilità, la ricchezza. Convinti di poter ingabbiare tutta la vitalità dello spirito, la complessità dell’umano, in formule matematiche e sequenze infinite di dati e numeri. Convinti di poter misurare anche la “qualità” in termini obiettivi, oggettivi, scientifici – a mio avviso, in molti casi (vorrei dire “sempre”, ma mi tengo sempre un margine di dubbio e incertezza), si tratta di una contraddizione in termini – ricorrendo esclusivamente a strumenti e dati quantitativi, e con riferimento a tutti gli ambiti della prassi e della produzione materiale e intellettuale, ricorrendo a semplificazioni (sempre, seducenti) presentate, ancora una volta, come “dati di fatto”.
Continuiamo a cercare una conoscenza che confermi le nostre convinzioni, le nostre ipotesi di partenza, i nostri modelli culturali ed educativi, i nostri pregiudizi e i nostri stereotipi. Una conoscenza che rimane dei pochi, delle èlites, spesso schiacciata sull’IO, reclusa nell’IO. Una conoscenza che si configura quasi come dominio esclusivo dell’io, di tanti io isolati nella folla, nelle moltitudini…connessi, iperconnessi, ma incapaci di comunicare e riconoscere l’ALTRO DA NOI. Processi e dinamiche complesse che non tengono in considerazione la natura intrinsecamente collaborativa e cooperativa, oltreché condivisa dei processi culturali e comunicativi, oltre che della stessa conoscenza. Lungo queste traiettorie, confuse e fluttuanti, si annidano i dilemmi della ipercomplessità e della società ipercomplessa…e le parole, i segni, i linguaggi, più o meno complessi, non si fanno più ponti bensì muri, separazioni, elementi di divisione.
Continuiamo a vedere, osservare, provare ad comprendere i sistemi come oggetti. In altre parole continuiamo a dividere, a separare ciò che invece è legato, strettamente interconnesso e interdipendente, spinti anche e soprattutto dai nostri limiti, dalle nostre inadeguatezze, dalla nostra incompletezza e vulnerabilità.
Ed è proprio da qui che dovremmo ripartire, ripensando a fondo l’educazione e la formazione, recuperando le dimensioni complesse della complessità educativa (1995 e sgg.), ricomponendo la frattura tra l’umano e il tecnologico, tra l’umano e il naturale, tra l’umano e l’artificiale, tra il dentro e il fuori. E perché, oltre ai testi, ci sono i contesti che li influenzano. Nel quadro di relazioni sistemiche e di un sistema di significati e valori definito e costruito, socialmente e culturalmente, proprio all’interno di quel gruppo e o di quel contesto. È tempo di riportare le emozioni, la creatività, l’immaginario, al centro dei processi educativi e formativi. È tempo di ricreare ponti e sinergie, è tempo di ricomporre ciò che è stato con troppa superficialità separato e diviso, consapevoli che, soltanto dalla condivisione di una “cultura dell’errore” e dell’imprevedibilità (ibidem), si potranno generare conoscenza e creatività.
Sfera cognitiva, sfera emotiva e – aggiungo – sfera sociale. È tempo di ricomporre alcune fratture che caratterizzano non soltanto i saperi, le conoscenze, le competenze, consapevoli della natura intrinsecamente collettiva e collaborativa della conoscenza (cfr. Sloman, S., Fernbach, P., 2017; Dominici, 2005, 2014, 2017b, 2017c, 2018). Si tratta di fratture che segnano anche le singole esistenze, la realtà e le nostre visioni della realtà. Si tratta di fratture importanti e radicate nelle culture organizzative e, perfino, in quelle scientifiche; fratture che condizionano, non soltanto l’evoluzione dei saperi e della conoscenza, ma anche le nostre abilità e capacità di abitare l’ipercomplessità e rispondere, attraverso anche i modelli culturali, alle istanze dell’incertezza, oltre che alle anomalie del vivente e del reale. Si tratta di fratture che condizionano anche, e soprattutto, le nostre esistenze e i nostri vissuti sociali e culturali, il modo stesso di concepire la vita e l’esistenza, le relazioni, l’incontro con L’Altro da Noi, il pensiero e l’azione rispetto a ciò che è e sarà sempre ingovernabile, imprevedibile, talvolta ignoto. “Dentro” e “fuori”: è tempo di abitare i confini e le tensioni che questa ipercomplessità comporta.
Perché soltanto dalla ben nota “fine delle certezze” (Prigogine) potranno generarsi conoscenza e creatività; e la conoscenza, da sempre, si annida negli errori della vita (Canguilhelm).
Segnalo alcuni articoli e contributi:
- Tra conoscenza e controllo sociale (spunti per una lettura critica)
- “Per un’innovazione inclusiva**: ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico”
- “Innovare significa destabilizzare”. Perché la (iper) complessità non è un’opzione
- “Il grande equivoco. Ripensare l’educazione (#digitale) per la Società Ipercomplessa”
- “La società asimmetrica* e la centralità della “questione culturale”: le resistenze al cambiamento e le “leve” per innescarlo”
- “L’ipercomplessità e una crisi non soltanto economica. Ripensare il sapere e lo spazio relazionale”
- “La condizione del sapere nella società della conoscenza: tra condivisione e riproducibilità “tecnica”(?)”
- La comunicazione ridotta a marketing #PianoInclinato
Tra le interviste, condivido volentieri:
- Intervista concessa a l’Huffington Post: “La cultura della complessità come cultura della responsabilità”
- Intervista concessa a VITA: “Nella società ipercomplessa, la strategia è saltare le separazioni”
#CitaregliAutori
Riferimenti bibliografici (una selezione) e percorsi di approfondimento…
Riferimenti bibliografici
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N.B. Condividete e riutilizzate pure i contenuti pubblicati ma, cortesemente, citate sempre gli Autori e le Fonti anche quando si usano categorie concettuali e relative definizioni operative. Condividiamo la conoscenza e le informazioni, ma proviamo ad interrompere il circuito non virtuoso e scorretto del “copia e incolla”, alimentato da coloro che sanno soltanto “usare” il lavoro altrui. Le citazioni si fanno, in primo luogo, per correttezza e, in secondo luogo, perché il nostro lavoro (la nostra produzione intellettuale) è sempre il risultato del lavoro di tante “persone” che, come NOI, studiano e fanno ricerca, aiutandoci anche ad essere creativi e originali, orientando le nostre ipotesi di lavoro.
I testi che condivido sono il frutto di lavoro (passione!) e ricerche e, come avrete notato, sono sempre ricchi di citazioni. Continuo a registrare, con rammarico e una certa perplessità, come tale modo di procedere, che dovrebbe caratterizzare tutta la produzione intellettuale (non soltanto quella scientifica e/o accademica), sia sempre meno praticata e frequente in molti Autori e studiosi.
Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle tante scorrettezze ricevute in questi anni. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da vent’anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede.
Buona riflessione!
Immagine: opera di Catrin Welz-Stein