Educare alla complessità per un’etica della responsabilità: libertà e “valori” nella Società Interconnessa

All’interno del dibattito sull’etica, si è delineata fin dall’inizio una distinzione netta di fondo tra le cosiddette etiche deontologiche e le etiche teleologiche o conseguenzialiste, le prime facenti riferimento a dei principi considerati fondamentali, le seconde finalizzate alla valutazione critica delle conseguenze dell’azione umana.

 In un altro ambito anche Max Weber ha evidenziato, nella parte iniziale della sua opera Il lavoro intellettuale come professione, il problema della differenza esistente tra un agire riferito a dei principi ed un agire condotto all’interno di un’etica della responsabilità, che non può prescindere appunto dalla considerazione delle conseguenze di ogni tipo di scelta[1].

Il grande sociologo tedesco, nel tentativo di superare un certo dogmatismo che contraddistingueva le dottrine dell’agire morale proposte fino a quel momento, si allontana soprattutto dalla concezione etica proposta da Kant che, più di ogni altra, aveva influenzato (non soltanto) il pensiero filosofico. Immanuel Kant, infatti, nella Critica della Ragion Pratica e nella Fondazione della Metafisica dei Costumi, aveva posto a fondamento della sua dottrina morale il principio assoluto dell’imperativo categorico universalmente valido[2], che non prendeva assolutamente in considerazione l’esito più o meno favorevole dell’azione. Il filosofo tedesco crede in un’etica del “dovere per il dovere” che può realizzarsi soltanto perché la ragione pratica coincide con la volontà. Per Kant, dietro ogni volontà di azione c’è una “regola contraddistinta dal dover essere”; inoltre, esistono due tipi di imperativo, quello “ipotetico”, che è soggettivo e che motiva l’azione al raggiungimento di uno scopo e quello “categorico”, in cui la legge morale si configura come dovere.

Conseguentemente, il problema che anche Weber ha dovuto affrontare è rappresentato dal fatto che un’etica, che si riferisca a dei principi inviolabili/indiscutibili, non può avere nello stesso tempo la pretesa di essere realmente pluralista, dal momento che non può tener conto della molteplicità dei valori e dei “mondi di vita” esistenti. Infatti, un’etica deontologica come quella kantiana difficilmente riesce a risolvere i contrasti profondi che, inevitabilmente, si creano ogni volta tra quei principi considerati assoluti, ma che, al contrario, tra loro risultano almeno in parte divergenti.

Tale contrapposizione, ancora più netta ed evidente all’interno delle diverse aree di studio, sfocia puntualmente nella formazione di “scuole di pensiero” antagoniste (fenomeno che, puntualmente, si ripresenta in ogni fase di cambiamento e innovazione): cioè, ogni qual volta ci si appresta a discutere di problemi di ordine morale, soprattutto nel delicato settore dei media e della comunicazione, emergono subito le differenze culturali e le molteplici Weltschauungen. Inoltre difficilmente si riesce a far convergere i diversi punti di vista verso il riconoscimento di valori, più o meno universalmente condivisi, che teoricamente dovrebbero far parte del bagaglio di conoscenze di ogni “buon” comunicatore (responsabile). Peraltro, sembra finalmente tornare d’attualità la questione della (necessaria) prospettiva universale di regole e valori che si ripropone come straordinariamente urgente, considerate le caratteristiche, strutturali e sovrastrutturali, del sistema-mondo e di quell’economia della conoscenza e della condivisione che sta ridisegnando assetti e gerarchie (per il momento, con dinamiche che continuano a vedere protagoniste soprattutto élites e gruppi ristretti, oltre evidentemente alle grandi società e multinazionali coinvolte), con notevoli implicazioni per tutta una serie di equilibri, sempre più instabili e incerti, tra logiche di controllo e sorveglianza (dominanti ed egemoni anche da un punto di vista culturale) e diritti fondamentali delle persone e dei cittadini (libertà vs. sicurezza). Sul piano delle “regole”, non possiamo non prendere atto come queste vadano ripensate in chiave transnazionale e universale (efficace, in tal senso, la categoria habermasiana di “politica interna mondiale”, su cui siamo tornati spesso), anche e soprattutto perché quelle esistenti sono state definite in condizioni storicamente differenti, con uno Stato-nazione “forte”: globalizzazione e connettività complessa, che ho definito le “condizioni empiriche” della Società Interconnessa, mettono in discussione le stesse categorie concettuali con le quali il pensiero giuridico, politico, sociale e filosofico hanno immaginato, teorizzato e progettato i moderni Stati-nazione. Sul piano dei “valori”, la sfida è ancor più complessa ma, allo stesso tempo, affascinante: in un sistema-mondo sempre più interconnesso e interdipendente, la “forza centrifuga” della frammentazione e della resistenza ad un certo modello di globalizzazione, destinato a produrre omologazione e omogeneità (Dominici), rende ogni possibile tentativo di definizione e/o di sintesi ancor più problematico. Ciò non significa che non si debba insistere in questa direzione (diritti umani, diritti di cittadinanza globale etc.),  consapevoli delle difficoltà e dei molteplici livelli di analisi coinvolti: dalla scuola (qualità e centralità dei processi educativi) alle organizzazioni internazionali. Ma i valori non possono essere più imposti a priori (si pensi alla questione dello “scontro di civiltà”), dal momento che sono sempre il risultato di complessi processi/dinamiche di negoziazione e contrattazione esattamente come le parole, il linguaggio e i codici che utilizziamo per renderli “visibili”, definirli e attribuire loro “significato”. In questa prospettiva, occorre partire da alcune categorie-chiave – che costituiscono altrettanti livelli di discorso e analisi tra loro correlati – su cui è di fondamentale importanza continuare a lavorare anche, e soprattutto, in vista di una loro traduzione operativa: logica, argomentazione, intersoggettività, agire comunicativo, generatività, competenze, asimmetrie, pariteticità, reciprocità, identità, riconoscimento, trasformazione antropologica, resilienza, nuovo contratto sociale, cittadinanza globale, cosmopolitismo – alla base di tali questioni, il ripensamento di libertà e responsabilità in chiave relazionale etc.).

Dal momento che, nel mondo della comunicazione, così come in ogni campo dell’attività umana, la questione fondamentale è – e rimarrà sempre – quella “di chiederci fino a che punto sia sensato che nella vita morale noi dobbiamo preoccuparci solo dei principi e della coerenza della nostra condotta con questi principi, senza minimamente tener conto delle conseguenze di una loro applicazione”. Ancora una volta, cruciale la questione delle competenze e della formazione critica (e continua) degli “addetti ai lavori” (non soltanto), una dimensione non separata (anzi!) da quella della libertà/responsabilità di informare – comunicare – condividere informazioni e conoscenze.

Ad avvalorare quanto detto, spesso accade che, nelle comunicazioni di massa e nella comunicazione online (ecosistema), i principi dei codici deontologici già esistenti vengano applicati senza prendere assolutamente in considerazione eventuali conseguenze negative, involontariamente scaturite da azioni comunicative certamente orientate in base a quegli stessi principi ritenuti legittimi ma che, in molti casi, non contemplano le straordinarie possibilità create dal progresso, le modalità comunicative caratteristiche degli attuali ecosistemi sociali e la natura ipertecnologica degli strumenti.

La comunicazione è divenuta ormai un processo globalizzante, che tuttavia finisce inevitabilmente con lo scontrarsi con una realtà sempre più complessa, polimorfa, frammentata e segnata dall’affermazione di quello che Max Weber ha chiamato politeismo dei valori[3].

Inoltre, avendo l’etica sempre rappresentato una risposta a problemi pratici reali degli attori sociali in un determinato contesto storico-culturale, occorre prendere atto che tali problemi sono sostanzialmente mutati, perché sono radicalmente cambiate le società, i sistemi, le istituzioni ed i rapporti sociali (rapporti di potere). Abbiamo parlato, in tempi non sospetti, di trasformazione antropologica e di “nuove soggettività” (1996).

La rinascita d’interesse per l’etica è legata al sorgere di nuove problematiche mai affrontate in precedenza, proprio perché legate all’avvento della modernità complessa, fondata su un capitalismo industriale in rapida evoluzione verso un’economia sempre più interconnessa e basata su processi di apertura che sfuggono alle tradizionali logiche di controllo e sorveglianza. Due dimensioni problematiche in ogni caso presenti.

Le straordinarie potenzialità comunicative dei nuovi “strumenti” (ambienti, processi etc.) richiedono un’attenta rivisitazione critica delle regole dell’etica tradizionale, e, se possibile, una riformulazione delle stesse in forma più attuale, soprattutto perché sembra essersi definitivamente affermato un nuovo concetto di soggettività responsabile, basato su una maggiore autonomia individuale e su spazi di libertà più ampi, in virtù di un linguaggio e di una comunicazione che rispecchiano nei contenuti, ogni giorno di più, l’offerta dell’industria culturale. Spazi di libertà che, come detto, vengono messi in discussione da tecnologie sempre più di controllo e non di cooperazione.

Ma prima di tutto, il nostro discorso non può non fare i conti con i grandi problemi lasciati aperti dal pensiero weberiano, e cioè: a) l’esistenza di due distinti piani di discorso, uno tecnico-scientifico e l’altro legato alle scelte, b) la netta separazione tra evidenze empiriche e giudizi di valore, c) il distacco tra ricerca storico-sociologica e ricerca morale.

Al centro del pensiero di Max Weber sono i valori che hanno sempre svolto un ruolo essenziale nella storia delle civiltà e si trovano su un piano separato rispetto a quello delle scienze empirico-descrittive: infatti, la scienza non offre alcuna certezza alla nostra condotta etica ed è in grado  solo di descrivere e studiare la società e la natura intorno a noi dal momento che «Una scienza empirica non può mai insegnare ad alcuno ciò che egli deve, ma soltanto ciò che egli può»[4].

Il pensiero weberiano non lascia aperta alcuna possibilità di colmare questo divario tra i due diversi piani di discorso, quello scientifico e quello etico-morale, e ciò, conseguentemente, fa capire quanto possa essere difficilmente superabile la tradizionale contrapposizione tra integrati e apocalittici nella communication research, dal momento che «Ogni valutazione fornita di senso del volere di un altro può essere soltanto una critica condotta in base alla propria intuizione del mondo, cioè una lotta contro l’ideale altrui sulla base di un proprio ideale»[5].

Il problema, forse insuperabile, consiste nel fatto che «L’analisi causale non fornisce assolutamente alcun giudizio di valore, ed un giudizio di valore non è assolutamente una spiegazione causale», e quindi il giudizio negativo o positivo, che potrebbe essere espresso sui media (e sul nuovo ecosistema, P.Dominici 1996), sulla loro natura e sui loro effetti «si muove in una sfera diversa da quella della spiegazione causale»[6], così come si trovano in un’altra sfera i problemi filosofici della responsabilità e della libertà[7] che, tuttavia, non devono essere oggetto della sola speculazione filosofica.

D’altra parte Max Weber sembra avvertire la difficoltà di definire un’etica, potremmo dire “ideale”, proprio perché è cosciente di quella che Jurgen Habermas chiama la “differenziazione dei mondi di vita che rende impossibile il riconoscimento di principi etici comuni, universali.

Lo stesso Weber, sostenendo l’esistenza di una pluralità delle sfere di valore, sente l’esigenza di differenziare i comportamenti e le scelte di tipo etico, così come si rende perfettamente conto dell’impossibilità della fondazione oggettiva e razionale delle norme etiche, in quanto «tra i valori si tratta in ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra dio e il demonio. Tra di loro non è possibile nessuna relativizzazione e nessun compromesso»[8].

Un’altra delle questioni fondamentali, sollevate dal grande sociologo tedesco, è il problema della formulazione di un giudizio di valore che implica, già di per sé, una “presa di posizione” nei confronti della realtà o dell’oggetto che si vuole descrivere.

Il punto cruciale è proprio questo: la realtà oggettiva tende all’entropia, ad un’evoluzione per differenziazione (processo non lineare) ed è pervasa dal caos, motivo per cui la conoscenza richiede un processo di riduzione della complessità ed una selezione della realtà stessa operata in base ad una gerarchia di valori, che non sono assoluti, ma relativi alla cultura, al contesto storico e all’individuo (selezione e realizzazione di possibilità conoscitive).

Tale selezione è la condizione necessaria che rende possibile ogni tipo di conoscenza e la relazione con i valori è essenziale per il complesso processo conoscitivo, che, altrimenti, non porterebbe ad alcun tipo di risultato significativo, infatti: «La cultura è una sezione finita dell’infinità priva di senso del divenire del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell’uomo»[9].

Quindi è, comunque e sempre, l’individuo (la Persona) a rendere significativa la realtà osservata (funzioni della cultura), o alcuni suoi aspetti: da ciò si deduce che esistono una pluralità di modi di conoscere la realtà ed una pluralità di punti di vista, che fanno riferimento a schemi valutativi della realtà diversi tra loro[10].

Muovendo da questa consapevolezza, non mi stancherò mai di ribadire la rilevanza strategica del “pensiero critico” (e non soltanto descrittivo), della logica che lo dovrebbe sempre “guidare” nel suo articolarsi; di un approccio alla complessità e di una prospettiva sistemica su tutte le questioni che affrontiamo: perché dobbiamo essere in grado di individuare e saper riconoscere i livelli di connessione tra i differenti piani di analisi. Non basta osservare e descrivere. Educare e formare alla complessità (1995) quelle che ho definito le “nuove soggettività etiche”, in grado (almeno, in apparenza) di agire con maggiore autonomia rispetto al passato ma, allo stesso tempo, esposte al rischio di un’esistenza, individuale e sociale, non pienamente consapevole delle nuove asimmetrie (1998) e della “natura” di un ecosistema in cui controllo e sorveglianza riducono sempre più sfere di libertà e diritti. Il rischio riguarda, evidentemente, anche la fondamentale libertà di circolazione (e condivisione) della conoscenza.  

Approccio, educazione, formazione, competenze, consapevolezza, pensiero critico, sapere condiviso (2003), prospettiva sistemica per poter gestire la complessità e l’imprevedibilità dei sistemi e delle organizzazioni…gestire e non essere gestiti !

Ma anche: educare alla complessità per diffondere un’etica della responsabilità (Dominici 1998 e sgg.)

 


Approfitto per segnalare alcune interessanti ed importanti manifestazioni dove questi, e altri, argomenti saranno trattati:

World Communication Forum: http://www.worldcomforum.com/

Festival della Complessità: http://bit.ly/1ufoiFa

 


[1] M.Weber (1919), Politik als Beruf, Wissenschaft als Beruf, trad.it., Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1948.

[2] Per approfondire la teoria morale kantiana si vedano I.Kant (1788), Kritik der praktischen Vernunft, trad.it., Critica della Ragion Pratica, Laterza, Bari 1993; I.Kant (1785), Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, trad.it., Fondazione della Metafisica dei Costumi, Laterza, Bari 1992.

[3] M.Weber (1922), Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre trad.it., Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958.

[4]  Ibidem, p.61

[5] Ibidem, p.67

[6] Ibidem, p.156

[7] Come abbiamo scritto e argomentato più volte, anche in passato, gli stessi concetti di libertà e responsabilità vanno necessariamente ripensati in chiave relazionale cfr.P.Dominici 1996, 1998, 2003 e sgg.

[8] Ibidem p.332

[9] Ibidem p.96

[10] H.G.Gadamer (1960), Wahrheit und Methode. Grundzuge einer Philosophischen Hermeneutik, trad.it.,Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983.

Fare “copia e incolla” di idee, studi e ricerche di altr* senza citare le fonti (mi riferisco non solo alla bibliografia) non è condivisone della conoscenza…è una grave scorrettezza!

immagine: opera di Henri Matisse