La “dittatura” (e l’ossessione) della concretezza…e la progressiva marginalizzazione del pensiero e di tutto ciò che è “teorico”, cioè – secondo le narrazioni dominanti – “inutile”.
Prima di iniziare la nostra riflessione, partiamo dalle definizioni:
Il Dizionario Zingarelli definisce la concretezza in questi termini:
Concretezza: caratteristica di chi e di ciò che è concreto.
Concreto: [vc. dotta, lat. concrētu(m), part. pass. di concrēscere ‘condensarsi, indurire, coagularsi’ ☼ av. 1327]
A agg.
1 (lett., raro) Denso, compatto, solido, rappreso: lo mescolerei co’ sughi concreti di luppoli, e di cicoria (F. REDI).
2 Che è individuabile mediante l’esperienza sensibile: oggetti concreti; CONTR. astratto | Che ha uno stretto legame con la realtà: passare dalle astrazioni ai fatti concreti | Pratico: esperienza concreta; è un uomo concreto; CONTR. teorico | Preciso, chiaramente determinato: progetto concreto; idea concreta | in concreto, (ellitt.) in modo concreto, da un punto di vista concreto | nome concreto, nella grammatica, quello che indica cose reali o immaginate come tali; CONTR. astratto.
3 arte concreta, indirizzo artistico nato all’interno dell’astrattismo, caratterizzato da un orientamento più razionalmente geometrizzante. SIN. concretismo.
4 musica concreta, quella basata sull’impiego di rumori naturali che abbiano subito diverse manipolazioni elettroacustiche.
|| concretamente, avv. In modo concreto, da un punto di vista concreto; in pratica.
B s. m.
- Ciò che è concreto: andare dall’astratto al concreto; attenersi al concreto.
Al di là delle attività accademiche e di ricerca, mi capita molto spesso di andare in aula come docente/formatore e di fare formazione/aggiornamento a manager, dirigenti, funzionari PA, dirigenti scolastici, insegnanti etc. Con tutte le differenze, le specificità e le sfumature del caso, sono costretto a rilevare, ogni volta, come l’elemento che, in genere, accomuna tutte queste figure, questi ambiti professionali e lavorativi, ma anche e soprattutto queste esperienze, sia – pur nell’interesse e nella curiosità per le novità, i trends e i possibili aggiornamenti – una sorta di ossessione per la concretezza, per il “come si fa”, solo ed esclusivamente per le “soluzioni”. Tranne alcune eccezioni (ci sono sempre, ma tali restano), tutti regolarmente chiedono, solo e soltanto, “concretezza”, pretendono i “fatti”, e te lo ricordano continuamente, devono quasi sentirsi “rassicurati”. Salvo poi, rendersi conto della valenza strategica (a tutti i livelli di analisi e della prassi) del pensiero, della teoria/delle teorie, di uno sguardo “altro”, di un approccio differente alle questioni e, più in generale, all’imprevedibilità del sociale e dell’umano, delle relazioni (complesse) sistemiche tra le Persone; salvo poi rendersi conto che, continuando a procedere nelle direzioni di sempre, con l’approccio, gli “strumenti” e le procedure di sempre, nell’illusione del controllo e della prevedibilità totali, non riusciranno mai a determinare alcun cambiamento e avranno molte difficoltà nel gestire nuovi rischi, incertezze e vulnerabilità. E così…altro che cambio di paradigma, altro che nuovo ecosistema, altro che imprese a rete, altro che sistemi aperti, altro che sostenibilità, altro che “rivoluzione digitale” …
Si continua ad avanzare nella prospettiva della “delega in bianco” alla tecnologia/alle tecnologie; una delega concessa in perfetta linea di continuità con le“grandi illusioni” della civiltà ipertecnologica e iperconnessa – così le ho definite – che riguardano – come ripeto da molti anni – anche il mondo (e gli ecosistemi) dell’intelligenza artificiale e della cd. “materia vivente” e, più in generale, i processi (in atto) di “sintesi complessa”, all’interno dei quali, “continuiamo a confondere l’intelligenza con la simulazione dell’intelligenza, il pensiero con la simulazione del pensiero, l’empatia e i sentimenti con la simulazione dell’empatia e dei sentimenti” (Dominici, 1995, 1998, 2003, 2oo5 e sgg.).
Torniamo alla concretezza. Pur conoscendone e comprendendone le logiche – attualmente nessuno può permettersi di non essere concreto, ormai (forse) neanche più gli artisti e i cd. intellettuali – pur conoscendone l’importanza e i perché (oltre che le retoriche), pur dovendoci fare i conti continuamente…più vado avanti e più me ne convinco: non esiste ambito/campo/settore dell’azione sociale e della prassi sociale, organizzativa e sistemica, della produzione, anche quella più creativa; non esiste “area” della nostra esistenza, dei cd. “mondi vitali”, dal lavoro alla ricerca, dall’educazione alla formazione che non venga gestita/controllata/indirizzata dalla ricerca (spesso) ossessiva, quasi compulsiva ed esclusiva della concretezza (e dell’utilità), del “ci servono soltanto cose concrete/abbiamo bisogno di essere concreti”…del “dobbiamo essere concreti”…del “noi facciamo/ci interessano solo cose concrete”. Proprio in una fase così delicata di cambiamento dei paradigmi e di trasformazione antropologica (1996), si tratta di un’ossessione particolarmente controproducente, soprattutto, nei settori dell’educazione, della formazione, della ricerca. Tutti (ora) parlano, all’interno delle grandi narrazioni sull’innovazione e sulla cd. rivoluzione digitale (con più di qualche ripensamento), dell’importanza del pensiero, del pensiero critico e sistemico, della creatività, degli immaginari, del pensiero creativo (ops…creative thinking…bisogna dirlo in inglese, fa più effetto), perfino dell’importanza della filosofia, da sempre ostacolata e ridimensionata (insieme ad altre materie/discipline importanti), non soltanto dentro le istituzioni educative e formative. Paradossalmente, nessuno, in questo momento, si azzarderebbe a dire/scrivere il contrario: sono tutti per il pensiero critico, sono tutti per l’immaginazione e il recupero dell’importanza delle discipline più creative nei processi educativi e formativi, sono tutti per l’interdisciplinarità e la transdisciplinarità. Sono tutti per l’empatia e l’imprevedibilità (tutti folgorati…), parlano di “cambio di paradigma”, all’improvviso si sono accorti che il “saper fare” e le competenze da soli non bastano, anche in questa civiltà ipertecnologica, anzi – come sostengo da molti anni – soprattutto in questa civiltà ipertecnologica e iperconnessa, sempre più complessa (anche questa è una delle tante formule di successo che trovate ovunque…). Attualmente tutti, ma proprio tutti, ne parlano: il ruolo strategico/vitale dell’educazione e della formazione, l’importanza dell’immaginazione: tutte questioni di vitale importanza che, alla resa dei conti, vengono più che altro propagandate e alimentate a colpi di slogan ed “etichette di successo”, a colpi di aforismi di grandi scienziati/filosofi/scrittori e di parole-chiave che, poi, non trovano alcuna effettiva (appunto, concreta) traduzione operativa nella vita organizzativa, sociale, politica, culturale. In realtà, al di là di certe retoriche e narrazioni egemoni, funzionali soprattutto a costruire/costruirsi una buona reputazione/immagine sia come innovatore/innovatrice che come organizzazione innovativa (ed efficiente) nel suo complesso, appare evidente come sia ancora scarsa la consapevolezza della rilevanza strategica del pensiero (e del sistema di pensiero), della speculazione, dell’immaginazione, della creatività, dell’errore e della opportunità di poter sbagliare; della complessità delle questioni, a tutti i livelli e in tutti i settori, del loro essere “complesse” e non “complicate” (Dominici 1995, 1998 e sgg.). In realtà, quella che, non soltanto in questo contributo, ho definito la “dittatura/ossessione della concretezza”, ci sta condannando a non determinare mai (?) nessun cambiamento reale (soltanto assestamenti, nella migliore delle ipotesi), a non essere in grado di creare nessuna “vera” innovazione, se non di facciata; ci sta condannando, chissà ancora per quanto tempo, ad adeguarci/adattarci pressoché passivamente alla straordinaria trasformazione tecnologica in atto, che è prima di tutto una trasformazione antropologica (Dominici 1995-1996), delle identità, dei vissuti, delle epistemologie etc.
La dittatura/ossessione della concretezza ci sta condannando a non saper abitare l’ipercomplessità e il futuro (Dominici, 1995-2018); ci sta condannando a rifugiarci, ancora una volta, nella nostra incompletezza, nelle nostre (in)sicurezze, nella nostra incapacità o, comunque, nel poco coraggio di abbandonare le strade e i sentieri già percorsi mille altre volte; ci sta condannando a rifugiarci nei nostri pregiudizi e luoghi comuni (a qualsiasi livello), nei comportamenti e nelle scelte che hanno sempre funzionato (?), nelle “cose” che abbiamo sempre fatto in un certo modo anche perché ciò ha avuto “successo”, ha prodotto “risultati” evidenti, ha prodotto soluzioni (“soluzioni semplici a problemi complessi”) (?)…etichetta vs etica. Ci sta condannando, in altre parole, a non determinare, a non tentare di governare, in alcun modo, quel cambiamento evocato e auspicato da tutti, salvo poi andare nelle direzioni di sempre. Una ricerca ossessiva ed esclusiva spesso portata avanti (soprattutto) proprio da coloro che – a livello di discorso pubblico – parlano di creatività, di pensiero creativo (ops…creative thinking), di innovazione, di cambiamento, di trasformazione, di digital tranformation, di approccio multidisciplinare e interdisciplinare, di cambio di paradigma, di complessità (la/le potrete trovare ovunque), negli ultimi tempi, addirittura, di “complessità del digitale” (proprio quelli che avevano associato il digitale alla semplificazione, alla nuova “cittadinanza digitale”, ad una nuova democrazia, di più alla semplicità di certi processi e dinamiche); ma nel retroscena delle loro vite lavorative e professionali e, perfino, di ricerca, continuano, in molti casi, a navigare (a vista) nelle direzioni di sempre. Insomma, almeno per ora, siamo di fronte – come detto – soprattutto a parole-chiave usate come slogan. Coloro che abitano le istituzioni educative e formative, coloro che sono nel mondo dell’alta formazione, sanno bene come vengano, sempre e comunque, richiesti i “fatti”, la “concretezza”, il “come si fa”, il “solo cose utili”; sanno bene come siano sempre richieste, solo ed esclusivamente, le “soluzioni” (e via con la proliferazione di linee guida, decaloghi, manifesti, ricette, nuovi assiomi etc.); sanno bene come (quasi) tutti siano poco interessati al “come” si arrivi alle presunte soluzioni; come se i sistemi organizzativi/sociali fossero “complicati” e non “complessi”, con il relativo ed esclusivo coinvolgimento soltanto di alcuni specifici saperi esperti. Quelli apparentemente più in grado di offrire/garantire certezze e spiegazioni razionali e “lineari”. Pensiero, creatività, educazione, formazione continua, apprendimento, immaginazione, innovazione, centralità della Persona e dell’umano, importanza dell’errore e dell’imprevedibilità, condivisione della conoscenza e dei saperi: tutti ne parlano, tutti ne scrivono, senza peraltro essersene mai occupati (il problema – sia chiaro – non è che ne parlino, bensì che si presentino ogni volta come “esperti” di tutto e su tutto), come se in questi settori/campi non fossero richieste/necessarie conoscenze, competenze, preparazione, esperienza; tutti ne parlano, tutti ne scrivono ma, a livello di scelte e di prassi, continuano ad operare, nelle istituzioni e nelle organizzazioni in cui lavorano/coordinano/dirigono, ri-cercando soprattutto ordine, stabilità, equilibrio, conservazione, e non soltanto per ragioni di potere e di vantaggio relativo. Anche perché, nella civiltà ipertecnologica, è proprio nell’equilibrio e nella stabilità che i saperi tecnici realizzano il massimo delle loro aspirazioni e potenzialità conoscitive, in termini di controllo, sicurezza, razionalità.
Il pensiero, la teoria/le teorie, la filosofia, perfino le discipline più creative, non sono “utili”, non servono o, comunque, servono a poco: d’altra parte, come stupirsi, questo è un Paese che continua a mettere in discussione il valore della “cultura”, dell’educazione e della formazione, della preparazione. Un “pensiero” (?) che si è esteso fino all’egemonia anche con riferimento ai luoghi dell’educazione e della formazione. Prima di tutto, il “dover essere concreti”, il “come si fa”, le “soluzioni”, sempre e soltanto le soluzioni che, spesso, sono quelle di sempre, quelle che hanno funzionato in passato, magari in contesti e situazioni differenti, con concause, variabili, indicatori, parametri, Persone coinvolte, altrettanto differenti.
Vedrete, anche questa volta, in molti diranno che l’avevano sostenuto anche loro e saranno pubblicati testi/articoli in cui si sottolinea l’importanza del pensiero, della teoria/delle teorie, di una visione strategica di lungo periodo, di uno sguardo “altro” sulla realtà. Perché tutto diventa “moda”, “norma”, “mainstream”, perdendo così ogni potenzialità dirompente e ogni possibilità di creare una vera discontinuità con i modelli egemoni e con quanto già accaduto…
Concludo, chiarendo come questa non sia stata – evidentemente – una riflessione “contro la concretezza” in quanto tale (con cui – mi ripeto – non possiamo non fare i conti), bensì, come chiarito dal titolo, “contro la dittatura e l’ossessione della concretezza”. Un’ossessione che si concretizza in un approccio riduzionistico e semplicistico ai problemi, alle incertezze, all’imprevedibilità ed alla variabilità dei fenomeni sociali e organizzativi; una visione radicale della “concretezza”, senz’altro necessaria ma che, portata alle sue estreme conseguenze, si configura/si rivela, allo stesso tempo, come un ostacolo al reale cambiamento organizzativo, sociale, culturale, politico. Una cultura della concretezza e dell’evidenza con tante sfumature; una cultura del “dato” come “dato di fatto” che si fonda su un’altra cultura, quella della standardizzazione; una “cultura della concretezza” che si fonda sull’idea, ingannevole e fuorviante, che la conoscenza/le conoscenze debba essere “utile”. Una cultura della concretezza e dell’evidenza che si fonda sull’illusione di poter eliminare l’errore e l’imprevedibilità dai sistemi sociali e organizzativi. Una cultura della concretezza che, evidentemente, pur edificata a partire dai principi (assiomi) della razionalità e del controllo, presenta quei caratteri di ambivalenza e ambiguità tipici di tutti i processi sociali e culturali.
Insomma, davvero ancora poca la consapevolezza che non tutto (anzi!) sia “individuabile mediante l’esperienza sensibile” e/o l’evidenza empirica. Allo stesso tempo, poca la consapevolezza di come dovremmo sforzarci di conoscere e mettere in evidenza non soltanto ciò che è e/o ci appare “misurabile” in termini quantitativi.
In perfetta linea di continuità con quanto detto…
Come ripeto da molti anni, stiamo educando/formando/addestrando dei meri esecutori di funzioni e di regole (Dominici, 1995 e sgg.) che non sono in grado neanche di riflettere sulla natura e sui “perché” che governano tali funzioni e regole. E ciò che è ancor più preoccupante è che stiamo sempre più puntando alla costruzione/formazione di un pensiero (?) finalizzato/funzionale esclusivamente alla concretezza: un pensiero che, nella migliore delle ipotesi, si identifica con il calcolo e il raggiungimento di un risultato. Un “approccio”, pressoché egemone, che riguarda e chiama in causa direttamente anche temi e questioni relativi all’apprendimento.
Continuiamo a non prendere atto e a non saper riconoscere la complessità, la ipercomplessità (ibidem), la variabilità, l’emergente, la costante e dinamica instabilità del relazionale, del sociale, dell’umano, del vitale. Dimensioni complesse che, oltretutto, interagiscono con una nuova prassi tecnologica e con sistemi sociali sempre più innervati da sistemi di intelligenza artificiale e di automazione; in una condizione di “ritardo culturale” che ostacola la formazione, la co-costruzione, di uno sguardo “altro” e di una visione sistemica, d’insieme; un ritardo che continua a farci vedere/riconoscere/progettare/gestire le organizzazioni come “macchine” (sistemi complicati) e non come “sistemi viventi” (complessi). Ancora una volta, con poca consapevolezza che – come scrissi molti anni fa – “innovare significa destabilizzare” (cit.); e, con poca consapevolezza, che pensiero è azione (si tratta, ancora una volta, di una “falsa dicotomia”).
«Allo stesso tempo, dobbiamo essere consapevoli che l’innovazione implica un cambiamento profondo anche e soprattutto nel modo di vedere, osservare, comprendere i fenomeni, i processi, gli oggetti, le “cose” (àprospettiva sistemica): innovare significa (anche) avere il coraggio di destabilizzare** qualcosa che è –almeno in apparenza – profondamente equilibrato, stabile, radicato, ordinato e, per certi versi, ideale. Innovare costituisce sempre una sfida (essenziale) che comporta l’abbandonare certezze, visioni consolidate e comportamenti rituali, liberarsi perfino dalla stessa idea che le “cose” si fanno in un certo modo perché così hanno sempre funzionato. Storicamente (poi, lo so, ci possono essere delle eccezioni), coloro che sono al potere e hanno la responsabilità del decidere, anche a livello di organizzazioni semplici (?), difficilmente possono essere motivati/interessati ad innovare concretamente, proprio perché le dinamiche dei processi innovativi non possono che rendere meno stabili e controllabili le situazioni in cui sono coinvolti e il contesto di riferimento. E’ sempre il “fattore culturale” ad essere determinante sia nella statica che nella dinamica di sistemi sociali e organizzazioni complesse: perché, come amo ripetere sempre, i processi di innovazione camminano sulle gambe del persone» (Dominici, 1995 e sgg.)
Da sempre, anche in questo caso, questione culturale ed educativa!
E, a proposito di concretezza, di strade e percorsi che non vengono abbandonati…
“I primi anni della nostra vita sono caratterizzati da un lungo periodo critico di grande plasticità del cervello, un periodo cioè durante il quale questo organo è estremamente sensibile all’esperienza e cambia in funzione di essa andando a scuola dall’ambiente. Avviene poi una lenta stabilizzazione dei circuiti nervosi e la progressiva diminuzione del numero dei contatti sinaptici. I circuiti divenuti più stabili tendono a ripetere le stesse funzioni, e ciò significa che di fronte a certi stimoli esogeni o endogeni la macchina cerebrale risponde con comportamenti simili. Si generano così molte routine mentali e il cervello si avvicina sempre di più a una macchina le cui funzioni, compreso il comportamento, sono almeno “parzialmente meccanizzate” e quindi prevedibili” (Maffei L., Elogio della ribellione, 2016).
E, come ripeto ogni volta, siamo sempre sulle “spalle dei giganti”
«Se la conoscenza (nel senso moderno di know-how, di competenza tecnica) si separasse irreparabilmente dal pensiero, allora diventeremmo esseri senza speranza, schiavi non tanto delle nostre macchine quanto della nostra competenza, creature prive di pensiero alla mercé di ogni dispositivo tecnicamente possibile, per quanto micidiale». (Arendt H., 1958)
Un approccio e percorsi di ricerca dal’95
#CitaregliAutori
Di seguito, allego altri due contributi.
Potenza e pratica della teoria
di Piero Dominici
e-mail: piero.dominici@unipg.it
«La disposizione mentale di un teorico è utile non solo per sondare i segreti ultimi dell’universo, ma per molti altri compiti. I fenomeni del mondo attorno a noi sono interconnessi. Essi possono ovviamente essere considerati come entità separate e studiati come tali, ma fa molta differenza se li vediamo come parte di qualcosa di più generale! Molti fatti diventano allora più che dati singoli da memorizzare: le loro interconnessioni ci permettono di usare una descrizione sintetica, una sorta di teoria, uno schema per apprenderli e ricordarli. Essi cominciano ad acquistare un senso. Il mondo diventa più comprensibile. Il riconoscimento di regolarità è qualcosa di naturale per noi essere umani: noi stessi, dopo tutto, siamo sistemi complessi adattativi. È nella nostra natura, per eredità biologica e anche per trasmissione culturale, riconoscere strutture, identificare regolarità, elaborare schemi nella nostra mente. Tuttavia, questi schemi vengono non di rado promossi o retrocessi, accettati o respinti, in risposta a pressioni selettive ben diverse da quelle operanti nelle scienze, dove l’approccio con l’osservazione è decisivo» (M.Gell-Mann, The Quark and the Jaguar, W.H. Freeman and Co., New York 1994: 112)
E già…la potenza della …teoria. Sì, proprio “lei”… la Teoria: un concetto importante (e una “pratica” importante) e, per certi versi, ingombrante, sul quale si potrebbero fornire/restituire infinite definizioni e sfumature, legate ad approcci, saperi e discipline differenti, oltre che, evidentemente, a contesti storico-sociali e di riferimento. Il Dizionario Zingarelli nel fornirne la definizione, individua diversi aspetti e significati che, ancora una volta, ne mettono in luce l’ambiguità semantica (forse) all’origine anche di certi luoghi comuni e frasi fatte che la riguardano: 1) Formulazione sistematica dei princìpi propri di una dottrina filosofica, un sapere scientifico, un movimento artistico o culturale: la teoria platonica delle idee; teoria della relatività, degli insiemi. CFR. -logia. 2) Complesso dei precetti che servono di guida alla pratica: la teoria del maneggio del fucile | (spreg.) Eccesso di elaborazione teorica: perdersi nella teoria | in teoria, teoricamente. CONTR. Pratica; 3) Sistema, modo di pensare: non condivido le sue teorie sull’amicizia. SIN. idea, opinione. La stessa Treccani fornisce una definizione di “teoria” in termini di: “Formulazione logicamente coerente (in termini di concetti ed enti più o meno astratti) di un insieme di definizioni, principi e leggi generali che consente di descrivere, interpretare, classificare, spiegare, a vari livelli di generalità, aspetti della realtà naturale e sociale, e delle varie forme di attività umana”.
Allo stesso modo, anche le teorie “scientifiche” non costituiscono/non sono dei semplici complementi, più o meno utili a livello interpretativo; esse rappresentano l’asse portante della scienza e della ricerca scientifica, evidentemente insieme al metodo scientifico. La Teoria, non soltanto guida e influenza l’osservazione “scientifica” dei fenomeni e dei processi, bensì guida e influenza anche le scelte e gli utilizzi in materia di strumenti di rilevazione. Anche perché le teorie, non soltanto quelle “scientifiche”, oltre alle parti costituite dalle ipotesi, si articolano in definizioni, formule, argomentazioni ect. che permettono, in qualche modo, all’osservatore/manager/ricercatore di tracciare possibili percorsi verso la verificazione o la falsificazione (Popper et al.) delle ipotesi di partenza. Inoltre, le teorie possono essere/rivelarsi importanti strumenti di previsione e classificazione dei fenomeni, e non soltanto strumenti (complessi) di spiegazione dei fatti. Pierre Duhem, a tal proposito, affermava ne La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura: «Una Teoria vera non è quella che dà, delle apparenze fisiche, una spiegazione conforme alla realtà; è piuttosto una teoria che rappresenta in modo soddisfacente un insieme di leggi sperimentali».
Con riferimento a tali questioni, siamo davvero “sulle spalle dei giganti”, con una letteratura scientifica vasta e articolata, riconducibile anche alle cosiddette scienze esatte (scienze hard), ben al di là di ogni logica di separazione tra i saperi e le discipline. Allo stesso tempo, occorre acquisire definitivamente consapevolezza che ogni conoscenza teorica e sperimentale è storicamente e culturalmente condizionata, anche se in maniera differente. Di qui, ancora una volta, non posso che ribadire con forza, l’importanza di (1) un’educazione e formazione critica, (2) di un’educazione al “metodo scientifico” e l’urgenza di (3) un approccio sistemico alla complessità, che devono essere praticati e sperimentati fin dai primi anni di scuola, agevolando l’apertura e il dialogo tra i saperi, oltre che il famoso “apprendimento collaborativo”.
Insomma, quanto è importante la Teoria, anche con riferimento alle possibilità di fornire una rappresentazione simbolica e concettuale delle evidenze e dei dati emersi. Eppure – non è inutile ripeterlo –la teoria è quella “dimensione” (complessa e tutt’altro che lineare) che un po’ tutti disprezzano, considerano inutile, fuorviante, dispersiva (ai limiti del paradossale), soprattutto in un’epoca in cui si rivela sempre più egemone la convinzione/narrazione che i dati ci dicano tutto e che la realtà stessa sia costituita da “dati” che sono “dati di fatto”; una realtà talmente reale (misurabile) perché costituita da evidenze empiriche (quantitative e statistiche, big data etc.) che sono a tal punto auto-evidenti da non richiedere alcuna osservazione e/o interpretazione (individuazione di correlazioni e/o di nessi di causalità; osservazione e riconoscimento dei livelli di connessione etc.).
La stessa idea di “teoria” sembra quasi provocare disagio; perché la “teoria” rappresenta, soprattutto in certi immaginari produttori di “luoghi comuni” e di formule/slogans rassicuranti, non soltanto per la prassi organizzativa, un qualcosa che non serve e fa perdere tempo (e denaro), un qualcosa appunto per chi ha “tempo da perdere” (e soldi da buttare) e/o, peggio ancora, per chi non “sa fare” che, attualmente, equivale a dire per chi “non ha soluzioni” (per tutto).
Quante frasi fatte e, mi ripeto, luoghi comuni su questo concetto-categoria così importante: “basta teorie, contano/servono i fatti”; oppure: “non abbiamo bisogno di teorici/studiosi/pensatori – che magari siano in grado di argomentare, in maniera chiara, logica e coerente, le proprie ipotesi/tesi (in compenso, ci affidiamo ai cd. “guru” e/o i “visionari” che, come si dice, vanno alla grande…) – ci servono persone (figure iperspecializzate o, al contrario, esperti di tutto, o tecnici super addestrati?) che sappiano soltanto agire/fare”, magari “eseguire” in maniera perfetta: come se l’agire, la pratica, il saper fare e il fare, perfino la ricerca, non fossero, comunque e sempre, concettualmente e teoricamente orientati. D’altra parte, quando non lo sono, se ne vedono i risultati, non soltanto in termini di navigazione a vista. Questioni complesse e delicate che, evidentemente, riguardano anche, e soprattutto, la Politica e la vita pubblica nel suo complesso. Un po’ come le analisi e il discorso pubblico riguardanti la Cultura, con la quale addirittura, a detta di molti non si mangiava; la Cultura vista e presentata, non soltanto come un qualcosa di profondamente astratto, teorico, “inutile”, non in grado di produrre ricchezza e benessere (!). Evidentemente, dietro tali concezioni/luoghi comuni c’è una visione, non soltanto dell’economia e del progresso di un Paese, ma dell’intera società, della civiltà, del benessere sociale, dell’innovazione (inclusiva o esclusiva), della cittadinanza e dell’inclusione, del bene comune. Educazione e formazione ne sono le basi e le architetture portanti. Anche se, da qualche tempo, il clima culturale su tali questioni sembra inizi a cambiare. Ma la strada da percorrere è ancora lunga e incerta, piena di criticità. E, come amo ripetere ogni volta, se non ripensiamo a fondo educazione e formazione, non andremo da nessuna parte, incapaci, se non di gestire, almeno di indirizzare il cambiamento e le profonde trasformazioni in atto.
Per queste (e altre) ragioni, ho voluto iniziare questo contributo con poche, pochissime parole di un grande scienziato e studioso, Murray Gell-Mann (Premio Nobel per la Fisica nel 1969 e fondatore, nel 1984, del Santa Fe Institute) – lo confesso, uno dei miei Autori preferiti, fin da studente, per la sua capacità di argomentare e includere – che, contrariamente ad uno dei luoghi comuni più diffusi e difficili da sradicare nei contesti organizzativi e sociali, sottolinea/ribadisce senza mezzi termini l’importanza della teoria, alla pari di un approccio sistemico alla complessità, che può metterci in condizione di osservare, riconoscere, descrivere, comprendere la (iper)complessità. Luoghi comuni talvolta così ben radicati anche nelle istituzioni educative e formative, da mostrare tutte le nostre inadeguatezze, la nostra incompletezza e “razionalità limitata” ancor di più oggi che ci troviamo nella civiltà ipertecnologica e iperconnessa, ove tutto è “dato”. Lasciatemelo dire, davvero incredibile che lo si debba ancora fare. Comprendere la complessità della complessità (Dominici, 1998 e sgg.). Con il pensiero che va a tutt* quell* che…contano soltanto la pratica, il saper fare, soltanto le risposte e non le domande; contano ‘soltanto’ le soluzioni (dico sempre: soluzioni preferibilmente semplici a problemi complessi) e non i problemi (Popper parlava perfino di “dilemmi”); “quell* che” …contano soltanto le competenze e non le conoscenze (una di quelle che ho definito, vent’anni fa, “false dicotomie”…). Ma anche…con altre sfumature, quelli che contano soltanto i dati, le “evidenze”…naturalmente soltanto quelle quantitative. Quelli che…è scientifico e, di conseguenza, “utile” soltanto ciò che può essere ‘misurato’ in termini numerici e, ancora una volta, quantitativi. Come ho avuto modo di scrivere, in questi anni, il principio dell'”utilità della conoscenza” rappresenta uno dei grandi errori e uno dei grandi inganni dell’epoca moderna e contemporanea: un principio su cui stiamo costruendo (demolendo) la futura Scuola e la l’Università del futuro. Mentre – lo ricordo sempre – nei vecchi corsi di metodologia della ricerca, molto duri e impegnativi, ci veniva insegnato, tra le tante questioni trattate, che “i dati non parlano mai da soli“. Infine…quelli che “conta soltanto la ricerca”, ignorando o facendo finta di non sapere, che non esiste ricerca (o attività di ricerca) che non sia teoricamente e concettualmente orientata (come qualsiasi attività umana). A conferma di quanto sia diffusa questa mentalità/visione/narrazione (al di là di qualche citazione o frase di circostanza usate in pubblico), basti pensare a quanto la stessa parola “teoria” venga vista e utilizzata quasi con (grande) sospetto. Per non parlare del termine “teorico” (sia come sostantivo che come aggettivo): termine adottato anche per screditare Persone, studiose/i, esperte/i, incapaci (a loro dire) di fornire soluzioni rapide per qualsiasi tipo di problema. La parola “teorico” viene usata, talvolta, addirittura come un insulto.
Discorsi analoghi si potrebbero fare per la parola “filosofia” e il termine “filosofo”. In molti casi, stanno ad indicare, soprattutto nel nostro contesto storico-culturale (ma basta andare un po’ all’estero per rendersi conto di quanto le cose stiano in maniera diversa), figure e attività del tutto inutili, astratte e distanti dall’esperienza (?), perfino dalla vita reale e dalle soluzioni (?) che questa richiede. Soluzioni che debbono essere semplici anche per problemi complessi e multidimensionali.
Quasi paradossalmente, la teoria, confusa con la “storia del pensiero”, molto spesso, viene non considerata e/o disprezzata proprio da coloro che, al di là dei campi in cui operano, non hanno mai fatto (veramente) “ricerca”. Proprio da coloro che continuano a confondere la metodologia con la tecnologia, o, peggio ancora, la metodologia con il digitale. Un disprezzo o, comunque, una sorta di disprezzo che, proprio in linea con quanto detto, accompagna, più in generale, anche chi studia, chi pensa(?), chi riflette sui problemi, sui processi, sulla vita, sulle culture, sull’identità, sui diritti, sui dilemmi (magari, con un approccio critico), sulle dimensioni, che caratterizzano tutti i sistemi complessi adattivi, dell’imprevedibile e dell’incerto, dimensioni complesse e non facilmente misurabili. Un disprezzo e un sospetto che, in questi decenni, hanno segnato profondamente anche il discorso pubblico sulla “cultura”; derive alle quali, in molti casi, non si è sottratto neanche il dibattito (e la distribuzione delle poche risorse a disposizione) all’interno dello stesso mondo accademico e della ricerca, Una sorta di “sospetto” che colpisce anche chi analizza e studia per progettare “qualcosa di più grande e importante”, pensando soprattutto al lungo periodo (oggi, finalmente, tutti ne parlano, per poi continuare a lavorare nella direzione opposta).
Sempre in questa prospettiva, fateci caso, nel nostro Paese le fasi e il lavoro di ideazione e progettazione non vengano (quasi?) mai retribuiti. Non sono considerati e riconosciuti importanti, ed è davvero incredibile, per numerosi motivi. Si paga, nella migliore delle ipotesi, il “prodotto finito”…e poi, via! Tutti a parlare (giustamente, peraltro) di “cultura del progetto”. E tutto ciò è tutt’altro che casuale: anzi, è indicativo e indicatore di una cultura che considera meno importanti la creatività, l’immaginazione e la capacità di progettare. In qualche modo, le ha perfino gettate fuori dai luoghi dell’educazione e della formazione.
Dicevo: un sospetto e una sorta di disprezzo che accompagnano i pensatori, i teorici, gli studiosi/le studiose, per non parlare dei cd. intellettuali (‘categoria’ effettivamente in declino, per tutta una serie di ragioni); tutt* coloro che svolgono un lavoro intellettuale, i cui “effetti”, di fondamentale importanza per le Comunità, per la vita pubblica, per la salute delle democrazie, non appaiono immediatamente evidenti, riconoscibili, misurabili. E spesso proprio coloro che disprezzano o, comunque, considerano inutili certe “figure”, ricercano, esaltano, enfatizzano i guru, i visionari, gli entrepreneur etc. E sottolineo: non si tratta, evidentemente, di una critica a chi si auto-definisce e/o si presenta così.
Per concludere, non mi resta che aggiungere (‘cose’ note e stra-note, nonostante il pensiero-narrazione dominante…) che, proprio nella ricerca scientifica, da sempre, “teoria” e “ricerca” si alimentano vicendevolmente. Come ho avuto modo di ripetere più volte negli anni, le sfide della (iper)complessità sono sfide, in primo luogo, educative che riguardano l’educazione e i processi educativi, lo spazio relazionale e comunicativo: si tratta di sfide che richiedono un grande sforzo, a tutti i livelli. Non sarà semplice né tanto meno sarà uno sforzo di breve o medio periodo. E, forse, finché non prenderemo coscienza di essere “deboli” proprio a livello di teorico, per non parlare di sistemi di pensiero, non andremo troppo lontano, continuando – come detto – a navigare a vista, incapaci di affrontare le sfide di una ipercomplessità sempre più incerta e imprevedibile. L’impressione, assolutamente personale, è che – tranne qualche eccezione – stiamo continuando ad educare e formare dei meri “esecutori” di funzioni/mansioni – abilissimi nel “saper fare” – in una realtà sempre più (iper)complessa in cui la dimensione del tecnologicamente controllato si rivela dominante e richiede menti elastiche strutturate da un pensiero che non può che essere sistemico e multidimensionale. Con profonde implicazioni per le questioni cruciali riguardanti la vita pubblica, la cittadinanza, l’inclusione, la democrazia, il bene comune. Concetti-chiave, parole e “principi” fondamentali che rischiano di rimanere semplici slogan.
Riporto di seguito uno dei numerosi contributi di carattere divulgativo su queste tematiche:
Ripensare l’educazione nell’era della rapida obsolescenza
di Piero Dominici, Università degli studi di Perugia
Il passaggio alla ipercomplessità e l’urgenza di pensare al “lungo periodo”: ecco perché bisogna ripensare l’educazione e, ancor di più, il pensiero sull’educazione, modificando in tale direzione le scelte e le strategie riguardanti sia la didattica che la formazione
Riprendo la mia analisi partendo da qui: “Siamo di fronte ad una ipercomplessità che si è estesa a tal punto da rendere estremamente difficile e complicato qualsiasi tentativo di fornire/formulare schemi di riduzione della stessa. Si tratta di una (iper)complessità ulteriormente accresciuta dalla rilevanza, sempre più strategica, che la comunicazione e l’innovazione tecnologica hanno assunto, non soltanto nei processi educativi e di socializzazione, ma anche e soprattutto nella rappresentazione e percezione di dinamiche e processi evolutivi sistemici che riguardano da vicino anche la produzione di saperi, di “strumenti”, di conoscenza scientifica; una produzione funzionale proprio all’analisi e gestione di questa ipercomplessità, funzionale a creare quelle condizioni sociali e culturali in grado di contrastare l’imprevedibilità che connota i sistemi organizzativi e sociali” (2003).
Alla luce delle precedenti considerazioni, mai in passato come nell’attuale “società iperconnessa” (2003), occorre educare alla complessità, al “metodo scientifico” e ad una visione sistemica dei problemi e dei fenomeni: ad un primo livello di azione, saper quanto meno riconoscere questa ipercomplessità può significare essere in grado di creare le condizioni per poterla gestire (?) e trasformare in opportunità. Questioni di fondamentale importanza, questioni decisive, strategiche sia per le organizzazioni che per le democrazie, peraltro segnate da una profonda crisi. Eppure nella “società ipercomplessa” (2003), anche tutto ciò rischia di non essere più sufficiente: sempre più di fondamentale importanza è saper anche comunicare questa (iper)complessità, riportando in primo piano (se ancora ce ne fosse bisogno) la questione delle conoscenze e delle competenze, oltre che l’urgenza di superare, una volta per tutte, le “false dicotomie” (Dominici 1998 e sgg.). Nella cd. società della conoscenza non basta più “sapere” e non basta più “saper fare”: dobbiamo necessariamente educare e formare a “sapere”, “saper fare”, ma anche, e soprattutto, a “saper comunicare il sapere” e a “saper comunicare il saper fare”. Si tratta di conoscenze e competenze ormai richieste in tutte le professioni ad elevato contenuto conoscitivo, che caratterizzeranno sempre più la “società della conoscenza” e l’economia della condivisione. Ecco perché non è possibile non tornare, ogni volta, sulla centralità strategica di Scuola e Università, sui percorsi didattico-formativi che propongono e sui relativi obiettivi. Non temo di apparire ripetitivo, perché si tratta della “questione” delle questioni. Se non interverremo in maniera profonda e sistematica su tali dimensioni – educazione e formazione – ci ritroveremo in una condizione problematica di perenne ritardo culturale rispetto, appunto, alla complessità, multidimensionalità e ambivalenza che caratterizzano, da sempre, i processi di innovazione e mutamento. Processi che, peraltro, con la loro attuale estrema velocità e imprevedibilità, con il loro essere in continua evoluzione/metamorfosi, oltre a creare i consueti problemi di controllo e gestione – tipici di tutte le fasi storiche di mutamento e innovazione tecnologica – determinano, e continueranno in futuro a determinare sempre più, la rapida obsolescenza delle conoscenze, delle competenze, dei profili curriculari (Dominici 2003 e sgg.), nel frattempo definiti, formati e riconosciuti dalle istituzioni educative e formative. In altre parole, il problema è: come ripensare Scuola e Università, come ripensare i percorsi didattico-formativi, come ridefinire i profili curriculari e professionali in una fase così segnata da traiettorie irregolari e discontinuità ? E come provare a farlo tenendo in considerazione una società ed un mercato del lavoro sempre più in continua evoluzione? Come provare a cambiare le tradizionali/consolidate logiche e culture organizzative che contraddistinguono le nostre istituzioni educative e formative? Operazione tutt’altro che semplice, oltre che di “lungo periodo”. La stessa ricerca scientifica si basa, attualmente, su logiche che scoraggiano, ostacolano apertamente il dialogo tra i saperi e l’interdisciplinarità, pre-requisiti essenziali per poter affrontare i dilemmi e le sfide della ipercomplessità. E, non possiamo nascondercelo, tale evoluzione sta mettendo in mostra tutta le nostre inadeguatezze, essendo talmente rapida e inarrestabile da accorciare drammaticamente il “ciclo di vita” delle conoscenze e delle competenze necessarie; talmente rapida e imprevedibile (p.e., intelligenza artificiale e robotica lasciano intravedere, con molte difficoltà, scenari del tutto inimmaginabili) da favorire l’obsolescenza anche di tutte le decisioni assunte, oggi, in materia di profili e curricula professionali del prossimo futuro.
In tal senso, come sostenuto anche in tempi non sospetti, si rivela estremamente rischioso, oltre che fuorviante, anche soltanto pensare di poter definire i percorsi didattico-formativi e curriculari, ma anche gli stessi profili professionali, solo, ed esclusivamente, sulla base delle cd. “esigenze del mercato” e/o delle richieste sempre più specifiche delle imprese. So bene che sono in molte/i a pensarla in maniera diametralmente opposta (la maggioranza degli addetti ai lavori e dei cd. esperti), ma ritengo questa impostazione estremamente sbagliata, e on soltanto rispetto alla natura ed agli obiettivi che le istituzioni educative e formative dovrebbero avere.
Siamo ancora dentro logiche di “breve periodo”, che sono quelle della risposta/soluzione immediata, del controllo, dell’equilibrio a tutti i costi, dell’emergenza. Detto in termini più espliciti: ha ancora senso continuare a rincorrere un mercato imprevedibile e in costante evoluzione? Il rischio, estremamente concreto, è sempre quello di continuare a “rincorrere l’innovazione tecnologica e digitale”, subendola, senza neanche saper se ci sarà il tempo necessario per adattarvisi e provare a gestirla. In questa prospettiva, al di là dei tanti paradossi del mutamento in atto, il “grande equivoco”, nella/della civiltà ipertecnologica e ipercomplessa, è proprio quello di continuare a pensare l’educazione e i processi educativi (vale anche per la formazione) come “questioni esclusivamente di natura tecnica”, un problema soltanto di “competenze”, legato al “saper fare” (punto e basta); una questione complessa da affrontarsi puntando tutto su velocità e simulazione.
Se non si ripensa l’educazione e, ancor di più, il pensiero sull’educazione, modificando in tale direzione le scelte e le strategie riguardanti sia la didattica che la formazione (continua e sistematica, con una parte flessibile e modulare) di tutte le figure coinvolte ai vari livelli anche decisionali, non andremo molto lontano e continueremo a tentare di cavalcare il mutamento, la sua ambiguità e indeterminatezza, ricorrendo alle solite vecchie logiche di breve periodo. Navigando a vista.
Mai come oggi, si avverte l’urgenza di un’educazione (non soltanto digitale) che dev’essere immaginata e ripensata, comunque e sempre, nella direzione della costruzione sociale e culturale della Persona (prima) e del Cittadino (poi). Educare alla complessità, al metodo scientifico, al pensiero critico, nutrendo e alimentando un pensiero che non può che essere multidimensionale
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- Sloman S., Fernbach P. (2017), The Knowledge Illusion. Why We Never Think Alone, trad.it., L’illusione della conoscenza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018.
- Taleb N.N. (2012), Antifragile, trad.it., Antifragile. Prosperare nel disordine, Milano: il Saggiatore 2013.
- Tegmark M. (2017), Vita 3.0. Essere umani nell’era dell’intelligenza artificiale, Raffaello Cortina Ed., Milano 2018.
- Tramma S. (2008), L’educatore imperfetto, Carocci, Roma 2017.
- Todorov T.(1995). La vie commune. Essai d’anthropologie générale, trad.it., La vita comune.L’uomo è un essere sociale, Milano: Pratiche Ed. 1998.
- Veca S., Cittadinanza. Riflessioni filosofiche sull’idea di emancipazione, Feltrinelli, Milano1990.
- Watzlawick P., Helmick Beavin J., Jackson D.D. (1967), Pragmatic of Human Communication. A Study of Interactional Patterns, Pathologies, and Paradoxes, trad.it., Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, Roma: Astrolabio 1971.
- Weber M. (1922). Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre trad.it., Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino: Einaudi, 1958.
- Wiener N. (1948), Cybernetics: or Control and Communication in the Animal and the Machine, trad.it., La cibernetica, Milano: Il Saggiatore, 1968.
- Wiener N. (1950), The Human Use of Human Beings, trad.it., Introduzione alla cibernetica. L’uso umano degli esseri umani, Torino: Bollati Boringhieri 1966.
Allego una delle recenti pubblicazioni scientifiche, in European Journal of Future Research:
https://link.springer.com/article/10.1007/s40309-017-0126-4 #PeerReviewed
Segnalo alcuni articoli e contributi:
- Tra conoscenza e controllo sociale (spunti per una lettura critica)
- “Per un’innovazione inclusiva**: ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico”
- “Innovare significa destabilizzare”. Perché la (iper) complessità non è un’opzione
- “Il grande equivoco. Ripensare l’educazione (#digitale) per la Società Ipercomplessa”
- “La società asimmetrica* e la centralità della “questione culturale”: le resistenze al cambiamento e le “leve” per innescarlo”
- “L’ipercomplessità e una crisi non soltanto economica. Ripensare il sapere e lo spazio relazionale”
- “La condizione del sapere nella società della conoscenza: tra condivisione e riproducibilità “tecnica”(?)”
- La comunicazione ridotta a marketing #PianoInclinato
Tra le interviste, condivido volentieri:
- Intervista concessa a l’Huffington Post: “La cultura della complessità come cultura della responsabilità”
- Intervista concessa a VITA: “Nella società ipercomplessa, la strategia è saltare le separazioni”
#CitaregliAutori
Vi ringrazio per il tempo dedicato e Vi auguro buona riflessione.
N.B. Condividete e riutilizzate pure i contenuti pubblicati ma, cortesemente, citate sempre gli Autori e le Fonti anche quando si usano categorie concettuali e relative definizioni operative. Condividiamo la conoscenza e le informazioni, ma proviamo ad interrompere il circuito non virtuoso e scorretto del “copia e incolla”, alimentato da coloro che sanno soltanto “usare” il lavoro altrui. Le citazioni si fanno, in primo luogo, per correttezza e, in secondo luogo, perché il nostro lavoro (la nostra produzione intellettuale) è sempre il risultato del lavoro di tante “persone” che, come NOI, studiano e fanno ricerca, aiutandoci anche ad essere creativi e originali, orientando le nostre ipotesi di lavoro.
I testi che condivido sono il frutto di lavoro (passione!) e ricerche e, come avrete notato, sono sempre ricchi di citazioni. Continuo a registrare, con rammarico e una certa perplessità, come tale modo di procedere, che dovrebbe caratterizzare tutta la produzione intellettuale (non soltanto quella scientifica e/o accademica), sia sempre meno praticata e frequente in molti Autori e studiosi.
Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle tante scorrettezze ricevute in questi anni. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da vent’anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede.
Immagine: opera di Wassily Kandinsky