Il grande equivoco. Ripensare l’educazione (#digitale) per abitare* la Società Ipercomplessa

Come sempre…non sono previsti “tempi di lettura”. Terminata la lettura, troverete anche indicazioni, percorsi di approfondimento e riferimenti bibliografici.

Un approccio e percorsi di ricerca dal’95

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Il grande equivoco. Ripensare l’educazione (#digitale) per abitare* la Società Ipercomplessa

“Non conosco altri modi in cui l’intelligenza o la mente potrebbero sorgere o essere sorte se non attraverso l’interiorizzazione da parte dell’individuo dei processi sociali dell’esperienza e del comportamento”

G.H.Mead

“La socialità non è un accidente né una contingenza; è la definizione stessa della condizione umana”

T.Todorov

“Il dominio della macchina ha cercato di negare l’esistenza di questa dimensione spirituale, mentre ciò che rende l’uomo veramente umano è la sua abilità a proiettare se stesso nel mondo attraverso la tecnica e le forme d’arte. Tentare di castrare gli attributi della soggettività equivale a ridurre l’uomo all’impotenza, a farne il trastullo di forze capricciose in un mondo assurdo, a renderlo, in altre parole, una creatura e non un creatore”

Lewis Mumford

“Le nostre attitudini a risolvere problemi possono finire con l’essere sterilizzate dai loro stessi successi: così, una strategia riuscita si trasforma in una ricetta programmata di conoscenza e la mente perde l’attitudine ad affrontare il nuovo e a inventarlo”

 Edgar Morin

“La consapevolezza non inizia con la cognizione o con la raccolta di dati o fatti, ma con i dilemmi”                                                                                                                                       

 Karl Popper

“L’economia interconnessa richiede scelte strategiche ed una nuova sensibilità etica per le problematiche riguardanti gli attori sociali, il sistema delle relazioni e lo spazio del sapere: occorre, cioè, una “nuova cultura della comunicazione”, orientata alla condivisione e all’intesa, in grado di incidere sui meccanismi sociali della fiducia e della cooperazione. Rimettendo al centro la Persona, lo spazio relazionale, i processi educativi”.

“A forza di cercare soluzioni semplici a problemi complessi, non siamo più in grado di prendere decisioni importanti” (1995)

 P. D.

 

Prima di passare a sviluppare le argomentazioni legate alle questioni complesse oggetto della presente analisi, non è inutile richiamare alcune premesse fondamentali e ineludibili, sulle quali siamo tornati più volte in questi anni:

  • «La “nuova” velocità del digitale, nell’interazione complessa con il fattore umano e il sistema delle relazioni sociali, conserva l’ambivalenza originaria di qualsiasi “fattore” di mutamento e di qualsiasi processo sociale e culturale; un’ambivalenza che, oltre ad essere straordinaria opportunità, mette anche in evidenza i nostri limiti e le nostre inefficienze – a livello personale, organizzativo e sociale – ma, soprattutto, ci lascia poco tempo per la riflessione e l’analisi critica su ciò che accade e, più in generale, su una (iper)complessità che mette a nudo la radicale inadeguatezza dei paradigmi, dei modelli interpretativi, delle culture tradizionali e, ancor di più, dei moderni strumenti di controllo e gestione». (cit.)
  • «La rivoluzione tecnologica, oltre al ribaltamento dell’interazione complessa tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale (Dominici,1995-1996), ha definito un nuovo rapporto tra l’individuo/la Persona e la norma, tra la teoria e la prassi, fornendogli, in qualche modo, l’illusione di avere “tutto sotto controllo” ed essere assoluto sovrano e padrone delle proprie scelte; oltretutto, con il rischio di non tenere nella dovuta considerazione le interazioni dinamiche e sistemiche, le interdipendenze sociali e la comunità di appartenenza. Diviene così urgente, ma allo stesso tempo problematica, la questione che Hans Jonas ben sintetizza nel concetto di autodeterminazione responsabile (un concetto che, anche di recente, qualcuno si è attribuito, insieme a quello di pedagogia della responsabilità…): un concetto probabilmente in grado di colmare il grande vuoto esistente tra le idee di autonomia e interdipendenza». (cit.)
  • «Oggi infatti, come mai in passato, la tecnologia è entrata a far parte della sintesi di nuovi valori e di nuovi criteri di giudizio (ibidem), rendendo ancor più evidente la centralità e la funzione strategica di un’evoluzione che è culturale e che va ad affiancare quella biologica, condizionandola profondamente e determinando dinamiche e processi di retroazione (si pensi ai progressi tecnologici legati a intelligenza artificiale, robotica, informatica, nanotecnologie, genomica etc.). In altre parole, nel quadro complessivo di un necessario ripensamento/ridefinizione/superamento della dicotomia natura/cultura, non possiamo non prendere atto di come i ben noti meccanismi darwiniani di selezione e mutazione si contaminino sempre di più con quelli sociali e culturali che caratterizzano la statica e la dinamica dei sistemi sociali. Sempre più difficile, oltre che fuorviante, provare a tenere separati i due percorsi evolutivi (non lineari) e, allo stesso tempo, sempre più urgente si fa la domanda di un approccio multi/inter/trans-disciplinare alla complessità per l’analisi e lo studio di dinamiche e processi (appunto) sempre più complessi (interdipendenti/interconnesse/imprevedibili/non-lineari/non osservabili fino dal principio/aperte), all’interno dei quali i piani di discorso e le variabili/concause intervenienti si condizionano reciprocamente, mettendo a dura prova i tradizionali presupposti epistemologici, oltre che i modelli teorico-interpretativi lineari. E, ancora una volta, non si tratta di essere “pro” o “contro”, anzi occorre andare oltre la sterile, ma sempre presente e puntuale, polarizzazione del dibattito che ha logiche radicalmente differenti da quelle della produzione e condivisione di conoscenza (potere): dobbiamo acquisire consapevolezza di trovarci difronte ad una trasformazione antropologica (1996) che, mettendo in discussione gli stessi presupposti basilari di pensiero, teoria e prassi, evidenzia ancora una volta l’urgenza di un cambio di paradigma – più volte echeggiato già negli anni Novanta – e la ridefinizione delle stesse categorie concettuali» (cit.).

 

  • «I “vecchi” confini tra formazione scientifica e formazione umanistica sono di fatto completamente saltati, in conseguenza delle straordinarie scoperte scientifiche e delle continue accelerazioni indotte dall’innovazione tecnologica, che rendono ancor più ineludibile l’urgenza di un’educazione/formazione alla complessità e al pensiero critico (logica) e sistemico. Tuttavia, le resistenze ad un cambiamento così radicale di prospettiva (modelli, pratiche e strumenti) sono fortissime, arrivano soprattutto dai “luoghi” ove si produce e si elabora conoscenza e sono legate a motivazioni di diversa natura: logiche dominanti, modello sociale feudale, questione culturale, primato della Politica in tutte le dimensioni, familismo amorale, culture organizzative, climi d’opinione etc. Fondamentalmente, soprattutto perché, come affermato in tempi non sospetti, in qualsiasi campo della prassi individuale e collettiva, innovare significa mettere in discussione saperi e pratiche consolidate, immaginari individuali e collettivi, rompere equilibri, spezzare le catene della tradizione (cit.), abbandonare il certo per l’incerto con rischi (opportunità), anche percepiti, notevolmente superiori. In altre parole, rendere, almeno temporaneamente, più vulnerabili i sistemi e lo spazio comunicativo e relazionale che li caratterizza. Una questione strategica e decisiva per il complesso processo di costruzione, sociale e culturale, della Persona e del cittadino e, quindi, dello spazio pubblico, che riveste un ruolo di fondamentale importanza anche in considerazione del costante e rapido mutamento del contesto, locale e globale, di riferimento (Società Ipercomplessa)» (cit.).

 

  • La ipercomplessità non è – e non è mai stata – un’opzione, è un “dato di fatto”: purtroppo, c’è ancora poca consapevolezza di trovarsi di fronte ad una ipercomplessità che si è a tal punto estesa da rendere estremamente difficile e complicato qualsiasi tentativo di fornire/formulare schemi di semplificazione e riduzione della stessa e che, d’altra parte, quasi inevitabilmente, sono destinati a restituirne una visione quanto meno parziale; da rendere quasi impensabile e, addirittura, utopistico quello, ben più ambizioso, di definire un modello teorico-interpretativo (dimensione fondamentale ma troppo spesso sottovalutata, considerata perfino “inutile”…) o un “sistema di pensiero” in grado di spiegare il mutamento in atto; in grado di riconoscere e comprendere l’ambivalenza e l’interazione di tutti i livelli problematici coinvolti. Non è un caso, infatti, che si ricorra a “vecchi” modelli e schemi interpretativi, magari ri-adattati con qualche neologismo ad effetto per presentarli come originali e innovativi. Si tratta di una complessità ulteriormente accresciuta dalla rilevanza, sempre più strategica, che la comunicazione e l’innovazione tecnologica (che ne sono, ormai, elementi costitutivi**) hanno assunto, non soltanto nei processi educativi e di socializzazione, ma, anche e soprattutto, nella rappresentazione e percezione di dinamiche e processi evolutivi sistemici. Dimensioni problematiche complesse che, evidentemente, condizionano anche interpretazioni e narrazioni egemoni. Il vero problema è che – da sempre – continuiamo a non essere educati e formati a riconoscere questa ipercomplessità e, in ogni caso, non con la nostra testa (ibidem e sgg.). Un’inadeguatezza resa ancor più evidente nella società dell’interdipendenza e dell’interconnessione globale: un “nuovo ecosistema” (Dominici, 1996) in cui tutto è sempre più collegato e (iper)connesso, all’interno di processi e dinamiche non lineari, con tante variabili e concause da considerare. 

 

  • Ma, il “vero” problema, come ripetiamo da sempre, è relativo al “pensare” e al nostro pensiero e, allo stesso tempo, è questione epistemologica (1995-1996): in altre parole (semplici), continuiamo ad essere educati e formati a “saper osservare” e riconoscere soltanto “oggetti” (che, in realtà, sono sempre “sistemi”) e, soprattutto, a trovare le “soluzioni” (semplici) ai nostri problemi (complessi – che, sia chiaro, non significa più grandi, più difficili o confusi), solo e soltanto, nella opportunità/possibilità/attitudine/abilità/capacità di isolare e/o scomporre le “parti” che costituiscono i sistemi stessi, invece di individuarne le intime correlazioni e la natura sistemica delle dinamiche. Confondendo, ancora una volta, “sistemi complicati” (meccanismi) e “sistemi complessi” (organismi): ne abbiamo parlato, alla metà degli anni Novanta, in termini di “errore degli errori”(cit.).

Pur tralasciando per un momento che – secondo chi scrive, e da tempi non sospetti – sia, già di per sé, un grave errore strategico, e per tante ragioni, anche soltanto continuare a parlare/dibattere, dopo oltre vent’anni, di ripensare/trasformare/re-immaginare l’EDUCAZIONE DIGITALE e non l’EDUCAZIONE nel suo complesso, non possiamo non rilevare come la cd. educazione digitale e/o ai cd. nuovi media (definizione non più valida) continui ad essere ancora vista, in molti casi, come una questione soltanto di “competenze”, che va declinata soprattutto in termini di “saper fare”, “saper utilizzare” e/o di un “know-how” sempre più spesso confuso con l’approccio alla complessità: un concetto che, ogni volta, viene espresso allargandolo ed estendendolo spesso più per mostrare, a livello di discorso pubblico, che la propria visione è sempre la più originale, nonostante l’evidenza della prassi e le esperienze mostrino che non è soltanto una questione di competenze, di “saper fare”, di “saper utilizzare” per fornire soluzioni in tempi brevi.
Oltre a questa dimensione, l’educazione digitale vien vista e presentata come lo strumento di tutela/protezione delle nuove generazioni dai rischi e dai pericoli determinati dalla rivoluzione digitale e, nello specifico, dall’avvento delle “nuove” tecnologie della connessione (cit.).

Premettendo come, da oltre vent’anni, abbia sempre posto la questione di dover “ripensare l’educazione”, in maniera radicale, e non soltanto la cd. “educazione digitale e/o ai media” (non eravamo in tanti a porre le questioni in questi termini, anzi… verba volant…), considerando le “implicazioni epistemologiche del digitale**(anche su questo punto, oggi lo sostengono tutti, anni fa…basterebbe andarsi a rileggere cosa sostenessero gli “esperti”, non soltanto quelli coinvolti dalla Politica); “ripensare l’educazione”, evidentemente, rispetto alla mia proposta sistemica, sempre e inevitabilmente “insieme”, con la didattica, la ricerca, la formazione (Dominici, 1995-96 e sgg.).

Quella di ragionare soltanto in termini di “educazione digitale e/o ai media” (o soltanto di “competenze digitali”, pur necessarie) è – come ribadisco da tempi non sospetti – una prospettiva/visione limitante e limitata ed è il paradigma egemone, incontrastato (se non da pochissimi), anche a livello internazionale, dove continuano ad essere valorizzati e diffusi (soprattutto) approcci e paradigmi riduzionistici e deterministici, un po’ in tutti i campi del sapere. È la prospettiva che continua/continuerà a condannarci alla condizione di “ritardo culturale” nel processo complesso di costruzione di una “cultura della complessità” … per abitare** la (iper)complessità dei nuovi ecosistemi iperconnessi*(cit.) e l’emergenza continua che li caratterizza (altro che “cigni neri”!). Per abitare* la complessità del digitale e dei nuovi ecosistemi, con tutte le dimensioni e implicazioni correlate all’avvento dell’intelligenza artificiale, da me definita come “nuova frattura epistemologica” (cit. 1996, 2003) anche con riferimento alla distinzione tra “sistemi complicati” e “sistemi complessi”. (cfr. concetto e definizione operativa di “errore degli errori”).

E aggiungo, sempre con riferimento alla questione “educazione digitale”, questa non può e non deve essere affrontata soltanto in termini di protezione e tutela, altrimenti torna ancora una volta il rischio di un approccio esclusivamente repressivo, riduzionistico, costruito sulla paura e sulla non-conoscenza (variabili collegate), schiacciato su mezzi e strumenti (reti e social compresi).

Mentre, ancora una volta, l’attenzione andrebbe posta, concretamente, sulle Persone, sul sistema di relazioni, sul contesto educativo e culturale, sui mondi vitali (!), in una prospettiva che – continuerò a ribadirlo sempre – non può che essere sistemica, multidisciplinare e interdisciplinare.

Gli obiettivi fondamentali dell’educazione digitale e, più in generale, tecnologica sono, a mio avviso, differenti e concernono molteplici livelli di analisi e intervento che provo a sintetizzare e richiamare in alcuni punti: 1) la cd. educazione digitale deve (dovrebbe) quanto meno accrescere la consapevolezza (su questo aspetto registro, ormai, un discreto consenso) rispetto alle molteplici variabili in gioco; 2) l’educazione digitale deve (dovrebbe) definire e creare le condizioni di un approccio realmente critico e sistemico alla trasformazione in atto: su tale aspetto, invece, c’è davvero tanto da lavorare, dal momento che certi concetti continuano ad essere usati, sostanzialmente, come slogans; 3) l’educazione digitale deve mettere in condizione le Persone (e i Cittadini) di affrontare e gestire le dinamiche e i processi che scaturiscono non soltanto dall’innovazione tecnologica, ma da numerosi altri fattori (economico, sociale, politico, culturale) che contraddistinguono il nuovo ecosistema; in maniera tale che giovani (e adulti) siano in grado, non soltanto di difendersi dai “lati oscuri” del digitale, di “saper utilizzare” gli strumenti e abitare i nuovi ambienti, ma anche, e soprattutto, siano in grado di saperne sfruttare i vantaggi e le enormi potenzialità sia per la condivisione di informazioni e conoscenza che per la costruzione/rafforzamento/intensificazioni delle reti di relazionalità (comunicazione vs. connessione).

Alla luce di queste brevi considerazioni – che andrebbero sciolte e argomentate ulteriormente – a mio avviso (e lo sostengo non da oggi), l’educazione digitale va profondamente ripensata e dovrebbe porsi anche altri obiettivi fondamentali, per certi versi, perfino ambiziosi. Proprio perché siamo nella Società Interconnessa/iperconnessa, proprio perché abitiamo il “nuovo ecosistema” e la cd. era dell’accesso (Rifkin) in cui le nuove disuguaglianze (sempre più marcate ed evidenti) e le nuove asimmetrie, riguardano da vicino l’accesso a risorse immateriali, la capacità di elaborare e condividere conoscenze e quella di organizzarle sistematicamente e funzionalmente – ebbene proprio in questa delicata fase evolutiva, l’educazione, e non soltanto l’educazione digitale si configura di fatto – deve diventare – come la “base” su cui edificare, socialmente e culturalmente, la nuova cittadinanza, il nostro vivere insieme, ripensando lo spazio relazionale e comunicativo (sono saltate da tempo anche le vecchie categorie di sfera pubblica e sfera privata) e provando a ridefinire il “contratto sociale” (ibidem).

Detto in altri termini, non possiamo assolutamente accontentarci di accrescere la consapevolezza rispetto alle molteplici variabili in gioco (importante). L’educazione digitale va profondamente ripensata sulla base anche di una ridefinizione degli obiettivi fondamentali. Ciò implica il passaggio, tutt’altro che semplice e scontato, da una visione limitata dell’educazione digitale – e, sia chiaro, dell’educazione nel suo complesso – intesa come “strumento” (o insiemi di strumenti) e come insieme di “competenze” funzionali a preparare tecnicamente, ed al “saper fare”, i nostri giovani (e con loro, gli insegnanti, i dirigenti, le Persone etc.) ad una visione/concezione dell’educazione come cultura della complessità e della responsabilità, entrambe costruite dentro un’epistemologia dell’incertezza (Morin) e/o dell’errore (Dominici).

Allo stesso tempo, va ripensata anche come insieme di strumenti complessi in grado di rendere effettivi diritti e doveri fondamentali per la stessa sopravvivenza delle moderne democrazie. Democrazie che appaiono in crisi, con una politica a dir poco marginale rispetto alla sfera dell’economia e della tecnocrazia e con un perdita di credibilità delle istituzioni che affonda le sue radici in sistemi sociali sempre più diseguali e asimmetrici, con distanze sempre più nette tra ricchi e poveri, tra chi può accedere ad un’educazione e formazione di qualità.

La correlazione tra educazione e cittadinanza/inclusione si rivela, in tale prospettiva, ancor più evidente e conseguenziale. Perché non sono, e non saranno, la tecnologia e/o il digitale a determinare cittadinanza e inclusione, o a creare le famose “Teste ben fatte” (Montaigne). In tal senso, al di là di queste considerazioni preliminari, ci tengo a precisare che, a mio avviso, esiste un altro rischio, estremamente concreto: quello di pensare (e agire di conseguenza) che l’educazione digitale – e, con essa, la stessa cultura digitale …anzi le stesse culture digitali – sia una questione meramente “tecnica”, di “preparazione tecnica”, di “competenze” specifiche legate (esclusivamente) alla “natura” delle (nuove) tecnologie della connessione e dei nuovi ecosistemi/ambienti comunicativi.

 

Educare alla responsabilità, alla complessità, all’empatia… perché l’educazione digitale non è sufficiente!

Occorre pertanto educare alla complessità per saperla riconoscere e provare a gestirla (per chi scrive, una “contraddizione in termini”, come spiegato in altre sedi). Fondamentale, decisivo, strategico sia per le organizzazioni che per le democrazie, peraltro segnate da una profonda crisi. Eppure nella “società ipercomplessa” (2003), non è più sufficiente: sempre più di fondamentale importanza è saper anche comunicare questa (iper)complessità e ciò, evidentemente, riporta in primo piano (se ancora ce ne fosse bisogno) la questione delle conoscenze e delle competenze, oltre che l’urgenza di superare, una volta per tutte, le “false dicotomie” (Dominici 1995-1996 e sgg.).

Dico sempre: non basta più “sapere” e non basta più “saper fare”: dobbiamo necessariamente educare e formare a “sapere”, “saper fare”, ma anche, e soprattutto, a “saper comunicare il sapere” e a “saper comunicare il saper fare”. Si tratta di conoscenze e competenze ormai richieste in tutte le professioni ad elevato contenuto conoscitivo, che caratterizzeranno sempre più la “società della conoscenza” e l’economia della condivisione. Ecco perché non è possibile non tornare sulla centralità strategica di scuola e università, sui percorsi didattico-formativi che propongono e sui relativi obiettivi. E mi rendo conto, nel farlo – la cosa non mi preoccupa affatto – che corro il rischio di risultare ripetitivo ma, come sostengo da oltre vent’anni, è la “questione” delle questioni. Se non interverremo in maniera profonda e sistematica su tali dimensioni, ci ritroveremo in una condizione problematica di perenne ritardo culturale rispetto, appunto, alla complessità, multidimensionalità e ambivalenza dei processi di innovazione e mutamento.

Per queste ragioni, siamo tornati (e torniamo spesso) a ragionare sulla questione complessa della (iper)complessità e sulla centralità dell’educazione e dei processi educativi; e non possiamo fare a meno di rilevare come, attualmente, tutti ne parlino e, per certi versi, ciò costituisce senz’altro un aspetto positivo (anche così cambiano i climi culturali); si potrebbe dire, con uno slogan, “tutto è complessità” (allo stesso modo di “tutto è resilienza”), analogo all’altro famoso slogan “tutto è comunicazione”, che peraltro a tutto è servito meno che a chiarirne la natura complessa e ambigua, oltre che la rilevanza strategica; ecco, il rischio è proprio quello della banalizzazione, del discorso pubblico che, seguendo le consuete logiche della polarizzazione, struttura le agende delle opinioni pubbliche, lasciando pochissimo spazio all’approfondimento ed alla valutazione critica delle posizioni in campo.

Ma, nell’affrontare il tema (l’approccio) e le profonde implicazioni della complessità (sguardo/visione/epistemologia), dobbiamo essere consapevoli della sua “natura” (lo stesso Edgar Morin parla di “natura della conoscenza” e di “conoscenza della conoscenza”), anche nel senso di come possiamo intendere la (iper)complessità, dal momento che – come detto – è essa stessa, complessa e ambivalente.

Una (iper)complessità che è COGNITIVA – SOGGETTIVA- SOCIALE – ETICA, oltre che LINGUISTICA e COMUNICATIVA, e che può essere intesa COME:

  • RECIPROCITÀ DI INSIEMI E MOLTEPLICITÀ
  • Molteplicità di VARIABILI, CONCAUSE e PARAMETRI
  • Molteplicità delle CONNESSIONI
  • Molteplicità dei LIVELLI di INTERCONNESSIONE
  • SISTEMA/SISTEMI di RELAZIONI SISTEMICHE
  • NUOVO PARADIGMA EDUCATIVO E FORMATIVO
  • EPISTEMOLOGIA DELL’INTERDIPENDENZA PER LA «SOCIETÀ IPERCOMPLESSA/INTERCONNESSA»
  • RIFLESSIONE SULLA COMPLESSITÀ STESSA
  • APPROCCIO – ORGANIZZAZIONE DELLE ESPERIENZE E DEI SAPERI — CAOS e DISORDINE (OPPORTUNITÀ) — CULTURA dell’ERRORE
  • COESISTENZA DI ELEMENTI CONFLITTUALI
  • COESISTENZA DI CAOS e DISORDINE
  • PLURALISMO di PRINCIPI, VALORI e VISIONI
  • VALORIZZAZIONE DELL’ETEROGENEITÀ
  • VALORIZZAZIONE DELL’AMBIVALENZA e DELLE CONTRADDIZIONI
  • VALORIZZAZIONE DELL’ERRORE e DELL’IMPREVEDIBILITÀ
  • COSTRUZIONE di una “CULTURA DELL’ERRORE” (1995-1996)
  • CONSAPEVOLEZZA DEL VALORE DELL’EMERGENTE
  • CONSAPEVOLEZZA che la CONOSCENZA NON può essere ricondotta esclusivamente a DATI o SEQUENZE di DATI.
  • CONSAPEVOLEZZA del VALORE PROBABILISTICO e STATISTICO delle CONOSCENZE
  • CONSAPEVOLEZZA del VALORE ARBITRARIO E CONVENAZIONALE di LINGUAGGI e CODICI utilizzati per definire e rappresentare la VITA, il SOCIALE, la COMPLESSITÀ
  • URGENZA DI UN APPROCCIO INTERDISCIPLINARE E TRANSDISCIPLINARE
  • COESISTENZA DI NORMALITÀ e A-NORMALITÀ/DEVIANZA/PATOLOGIA
  • “NON OSSERVABILITÀ” DI TUTTE LE DIMENSIONI
  • ………………………………………………………………………………………
  • ………………………………………………………………………………………

La consapevolezza (tuttora, lontana) della “natura” complessa della (iper)complessità deve (dovrebbe) condurci verso un’altra questione fondamentale: le false, e fuorvianti, dicotomie tra complessità e specializzazione, tra interdisciplinarità/multidisciplinarità/transdisciplinarità e specializzazione, tra conoscenze e competenze che, bene ribadirlo con forza, non sono in alcun modo antitetiche, né tanto meno costituiscono/rappresentano delle dicotomie.

Necessario ripartire dall’esigenza di coniugare pensiero e azione (pensiero è azione), teoria e ricerca/pratica, conoscenze e competenze (non soltanto “tecniche”), umano e tecnologico, non cadendo nella trappola, non soltanto argomentativa, dell’inutilità dei saperi (sulla questione della utilità/inutilità della conoscenza ci sarebbe da dire tantissimo: è il concetto, il “principio ingannevole”, su cui abbiamo edificato le nostre scuole e le nostre università…ma ci torneremo ancora).

Su queste false dicotomie, e sulle “logiche di separazione reclusione” che alimentano da sempre, d’altra parte, sono state costruite carriere, aree di potere, sfere di influenza, inespugnabili “torri d’avorio” e sono stati venduti tanti libri e…soluzionismi di maniera; e tutto questo anche, e soprattutto, a danno dei nostri giovani (purtroppo) e, più in generale, dell’evoluzione rimasta incompiuta del nostro ECOSISTEMA-CULTURA.

A più riprese e in tempi non sospetti, abbiamo sottolineato il rischio di un’innovazione tecnologica senza cultura e di un declino che, come quello di tutti i Paesi più “avanzati”, parte proprio dalla Scuola e dall’Università, private o, quanto meno, indebolite rispetto alle loro funzioni vitali per una Democrazia compiuta che intende fondarsi su cittadini e non sudditi, su una partecipazione concreta ed effettiva, e non soltanto “simulata” (abbiamo proposto, in passato, il concetto di “simulazione della partecipazione”).

E NOI, come Comunità (non soltanto “scientifica” e dei saperi), paghiamo ancora un dazio pesantissimo per la persistenza e il radicamento di questefalse dicotomie(Dominici, 1995-1996) che innervano e strutturano la nostra Scuola e la nostra Università, la nostra ricerca e i relativi percorsi didattico-formativi.

Il “mondo” e la “realtà”, non da oggi, sono complessi, anzi ipercomplessi ma, al di là del discorso pubblico che fa suoi, di volta in volta, temi e questioni considerati alla moda (trends), continuiamo a tenere ben separate le cd.“due culture” (Snow) e ad educare adottando modelli interpretativi lineariquando poi non si presentano problemi di logica e analfabetismo funzionale, purtroppo molto diffusi – ricadendo puntualmente in interpretazioni deterministiche e riduzionistiche.

Dobbiamo, pertanto, essere consapevoli – non soltanto a paroleche il futuro (come ripetiamo sempre, la “vera” innovazione, quella sociale e culturale) è di chi riuscirà a ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico, di chi riuscirà a ridefinire e ripensare la relazione complessa tra naturale e artificiale; di chi saprà coniugare (non separare) conoscenze e competenze; di chi saprà coniugare, di più, fondere cultura umanistica e cultura scientifica, sia a livello di educazione, formazione e ricerca, che di definizione di profili e competenze professionali (sulle competenze: non mi stancherò mai di ripeterlo, sono necessarie sia le hard che le soft skills…e, invece, continuiamo a far classifiche su tutto, anche su questi argomenti). Sempre più urgente educare e formare quello che ho definito (anche operativamente) “FIGURE IBRIDE” (1995-1996) che, come ripeto ogni volta, non sono “TUTTOLOGI” (rinvio alle numerose pubblicazioni scientifiche internazionali sul tema).

E, nel far questo, occorrerà prestare particolare attenzione alle continue tentazioni delle vie brevi, delle soluzioni semplici (di certo storytelling che quasi sostituisce la realtà), delle strade giù percorse e, per questo, rassicuranti che spesso nascondono soltanto interessi economici e di potere, visioni ideologiche rese ben visibili, oltre che accettabili e condivisibili, attraverso un’incessante attività di promozione e marketing degli eventi. […] Innovare significa destabilizzare, ma occorre, prima di tutto, educare e formare criticamente le persone a pensare con la loro testa e a vedere gli “oggetti” come “sistemi(e non viceversa)*”.

In conclusione, ribadisco un concetto (che si sostanzia in un approccio) su cui lavoro da molti anni e che – avrete compreso – ritengo essenziale: ammesso che si continui a non voler pensare ad un CAMBIAMENTO RADICALE dell’EDUCAZIONE, in ogni caso, la stessa definizione di “Educazione Digitale” va – come già detto – rivista, allargata ed estesa ad altri approcci, ad altre conoscenze e competenze – tra i due termini, mettendo al centro sempre quello di “educazione” – proprio perché non dobbiamo soltanto educare e formare “individui” consapevoli della complessità digitale (anche se sarebbe già un buon risultato), tecnicamente preparati; dobbiamo educare e formare Persone (prima) e Cittadini (poi) in grado di saper riflettere, pensare, argomentare, organizzare, riconoscere e creare “connessioni”, in maniera logica, critica, corretta ed efficace; capaci di immaginare o, meglio ancora, riconoscere/saper riconoscere la complessità e i livelli di connessione e di relazione tra le Persone, tra i sistemi, tra le Persone e i sistemi. Approccio, metodo, conoscenze e competenze che devono essere una costante, un elemento di continuità nei percorsi didattico-formativi delle nostre scuole e delle nostre università.

Finché non prenderemo consapevolezza e non saremo in grado di chiarire questo “grande equivoco” (#CitaregliAutori) posto già alla base del dialogo (negato) tra i saperi e le competenze, alla base della vita pubblica e della democrazia, non riusciremo a correggere l’attuale rotta di navigazione che ci porta soprattutto ad adattarci al cambiamento e non a saperlo governare e/o modificare.

Alla base della maggior parte dei nostri problemi, in numerosi ambiti e campi della prassi sociale, si trova proprio l’errore degli errori e la scarsa consapevolezza che, per tante ragioni (incompletezza, limiti, fragilità, razionalità limitata etc.), continuiamo a “tenere separato” qualcosa che è profondamente unito, interdipendente, interconnesso.

Al di là dei tanti paradossi del mutamento in atto, il grande “equivoco”, nella/della civiltà ipertecnologica e ipercomplessa, è quello di continuare a pensare l’educazione e i processi educativi (vale anche per la formazione) come “questioni esclusivamente di natura tecnica”, un problema soltanto di “competenze” e di “saper fare”(punto e basta), un problema – una serie di problemi – da affrontarsi puntando tutto su velocità e simulazione.

E continuando a riprodurre, a non correggere, la drammatica separazione tra formazione umanistica e formazione scientifica (di volta in volta, continueremo ad affermare che serve più l’una o più l’altra), siamo destinati a perder sempre più di vista l’insieme, il complesso, il globale, l’ALTRO DA NOI.

Detto in altri termini, dobbiamo ripensare e rivedere lo stesso concetto di “educazione digitale” che, di fatto, per come l’abbiamo immaginata e definita, rappresenta sempre più lo “strumento” complesso di definizione delle condizioni strutturali di una “partecipazione non simulata” e di una cittadinanza piena, effettiva, partecipata e – come ripeto spesso, evocando, nel concetto, un grande “classico” – “non eterodiretta”.

Sempre in questa prospettiva: se non si ripensa l’educazione e, ancor di più, il pensiero sull’educazione, modificando in tale direzione le scelte e le strategie riguardanti sia la didattica che la formazione (continua e sistematica, con una parte flessibile e modulare) di tutte le figure coinvolte ai vari livelli anche decisionali, non andremo molto lontano e continueremo a tentare di cavalcare il mutamento ricorrendo alle solite vecchie “logiche di breve periodo”.

L’educazione, non soltanto quella “digitale” (anzi!), dev’essere re-immaginata e ripensata, comunque e sempre, nella direzione della costruzione sociale e culturale della Persona (prima) e del Cittadino (poi).

Come scritto anche in passato….

Nell’affrontare tali questioni, occorre fare attenzione a non cadere nella tentazione delle soluzioni semplici, delle spiegazioni deterministiche e dei facili riduzionismi.

Abbiamo urgentemente bisogno di spiegazioni e analisi fondate su dati e ricerche, ma abbiamo anche terribilmente bisogno di un approccio teorico critico alla complessità, che ci metta in condizione di uscire dalle sabbie mobili del determinismo monocausale ma anche, ad un livello meno impegnativo, di un nuovismo acritico di maniera che ci ha portato a convincerci, in questi anni, che tutto era fantastico solo perché “nuovo”.

Lo ribadisco, con forza, ancora una volta: Scuola e Università, istruzione, educazione e formazione (continua) devono (dovrebbero) essere poste, concretamente (!), al centro di ogni progettualità e processo innovativo (visione sistemica); e, nell’affrontare le sfide della cittadinanza e di una “innovazione inclusiva”, che sono le sfide della (iper)complessità ma anche della responsabilità, è necessario essere consapevoli «…non soltanto a parole e nel discorso pubblico – che il futuro (come ripetiamo sempre, la “vera” innovazione, quella sociale e culturale) è di chi riuscirà a ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico, di chi riuscirà a ridefinire e ripensare la relazione complessa tra naturale e artificiale; di chi saprà coniugare (non separare) conoscenze e competenze; di chi saprà coniugare, di più, fondere le due culture (umanistica e scientifica) sia a livello di educazione e formazione, che di definizione di profili e competenze professionali».

Si avverte, in tal senso, l’urgenza di superare quelle che, in tempi non sospetti, ho definito le «false dicotomie»: teoria vs. ricerca/pratica; formazione scientifica vs. formazione umanistica; conoscenze vs. competenze; hard skills vs. soft skills (proprio in questa prospettiva cfr., in particolare, “Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente – EQF” e Descrittori di Dublino, riferimenti importanti ma poco conosciuti, anche in ambito accademico). Facendo attenzione, anche con riferimento alle tematiche riguardanti la scuola e l’università, alle continue tentazioni delle vie brevi, delle soluzioni semplici, delle strade giù percorse e, per questo, rassicuranti che spesso nascondono soltanto interessi economici e di potere, visioni ideologiche rese ben visibili, oltre che accettabili e condivisibili, attraverso un’incessante attività di promozione e marketing degli eventi. Questa, la definizione che da sempre ho utilizzato: “Innovare significa destabilizzare”. Ma occorre, prima di tutto, educare e formare criticamente le persone a pensare con la loro testa (a porsi e a fare domande, non accontentandosi soltanto delle solite risposte/soluzioni) e a vedere gli “oggetti” come “sistemi” (e non viceversa)**(cfr. anche Per un’innovazione inclusiva). #CitaregliAutori

Concludo, recuperando le parole di un precedente contributo:

Da tempo, ormai, non sappiamo più guardare/osservare l’insieme, il sistema, l’intero, la globalità, il sistema di relazioni e/o interazioni che li caratterizzano; in altre parole, ne riconosciamo con difficoltà legami, correlazioni, nessi di causalità: proprio perché siamo stati educati e formati (nella migliore delle ipotesi) a descrivere, registrare regolarità, ai “come” e non ai “perché”; siamo stati educati e formati a cercare (?) e ad accontentarci di risposte semplici e/o pre-codificate (in ogni caso, ottenute in poco tempo), a cercare – dico sempre – soluzioni semplici a problemi (iper)complessi. E tale prospettiva, oltre ad essere miope e fuorviante, si rivela ancor più paradossale proprio perché viviamo (= conosciamo) nell’epoca dell’interconnessione globale, in cui tutti i processi sono interdipendenti e collegati tra loro (e lo saranno sempre di più): dobbiamo fare i conti con dimensioni e livelli di interazione e retroazione – a livello soggettivo, relazionale, sistemico, organizzativo, sociale – che mettono in evidenza, se ancora ce ne fosse bisogno, l’urgenza di ripensare i paradigmi in una prospettiva sistemica e della/sulla (iper)complessità».

Lo ribadisco con forza, ancora una volta: occorre correggere radicalmente la strutturale inadeguatezza e le clamorose miopie che caratterizzano, da sempre, Scuola e Università (che vanno pensate “insieme” anche per affrontare la vecchia questione della formazione dei formatori) che sono le uniche “vere” istituzioni / “luoghi” responsabili della definizione e costruzione delle condizioni di emancipazione sociale. Si tratta di promuovere, non soltanto un’educazione critica alla complessità e alla responsabilità (fin dai primi anni di scuola), ma anche, e soprattutto, di incoraggiare concretamente, “nei fatti” e non soltanto nei documenti istituzionali, il pensiero critico, la complessità, l’interdisciplinarità e la transdisciplinarità anche, e soprattutto, a livello della ricerca scientifica. Ciò, peraltro, avrebbe ricadute significative per gli stessi percorsi didattico-formativi ed, evidentemente, per la formazione (continua) dei futuri formatori. Preparandoci e abituandoci all’idea che i risultati di queste scelte strategiche, di vitale importanza, “si vedranno” tra molti anni, sempre e comunque nel lungo periodo.

 

«EDUCAZIONE È COMPLESSITÀ E PENSIERO SISTEMICO»

Nota a margine: E, anche questa volta, pur adottando da sempre “approcci” (?) e metodi differenti, in tanti diranno che sostengono le stesse “tesi” e lavorano già in questa direzione…questioni di conformismo, un conformismo che cannibalizza le idee e i progetti, non cerca alcuna condivisione o distribuzione dei saperi e delle competenze; rallenta e rende complicata la via all’innovazione, l’innovazione che conta, quella che rende dinamici i sistemi, le organizzazioni, i gruppi…l’innovazione sociale e culturale.

Alcuni riferimenti bibliografici (una selezione) e percorsi di approfondimento:

Fare #CopiaeIncolla senza #CitaregliAutori (anche in maniera sofisticata) non è solo un reato/scorrettezza: si nega la “natura” stessa della conoscenza (condivisa e collettiva). Anche le intuizioni più originali possono accadere grazie al lavoro ed alle ricerche di tante Persone.

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#CitaregliAutori

N.B. Condividete e riutilizzate pure i contenuti pubblicati ma, cortesemente, citate sempre gli Autori e le Fonti anche quando si usano categorie concettuali e relative definizioni operative. Condividiamo la conoscenza e le informazioni, ma proviamo ad interrompere il circuito non virtuoso e scorretto del “copia e incolla”, alimentato da coloro che sanno soltanto “usare” il lavoro altrui. Le citazioni si fanno, in primo luogo, per correttezza e, in secondo luogo, perché il nostro lavoro (la nostra produzione intellettuale) è sempre il risultato del lavoro di tante “persone” che, come NOI, studiano e fanno ricerca, aiutandoci anche ad essere creativi e originali, orientando le nostre ipotesi di lavoro.

I testi che condivido sono il frutto di lavoro (passione!) e ricerche e, come avrete notato, sono sempre ricchi di citazioni. Continuo a registrare, con rammarico e una certa perplessità, come tale modo di procedere, che dovrebbe caratterizzare tutta la produzione intellettuale (non soltanto quella scientifica e/o accademica), sia sempre meno praticata e frequente in molti Autori e studiosi. 

Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle tante scorrettezze ricevute in questi anni. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da vent’anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede.

Buona riflessione!

 

Immagine: opera di Salvador Dalì