Una breve riflessione – al termine della quale potrete leggere un vecchio contributo e, come sempre, riferimenti bibliografici – su questioni che reputo importanti, profondamente indicative della qualità degli spazi relazionali e comunicativi. E – sia chiaro, almeno per chi scrive – la “colpa”, come per altre tematiche, non è del web e/o dei social. Le questioni e le ragioni legate alla statica ed alla dinamica dei gruppi e dei sistemi sociali sono più profonde e complesse. Affondano nei corpi sociali e nelle radici profonde di quella che, in passato, ho definito “società di massa interconnessa/iperconnessa”. (cfr. anche “La modernità complessa tra istanze di emancipazione e derive dell’individualismo: la comunicazione per il legame sociale” http://www.vitaepensiero.it/scheda-articolo_digital/piero-dominici/la-modernita-complessa-tra-istanze-di-emancipazione-e-derive-dellindividualismo-la-comunicazione-per-il-legame-sociale-000309_2014_0003_0281-254794.html #PeerReview)
Sono davvero poche le Persone che riconoscono, apprezzano, valorizzano le idee, i progetti, il lavoro, l’autenticità e la generosità degli altri. Troppo prese dal non veder oscurati la propria luce e il proprio IO…
Troppo prese, coinvolte, immerse in una logica di concorrenza (peraltro, senza regole) e di competizione sfrenata che, nel mondo della produzione intellettuale, creativa, culturale (delle azioni e dei progetti che ne scaturiscono), è ancor più negativa e controproducente. E così, altro che collaborazione, cooperazione, altro che condivisione, altro che co-creazione (i “classici”, tanto disprezzati, funzionano sempre per produrre etichette di successo e, apparentemente, originali); altro che #SharingEconomy e/o #SharingSociety. Si tratta di un problema complesso di educazione che chiama in causa anche la ben nota “questione culturale”.
La strada è ancora tanto lunga, forse troppo lunga, e non è detto che si arrivi a destinazione. Ciò nonostante, occorre insistere, lavorando sul “lungo periodo” (attualmente lo sostengono tutti, salvo andare in direzione opposta) e nella prospettiva di recuperare le dimensioni complesse della complessità educativa. La Rete, i social, la rivoluzione digitale, la “nuova” viralità della comunicazione (?), hanno innescato una trasformazione senza precedenti – di cui, dico sempre, sottovalutiamo le implicazioni epistemologiche (e non solo) e non siamo ancora in grado di valutarne tutte le potenzialità – ma, per ciò che concerne le Persone e la socialità, amplificano, estendono, potenziano e radicalizzano caratteristiche, dinamiche, “variabili”, perfino bisogni ed esigenze, già presenti nel sociale, nel relazionale, nell’umano.
Per fortuna, spesso, la generosità, la cooperazione e il riconoscimento arrivano da Persone (a tutti i livelli e in tutti gli ambiti), in molti casi, meno prossime e, almeno apparentemente, meno affini e, soprattutto, nei modi che meno conosci e ti aspetti. È la ricchezza del sociale, delle relazioni, della vita. Tanta forza, dinamicità ed energia. Le stesse che alimentano i sistemi complessi e le reti nel loro adattarsi mentre si auto-organizzano, nel loro riorganizzarsi mentre apprendono (ambiente/ecosistemi). Catene sistemiche tutte interconnesse ma, ancora una volta, imprevedibili nel loro evolversi.
In tal senso, le tecnologie della connessione possono senz’altro agevolare l’intensificazione e il rafforzamento di legami sociali e di interdipendenza. Ma i fattori e le variabili che ne sono alla base/alla radice, i fattori e le variabili che attivano, e alimentano, i meccanismi sociali della fiducia e della cooperazione, vanno ricercati nel sociale stesso, nei vissuti, nelle Persone (educazione, conoscenze e competenze) e nei mondi vitali (Dominici, 1996).
In questa stessa linea di discorso, vorrei dire qualcosa a proposito di una questione su cui ritorno spesso, che ha a che fare non soltanto con la correttezza delle Persone, ma anche, e soprattutto, con le questioni prima accennate e oggetto di questa riflessione: generosità e riconoscimento.
Nell’ambito delle mie possibilità e responsabilità, cerco, da sempre, di evidenziare e contrastare una pratica scorretta molto diffusa che, ogni tanto, sale agli onori delle cronache per alcuni casi clamorosi relativi ad alte cariche dello Stato, scrittori famosi o illustri accademici, salvo poi tornare nel dimenticatoio, essendo, in ogni caso, pratica fortemente diffusa e legittimata; una pratica – in realtà, una serie di pratiche – ormai messa in atto (in molti casi) con una grande abilità (?) e sofisticazione. Quella del “copia e incolla” che, con diverse modalità, può realizzarsi e concretizzarsi anche, e soprattutto, nell’auto-attribuirsi concetti, definizioni operative, teorie, studi, ricerche (risultati ed evidenze delle ricerche), anche quando riguardano intellettuali e studiose/i illustri (anche se si rischiano figuracce clamorose). Interi testi e lunghe argomentazioni che vengono riprese, parafrasando i testi originali e cambiando soltanto i concetti-chiave.
Su studiose/i poco “famose/i” si va giù in maniera ancora più pesante e scorretta: in fondo, “tanto nessuno li conosce” pensano i “nuovi Amanuensi” (così li ho definiti anni fa). Quelli che, non limitandosi ad attenzionare (diciamo così) studiose/i, ricercatori, esperte/i (per davvero) magari poco note/i al grande pubblico, poco famosi, poco visibili mediaticamente, on line con pochi “followers”, arrivano ad auto-attribuirsi perfino teorie, evidenze e studi anche dei grandi classici (di qualsiasi ambito disciplinare). Si usa qualche sinonimo, si modifica la forma delle frasi ma l’impianto – dalle ipotesi all’approccio ed ai ragionamenti sviluppati – rimane lo stesso, identico. Anche se, raramente, vengono usate le stesse identiche parole. Potrei scrivere pagine e pagine sugli accorgimenti utilizzati…per non parlare di tutti quelli che, spesso, la fanno franca (o pensano di…) semplicemente traducendo in un’altra lingua (soprattutto l’inglese, evidentemente) i testi plagiati o, comunque, amorevolmente “rivisti”. Nelle note o tra i riferimenti bibliografici – quando se ne fa uso perché, in molti casi, si vuole far credere che sia tutta “farina del proprio sacco” – basta non inserire gli articoli, i libri o gli studi che effettivamente sono stati importanti per realizzare – definiamola così – la “composizione”.
Ma, al di là della grave scorrettezza, vorrei ribadire che, dietro alle mancate citazioni e/o riferimenti in bibliografia, si nasconde (neanche troppo) una questione più profonda: “citare” significa anche, e soprattutto, riconoscere e legittimare il lavoro degli altri. E, secondo certe logiche, non è utile e conveniente. I nuovi Amanuensi, ancor di più quando si tratta di super esperti o studiosi con una grande “visibilità mediatica”, godono anche di un consenso di reti (non solo digitali) pronte a certificare l’originalità e la portata rivoluzionaria delle “proprie” teorie, idee e “visioni”. Anche perché – evidentemente – non tutti gli abitanti del Villaggio Globale (McLuhan) per lavoro/professione studiano, svolgono attività di ricerca o, comunque, hanno il tempo di verificare e approfondire.
Anche in questo caso, sono costretto a ripetermi, si tratta di “questione educativa e culturale”, di una cultura della furbizia e della propria auto-affermazione che sfocia nelle scorrettezze più diverse e, soprattutto, nel mancato riconoscimento/coinvolgimento dell’Altro e del suo lavoro/sacrificio.
Aggiungo: le citazioni sono importanti, oltre che per ragioni di correttezza, anche, e soprattutto, per sottolineare quanto il nostro lavoro (la nostra produzione intellettuale, gli studi e le ricerche) sia sempre il risultato del lavoro, dello studio, dell’impegno, di tante altre “Persone” (e gruppi) che, come NOI, studiano e fanno ricerca, aiutandoci ad essere creativi e originali, orientando le nostre ipotesi di lavoro, definendo le condizioni per progredire nel pensiero, nella conoscenza e nella ricerca. Siamo sempre sulle famose”spalle dei giganti”.
L’etica e la correttezza vanno praticate, e non soltanto dichiarate, a tutti i livelli! La questione culturale, come ribadisco da sempre, è “la” questione delle questioni. Fortunatamente, ci sono anche tante Persone che lavorano con rigore e correttezza e tante Persone generose che leggono, studiano, analizzano, approfondiscono, verificano – con un approccio critico e sistemico – senza farsi guidare dal bisogno di prossimità culturale, da bolle varie, dalle tradizionali logiche della polarizzazione, ma anche da etichette e cooptazioni di vario genere (politiche, corporative etc.): importante, da questo punto di vista, riuscire a “fare rete” rispetto a tali questioni. E, anche a questo livello di analisi, si intravedono le potenzialità degli ecosistemi digitali e della civiltà iperconnessa: ma, ancora una volta, i fattori e le variabili determinanti sono (e saranno sempre) quelle legate all’educazione, alla formazione, alla ricerca.
Una considerazione conclusiva: si parla/si scrive tanto/tantissimo di fakenews (parlo per me…non se ne può più), di disinformazione, di credibilità, di fiducia, di correttezza, di fact checking e chi più ne ha, più ne metta…Ma la correttezza e il fact checking vanno praticati, oltre che dichiarati, in ogni situazione. Anche non citare gli Autori e le Fonti è, non soltanto profondamente scorretto, ma è una forma di disinformazione e “diseducazione”; oltre a contribuire, in maniera pesante, a rendere proprio i mondi dell’informazione, della comunicazione e, più in generale, della produzione intellettuale e culturale, meno credibili e meno “capaci” di determinare pensiero critico, visioni sistemiche e alternative, innovazione e cambiamento. Al contrario, non da oggi, registro un numero crescente di Autori/studiosi/giornalisti/blogger che, pur parlando sempre di credibilità (non soltanto dell’informazione), di etica, correttezza, responsabilità, fact checking, notizie false e/o inesatte, non citano mai le Fonti e gli Autori da cui hanno ripreso e riprendono idee, ipotesi, tesi e argomentazioni.
Questione culturale ed educativa, questione di autenticità e di autenticità della comunicazione; di autenticità del nostro essere e comportarci…
E, se non si è onesti e corretti nelle ‘piccole’ cose, difficile che lo si possa essere nelle ‘grandi’ questioni…(1997).
Nell’ambito di percorsi complessi e delle “prospettive etiche per un nuovo ecosistema della comunicazione” (1996 e 2014), tra le numerose letture riportate in bibliografia, segnalo volentieri:
Gheno V., Social-linguistica. Italiano e italiani dei social network, Franco Cesati Ed., Firenze 2017.
Mastroianni B., La disputa felice. Dissentire senza litigare sui social network, sui media e in pubblico, Franco Cesati Ed. Firenze 2017.
Sloman S., Fernbach P. (2017), The Knowledge Illusion. Why We Never Think Alone, trad.it., L’illusione della conoscenza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018.
Tridente G., Mastroianni B., #Connessi. I media siamo noi, EDUSC, Roma 2017.
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Ri-condivido un “vecchio” contributo. Come sempre, senza “tempi di lettura”…
Un approccio e percorsi di ricerca dal’95
(L’errore di) Voler gestire la #SharingEconomy senza aver immaginato e compreso la #SharingSociety
di Piero Dominici
Il dominio della macchina ha cercato di negare l’esistenza di questa dimensione spirituale, mentre ciò che rende l’uomo veramente umano è la sua abilità a proiettare se stesso nel mondo attraverso la tecnica e le forme d’arte. Tentare di castrare gli attributi della soggettività equivale a ridurre l’uomo all’impotenza, a farne il trastullo di forze capricciose in un mondo assurdo, a renderlo, in altre parole, una creatura e non un creatore
Lewis Mumford
La società interconnessa è una società ipercomplessa, in cui il trattamento e l’elaborazione delle informazioni e della conoscenza sono ormai divenute le risorse principali; un tipo di società in cui alla crescita esponenziale delle opportunità di connessione e di trasmissione delle informazioni, che costituiscono dei fattori fondamentali di sviluppo economico e sociale, non corrisponde ancora un analogo aumento delle opportunità di comunicazione, da noi intesa come processo sociale di condivisione della conoscenza che implica pariteticità e reciprocità (inclusione). […] La tecnologia, i social networks e, più in generale, la rivoluzione digitale, pur avendo determinato un cambio di paradigma, creando le condizioni strutturali per l’interdipendenza (e l’efficienza) dei sistemi e delle organizzazioni e intensificando i flussi immateriali tra gli attori sociali, non sono tuttora in grado di garantire che le reti di interazione create generino relazioni, fino in fondo, comunicative, basate cioè su rapporti simmetrici e di reale condivisione. In altre parole, la Rete crea un nuovo ecosistema della comunicazione (1996) ma, pur ridefinendo lo spazio del sapere, non può garantire, in sé e per sé, orizzontalità o relazioni più simmetriche. La differenza, ancora una volta, è nelle persone e negli utilizzi che si fanno della tecnologia, al di là dei tanti interessi in gioco.
Piero Dominici
Economia e società della condivisione (Dominici, 1996) sono “oggetti” e fenomeni complessi che pongono alla nostra attenzione diverse questioni e diversi livelli di analisi che non possono essere banalizzati o, comunque, ridotti semplicemente alla natura economica e razionale (?) degli scambi e di certe dinamiche sociali: eppure, l’errore (e il rischio) è stato/è/sarà quello di continuare a pensare, gestire, provare a normare la cd. Sharing Economy senza pensare/immaginare/comprendere la Sharing Society e le potenzialità che la contraddistinguono e che – bene precisarlo – non riguardano soltanto la dimensione tecnologica e digitale. Un approccio e un’impostazione che, peraltro, fanno coincidere la Persona e il Cittadino – con i relativi diritti/doveri e le libertà/responsabilità – esclusivamente con la “figura” del Consumatore, con preoccupanti derive e possibili cortocircuiti per la cittadinanza, l’inclusione, la stessa democrazia (si pensi anche alle questioni cruciali della profilazione, della trasparenza e, più in generale, della sorveglianza) che, evidentemente, non gode di un buono stato di salute; un approccio e un’impostazione che, con poca consapevolezza, non considerano adeguatamente la rilevanza strategica della fiducia, meccanismo e “dispositivo” fondamentale per la stessa esistenza del legame sociale, oltre che vero “fattore” abilitante della sharing economy. Questioni di cui tutti parlano ma pochi ne hanno effettivamente compreso le implicazioni. A ciò si aggiunga che, come affermato più volte in passato, economia e società della condivisione ci costringono a ripensare anche la nostra idea di “contratto sociale”(2000 e sgg.), lo spazio dei saperi e delle competenze, il nostro stare insieme, lo spazio relazionale e comunicativo, le Comunità locali e globali che, d’altra parte, non è assolutamente scontato siano “aperte” e inclusive. Non bisogna dimenticare, in tal senso, come la cd. sharing economy richieda altresì Persone e Cittadini educati alla libertà ed alla responsabilità, capaci di rigenerare, almeno in parte, quei legami sociali indeboliti e, perché no, quello Stato sociale, letteralmente collassato sotto le macerie di una crisi finanziaria globale che, con grave ritardo, si è compreso non essere soltanto di tale natura. Anche da questo punto di vista, la molteplicità e la pluralità delle “nuove” forme di condivisione e cooperazione, ma anche di scambio economico (e penso, su tutte, all’economia del dono), sono difficilmente circoscrivibili e inquadrabili dalla norma giuridica, per quanto complessa e articolata: il vero problema è costruire una cultura della condivisone, della cooperazione e della collaborazione, tuttora quasi del tutto assente nonostante le narrazioni su cittadinanza e democrazia digitale e le grandi aspettative ingenerate dalla rivoluzione digitale, anche in termini di partecipazione. L’errore di fondo è – e continua ad essere – quello di volere gestire (=controllare) l’economia della condivisione (Sharing Economy) senza aver immaginato e compreso fino in fondo la società della condivisione (Sharing Society)
Come abbiamo avuto di sostenere anche in passato, la progressiva, oltre che pervasiva, diffusione delle tecnologie della connessione (cit.), ad alto tasso di innovazione tecnologica, sta riconfigurando architetture sociali e politiche, favorendo l’affermazione di un nuovo modo di produzione economica interamente basato, più che sul possesso, sulla capacità di elaborazione e di diffusione delle informazioni e delle conoscenze. La cosiddetta società/economia della conoscenza, sostituendo progressivamente le risorse materiali con quelle immateriali, determina e rende possibili nuove forme di scambio sociale e reciprocità (in particolare, scambio e condivisione di conoscenze, competenze e tempo) le cui potenzialità e implicazioni sono ancora difficilmente immaginabili, definibili, prevedibili; una società della conoscenza che, guidata nei suoi percorsi evolutivi dalla rivoluzione digitale, porta con sé anche nuove asimmetrie sociali (per questo ho proposto la definizione di “Società Asimmetrica”) che la Politica, sempre più ridimensionata a livello della prassi dall’economia e dalla finanza, non sembra assolutamente in grado di affrontare e gestire.
L’economia globale della conoscenza continua a mantenere al suo interno due spinte (Dominici 1998, 2003, 2005) che si affrontano dialetticamente in campo aperto senza lasciare intravedere la possibilità di una sintesi: da una parte l’interdipendenza (e interconnessione) economica e tecnologica, dall’altra, la frammentazione sociale, politica e culturale. Alla base di queste dinamiche vi è, in ogni caso, la ben nota consapevolezza della crisi del pensiero – ma anche dei saperi e dei sistemi interpretativi prodotti – non più in grado di fornire modelli di problemi e soluzioni accettabili (Kuhn). Dentro la Società Interconnessa, le dimensioni globali della comunicazione e della produzione sociale di conoscenza hanno assunto una rilevanza senza precedenti, che vincola la Politica ad individuare ed elaborare strategie adeguate per ridurre tale ipercomplessità. È in gioco l’inclusione degli attori sociali e, in particolar modo, di coloro che vivono ai margini del nuovo ecosistema: un’inclusione che non sarebbe tale qualora si rivelasse – come sta accadendo – un’inclusione per pochi e non servisse anche a contrastare quella percezione diffusa di isolamento, di indebolimento del legame sociale e, nello specifico, dei meccanismi sociali della fiducia e della cooperazione. Sembrano profilarsi nuove opportunità di democratizzazione della conoscenza e dei processi culturali in grado di scardinare, definitivamente, il vecchio modello industriale costituito da assetti consolidati, gerarchie, logiche di controllo e di chiusura al cambiamento. Anche se – ne dobbiamo essere consapevoli – per queste nuove opportunità c’è anche un prezzo da pagare, soprattutto in termini di privacy e diritti.
La conoscenza, risorsa immateriale strategica per il mutamento in corso, è appunto “risorsa” costantemente riproducibile, trasferibile e riutilizzabile e ciò determina profondi cambiamenti nei modelli produttivi e distributivi, che vanno di pari passo con un aumento esponenziale della complessità sistemica e organizzativa (con nuovi bisogni comunicativi). Una risorsa che comincia anche ad essere sempre più vista e percepita come bene comune in grado (potenzialmente) di ristabilire rapporti sociali e di potere meno squilibrati e asimmetrici. Nonostante le numerose criticità, non possiamo non rilevare come le reti del nuovo ecosistema agevolino e abilitino, in ogni caso, la collaborazione e la cooperazione ma – come ripeto spesso – è (e sarà) sempre il fattore umano, sociale e relazionale (dovremmo allargare il discorso a scuola e università) a fare la differenza, dentro e fuori le organizzazioni, dentro e fuori i sistemi sociali.
La tecnica e la tecnologia, prodotti complessi dei contesti storico-culturali e delle culture (e non, come molti continuano a sostenere, “oggetti” non appartenenti, quasi esterni, alla/e cultura/e stessa/e) continuano ad imprimere costantemente accelerazioni repentine a organizzazioni e sistemi sociali, con profonde implicazioni per le identità, le Soggettività e gli ecosistemi relazionali e comunicativi; implicazioni e dinamiche sistemiche che ci costringono – come ribadito più volte in passato (1998 e sgg.) – a ripensare, non soltanto modelli, strategie, politiche, ma anche, e soprattutto, categorie e relative definizioni, non ultime quella di “reale, “virtuale”, “Persona”, “relazione”, “vita”, “identità”, “umano”, “naturale”, “artificiale”, “etica” etc. Conseguentemente, diventa «Di fondamentale importanza, in tal senso, ridefinire lo spazio del sapere (dei saperi) e ripensare lo “spazio relazionale” (1996 e sgg.), all’interno del quale si costruiscono le identità – che non sono mai date una volta per tutte…in costante divenire – e le soggettività: “costruzione” che avviene attraverso il dialogo, la conversazione, la reciprocità, l’empatia, la comunicazione = processo sociale (complesso) di condivisone della conoscenza (potere). Siamo sempre un “NOI” e non un “IO” (identità < > riconoscimento), anche se non ne siamo consapevoli. Esistiamo, sempre e comunque, all’interno di un sistema di reti di conversazione e comunicazione. Perché conoscere/sapere è vivere e viceversa e tali dinamiche nascono e si evolvono, sempre e soltanto, attraverso gli ALTRI, in chiave sistemica, oltre che relazionale. Livello “micro” (quello delle relazioni e dell’interazione sociale) e livello “macro” (quello delle organizzazioni, dei sistemi, degli Stati-nazione etc.), non soltanto non sono separati, ma si influenzano reciprocamente e sono in costante connessione e relazione…un duplice livello di analisi che, come ripetuto tante volte negli anni, richiede approccio alla complessità e una prospettiva sistemica (superamento del principio di causalità, di qualsiasi forma di determinismo mono-causale e riduzionismo; tante le concause e molteplici le variabili da considerarsi; sistemi e organizzazioni evolvono e si differenziano non in maniera lineare etc.). La sfida della e alla complessità ci chiede di ripensare educazione e istruzione, in maniera profonda, radicale. Significa ripensare gli stessi concetti di “libertà”, di “comunità” e, conseguentemente, di “democrazia” e, per arrivare alla stretta attualità, ripensare la nostra idea di Paese, di Europa, di Umanità (parlavo dell’urgenza di un “nuovo umanesimo”, esattamente, vent’anni fa…). Può sembrare la più classica delle lotte contro i mulini a vento…non è così e va portata avanti!”.
Un cambiamento di paradigmi di tale portata da richiedere, non soltanto approccio alla complessità e multidisciplinarità, ma anche una nuova sensibilità etica ed una (profonda) consapevolezza che trova un significativo riferimento anche nel “principio di precauzione”. Un cambiamento di paradigmi che investe qualsiasi sfera della prassi sociale e organizzativa: dall’economia al potere, dall’educazione alla Politica, dalla fruizione estetica alle forme di mediazione simbolica e culturale etc. Siamo di fronte a rischi e opportunità straordinarie o, per meglio dire, a rischi che possono tramutarsi in opportunità tra le quali anche quelle legate alla realizzazione di ambienti sempre più in grado di modificare percezioni e rappresentazioni del reale, oltre che dell’ALTRO DA NOI.
Distanza e asimmetrie…fiducia e insicurezza – Interdipendenza vs. frammentazione (2003)
Scrivevamo qualche tempo fa: “La comunicazione, come noto, fin dalle origini delle società pre-complesse, ha alimentato incessantemente il sistema delle relazioni sociali, rappresentando il tessuto connettivo dei sistemi sociali (Dominici). Ma, tale presupposto non ci impedisce di osservare come la Rete e i media sociali stiano determinando un salto di qualità senza precedenti rispetto alle epoche passate, proprio con riferimento all’azione sociale ed alla prassi comunicativa. Allo stesso modo, si stanno susseguendo molto più rapidamente le modifiche dei meccanismi sociali correlati alla fiducia ed alla cooperazione (Coleman, 1990), a loro volta incrementate dalle reti di protezione e promozione sociale – concetto di capitale sociale (Putnam, 2000); si intensificano i legami di interdipendenza e di interconnessione che innervano il sistema-mondo, con tutte le implicazioni del caso. Ma la questione fondamentale risiede nel fatto che la società della conoscenza presenta tutte le sembianze di una società globale del rischio che ha esteso, al di là di ogni confine o limite, le dinamiche conflittuali, i rischi, le emergenze (reali e potenziali) e le anomalie sistemiche, che aumentano proprio con il progressivo differenziarsi dei sistemi complessi. Tale dimensione intercetta quella, altrettanto cruciale, della fiducia che continua a rivelarsi meccanismo sociale fondamentale in grado di ridurre la complessità (Luhmann, 1968) e di rendere sostenibile l’accettazione del rischio”. Fiducia che mantiene, da sempre, uno stretto legame con il problema del sapere e della conoscenza. I moderni sistemi sociali, spesso orfani di un modello culturale forte, sono caratterizzati ormai da instabilità e da un alto coefficiente di imprevedibilità delle azioni e dei processi; fatto, questo, che rende ancora più strategica, oltre che urgente, la scelta dell’opzione (a mio avviso, la strada obbligata) “condivisione della conoscenza”. Anche se, inutile nascondercelo, dietro le retoriche e le narrazioni (o lo storytelling) della sharing economy (o economia della condivisione) e della rivoluzione digitale si nascondono interessi, logiche di profitto (altro che #BeneComune #BeniComuni) e modelli di business che “vedono” nei nostri diritti e nella nostra privacy (on line e off line) degli ostacoli concreti al loro sviluppo. In tal senso – a mio avviso, e lo sostengo non da oggi – assolutamente fuorviante legare certi aggettivi (o concetti) a parole come tecnica, tecnologia, tecnologie: in particolar modo, con riferimento alle questioni riguardanti l’educazione, la cittadinanza, l’inclusione, la democrazia etc., la differenza è e sarà sempre legata al fattore umano (conoscenze, competenze, spazio relazionale, contesto educativo e formativo etc.) ed alla natura dei rapporti di potere (gestione, elaborazione e distribuzione delle informazioni e della conoscenza) basati, a loro volta, su regole d’ingaggio che, da sempre, si “costruiscono” all’interno delle istituzioni educative e formative (si veda, in particolare, il concetto che ho proposto di Società Asimmetrica).
Una chiave di lettura e un approccio che abbiamo proposto alla metà degli anni Novanta e che, per fortuna, trovano oggi non poche “voci” fuori dal coro seppur largamente minoritarie: su tutte ricordo l’analisi di Evgeny Morozov[1], peraltro molto vicina alla critica che la Scuola di Francoforte rivolgeva alla società di massa e ai modelli culturali che la contraddistinguevano.
Come abbiamo avuto modo di argomentare già in passato, la crescita esponenziale del potere finanziario ha avuto conseguenze estremamente negative per l’economia-mondo e, soprattutto, per la vita delle persone; il processo di formazione di uno spazio virtuale, ove far scorrere ad altissima velocità i flussi economici ed informativi, non ha fatto altro che privare la Politica e i sistemi di potere del controllo sul proprio corpo, separandoli ulteriormente dalla società civile e dai singoli attori sociali. E credere che la tecnologia (in particolare, le reti) possa risolvere qualsiasi problema, compreso il riavvicinamento tra Politica e cittadini, potrebbe rivelarsi l’ennesimo errore fatale. Dal momento che la prassi politica e sociale, pur trovando nuove arene virtuali di costruzione e organizzazione del consenso e/o delle opinioni, richiede il passaggio cruciale dall’elaborazione teorica all’azione pratica, concreta, che deve incidere sul decisore politico. E per far questo occorrono attori sociali informati e criticamente formati in carne e ossa, destinatari attivi e consapevoli dentro le loro reti di cooperazione sociale. Non semplici “cittadini connessi” (Dominici 1998, 2003,2005) messi in condizione di non poter tradurre operativamente istanze e progetti di una cittadinanza attiva, partecipata e non eterodiretta. Mi riferisco, in tal senso, anche al concetto che proposi anni fa di sfera pubblica (ormai) “ancella del sistema di potere”.
La trasformazione del modo di produzione economica e del mercato del lavoro, la radicalizzazione della divisione sociale del lavoro, la nascita di nuove disparità anche in termini di opportunità di partenza, di nuove forme di sfruttamento e, quindi, di nuove conflittualità; l’indebolimento delle funzioni delle tradizionali forme di partecipazione politica, (almeno per ora) illusoriamente sostituite dalle utopie della democrazia on line, hanno fatto il resto rendendo profondamente incerta l’esistenza degli individui ai quali si chiede flessibilità (precarietà) in ogni aspetto della loro vita senza offrire in cambio alcuna garanzia (Sennett, 1998; Gallino, 2001). La società degli individui, emancipatasi dai vincoli della tradizione e, in un certo senso, in balìa della crescita del potenziale della razionalità rivolta allo scopo, deve fronteggiare la crescita esponenziale delle forze produttive che rende il processo di modernizzazione riflessivo, cioè tema e problema di sé stesso.
La Rete delle reti (e le culture digitali) sta già intaccando assetti e gerarchie della società industriale e si presenta come un’estensione del sistema relazionale (Dominici, 1996), uno spazio pubblico illimitato (Dominici) aperto alle intelligenze collettive (P.Lévy) e a quelle connettive (De Kerckhove), alla cooperazione e all’intelligenza collaborativa (M.Minghetti), ma che potrebbe anche minare ulteriormente i meccanismi sociali della fiducia e della cooperazione. Questioni e problematiche complesse che, come ribadito più e più volte anche in passato, ci obbligano a ripensare i concetti stessi di cittadinanza (non soltanto digitale) e di democrazia, ridefinendo allo stesso tempo i confini e le condizioni di un nuovo “contratto sociale” (Dominici 2003,2008 e 2015).
Tuttavia, senza politiche di lungo periodo centrate su scuola, educazione, istruzione, ricerca, la cd. società della conoscenza continuerà ad essere chiusa ed esclusiva, all’interno di un sistema-mondo sempre più segnato da nuove e profonde disuguaglianze – oltre che asimmetrie informative e conoscitive – la cui complessità, peraltro, richiede da tempo la definizione di nuovi indicatori (A.Sen).
Da questo punto di vista, non dobbiamo mai smettere di interrogarci se dietro la società e l’economia interconnessa, che sembrano comunque in grado di garantire maggiori opportunità di un’eguaglianza delle condizioni di partenza per tutti gli attori sociali, non si nasconda in realtà anche il rischio di un ulteriore indebolimento del tessuto connettivo dei sistemi sociali e di una passività generalizzata da parte di individui (persone/attori sociali) convinti che la rivoluzione digitale sia, comunque e sempre, un’opportunità in sé; convinti che il virtuale (in ogni caso, stato altro dell’essere) sostituisca il reale, al di là di una sua effettiva traduzione operativa capace di produrre cambiamento e decisioni politiche. Il pericolo è anche, e soprattutto, quello di un’omologazione culturale, vero e proprio terreno fertile per una civiltà del controllo sociale totale e della sorveglianza in grado di ridurre i margini di libertà del cittadino/consumatore. Pertanto, pur essendo indubbio che la Società Interconnessa (2014) rappresenti concretamente una straordinaria possibilità di emancipazione e liberazione delle forze e delle energie del tessuto sociale e globale, gli Stati-nazione devono essere attenti affinché la Grande Rete, oltre ad accrescere concretamente le possibilità comunicative e conoscitive, contribuisca anche a creare un tipo di umanità culturalmente più evoluta ed aperta, in grado di contrastare quella che alcuni vedono come la fine del sociale e la crisi dei meccanismi sociali di fiducia e reciprocità (Touraine, 2004).
La Società Ipercomplessa: civiltà ipertecnologica/iperconnessa e Nuovo Umanesimo (1996)
La globalizzazione, già a partire dagli anni Novanta, trova nel capitalismo finanziario, prima ancora che culturale e della conoscenza, il suo “motore” trainante e trova Stati-Nazione deboli ed una Politica particolarmente marginale, che tenta di governare processi così complessi e transnazionali servendosi di regole inadeguate perché definite quando gli Stati-Nazione erano forti e autorevoli anche nella negoziazione con i poteri economici. Attualmente, la Politica riconosce come interlocutori (?) i poteri economici ed le grandi corporations, attribuendo loro il ruolo e la possibilità di negoziare regole e norme che governano (dovrebbero governare) il mercato, già a livello della loro definizione e scrittura.
La globalizzazione, questa globalizzazione contro cui si sono levate non poche voci critiche[2], con le sue grandi opportunità ma anche con le drammatiche disuguaglianze/asimmetrie – economiche e culturali – che ha finora comportato (la definizione che ho proposto è quella di “società asimmetrica”**), ripropone la necessità, per certi versi rivoluzionaria, di ripensare il paradigma anche, e soprattutto, nella prospettiva di un nuovo modello di sviluppo, oltre che nella ricerca di un “nuovo umanesimo”. Si tratterebbe, evidentemente, del ritorno estremamente importante di un’idea – di un “progetto” – globale e complessiva riguardante la teoria e la prassi che la modernità radicale ha messo in crisi. Una crisi che trae ulteriore forza proprio dall’ambivalenza e dall’imprevedibilità che caratterizzano da sempre i processi sociali e culturali, i sistemi e la vita sociale. Tuttavia, come abbiamo ribadito in più occasioni, occorre un Nuovo Umanesimo che sappia andare oltre le “vecchie” visioni antropocentriche che la civiltà ipertecnologica del rischio ha reso deboli e, per certi versi, inadeguate.
Siamo di fronte ad una crisi, evidentemente non soltanto economica, le cui caratteristiche sono state lucidamente messe in evidenza dalle parole di uno dei più importanti filosofi del XX secolo: Emmanuel Lévinas. Il pensatore ebreo, di origini lituane e di lingua francese, nel suo Umanesimo dell’altro uomo, con le sue parole squarcia il velo posto sul Novecento – forse il secolo, allo stesso tempo, più rivoluzionario e contraddittorio della storia – configuratosi fin dall’inizio come il secolo dell’homo faber, delle sue utopie e delle sue certezze illimitate (spesso causa di conflitti e tragedie), della ragione, della scienza e della tecnica. Un’epoca storica che continua a segnare la contemporaneità, anche nei suoi tratti più ambigui, e che, in un certo senso, ha rimosso – non riconoscendole alcuna legittimità – la prospettiva dell’umanesimo[3]: «La crisi dell’umanesimo nella nostra epoca nasce, forse, dall’esperienza dell’inefficienza umana che la stessa abbondanza dei mezzi per agire e la vastità delle nostre ambizioni non fanno che mettere in risalto. Nel mondo in cui le cose sono tutte in ordine, in cui gli occhi, la mano e il piede sanno come trovarle, in cui la scienza prolunga la topografia della percezione e della prassi, anche se ne trasfigura il senso, nei luoghi in cui trovano posto città e campagne che gli umani abitano pur disponendosi, per diversi gruppi, in mezzo agli enti, in tutta questa realtà “alla diritta” il controsenso delle grandi imprese mancate – in cui politica e tecnica riescono giusto alla negazione dei progetti che le ispirano – rivela l’inconsistenza dell’uomo, zimbello delle sue opere. I morti insepolti nelle guerre e nei campi di sterminio avvalorano l’idea di una morte senza avvenire, rendono tragicomica la cura di sé e illusoria la pretesa dell’animal rationale in un posto privilegiato nel cosmo, la sua capacità di dominare e di integrare nell’autocoscienza la totalità dell’essere. Ma l’autocoscienza stessa si disintegra […] E quindi, il mondo fondato sul cogito appare umano, troppo umano – al punto da far cercare la verità nell’essere, in una oggettività, in un certo senso, superlativa, pura di ogni ombra di “ideologia”, senza più tracce umane»[4].
L’analisi, per certi versi spietata, di Lévinas – ancora oggi – deve far riflettere e ci costringe, inevitabilmente, a fare i conti con quell’urgenza di “ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico”(cit.), su cui siamo tornati più volte anche di recente: un’urgenza che comporta il riconoscere nella responsabilità l’elemento connotativo essenziale delle Soggettività.
La cosiddetta società dell’informazione e della conoscenza, originatasi proprio dall’evoluzione dei meccanismi della società industriale e della prima modernità, si configura essenzialmente come una società del rischio globale, poco inclusiva e segnata da asimmetrie ogni giorno più nette; una società del rischio (Beck) globale all’interno della quale i sentimenti (percezioni) di incertezza, vulnerabilità e spaesamento non possono che progressivamente rafforzarsi, pur aumentando in maniera esponenziale le opportunità di connessione e accesso (digital divide e cultural divide permettendo): un sistema-mondo che, tanto per cambiare, mantiene al suo interno tutti gli elementi ambivalenti, contraddittori e conflittuali che ne possono determinare, allo stesso tempo, l’evoluzione verso forme migliori o la definitiva implosione/esplosione. Dialettiche che non si chiudono e non trovano una sintesi. Un sistema-mondo in cui il possesso, la gestione e la diffusione delle informazioni e delle conoscenze risultano – e risulteranno – sempre più decisivi nella soluzione di problematiche complesse (globali e locali), ormai, transnazionali.
La Grande Rete (Internet) può risultare davvero di fondamentale importanza per tentare di diffondere conoscenze e competenze di tutti i tipi (da quelle medico-sanitarie, passando per quelle più propriamente tecniche e tecnologiche, per arrivare a quelle culturali ed etiche[5]), a patto che ci sia dietro un progetto “forte” internazionale che coinvolga i vecchi stati-nazione, in modo da determinare anche una globalizzazione dell’etica e delle libertà.[6] Tuttavia, allo stato attuale delle cose, non possiamo non prendere atto anche del progressivo ridimensionamento della sfera dei diritti e delle libertà, mai conquistate una volta per tutte (libertà e democrazia, dialettica aperta); un progressivo ridimensionamento, sul quale occorre prestare molta attenzione – non soltanto a livello giuridico – legato proprio alle stesse opportunità (per ora, esclusive) della cittadinanza digitale e dell’e-democracy (dati – accesso – identità – profilazione).
Il processo di globalizzazione, altrimenti, è destinato ad evolversi definitivamente verso un’economia globale dell’immateriale ed un’innovazione esclusiva per pochi che anziché ridurre le profonde disuguaglianze, migliorando le condizioni materiali di vita e, soprattutto, accrescendo le libertà e i diritti degli individui, accentuerà tutti questi divari/scarti (è il caso di dire “strutturali” e “sovrastrutturali”) in maniera irrecuperabile, perché sempre più legati in primis ad una risorsa unica nel suo genere: la conoscenza (=potere).
Le difficoltà di una governance del nuovo ecosistema (e non solo di internet) sono molteplici e legate, non soltanto alla debolezza della Politica, ma anche al fatto che le reti, che innervano la società ipercomplessa e interconnessa, sono strutture aperte in grado di espandersi all’infinito, integrando una molteplicità di nodi potenzialmente senza limiti: il problema è quello delle logiche e degli utilizzi che élite, gruppi di potere, lobby, moltitudini etc. fanno delle reti sociali e dei media digitali. Le logiche dominanti sono, tuttora, quelle del controllo, della sorveglianza, della chiusura sistemica anche perché le fasi di evoluzione dei sistemi sociali, segnate da accelerazioni improvvise e straordinarie innovazioni tecnologiche, determinano sempre una crisi che è, in primo luogo, una crisi di controllo (e gestione) dei processi.
Vorrei tuttavia chiarire un equivoco, piuttosto diffuso nei discorsi e nelle narrazioni sull’innovazione: la tecnologia (e i suoi “prodotti”) non è qualcosa di “esterno” alla cultura e ai processi socioculturali, al contrario essa è dentro la cultura, ne è parte costitutiva e fondamentale, oltre a costituirne un “prodotto” complesso: dico questo perché, sempre più spesso, mi capita di leggere argomentazioni del tipo “la cultura è costretta a rincorrere la tecnologia”. Ritengo si tratti dell’ennesima dicotomia fuorviante, che va superata al fine di un’analisi critica e globale delle dinamiche in atto.
È indiscutibile come la società interconnessa abbia definito un nuovo assetto delle stesse comunicazioni di massa, contribuendo, in ogni caso, ad una riconfigurazione dei rapporti di potere. L’età dell’informazionalismo – e qui riaffermiamo la nostra prospettiva – ha segnato l’inizio di un complesso processo di civilizzazione fondato su Internet e i social-media che presenta specifiche regole di inclusione e cittadinanza, che vanno ad aggiungersi ad un sistema di regole e normative concepite, definite e applicate in un contesto di Stato-Nazione forte. Siamo di fronte ad una sintesi culturale complessa tra dimensione tecnologica e prassi sociale, tra l’umano e il tecnologico che, almeno per ora, decolla soltanto negli slogan e nelle campagne di marketing.
Torna la questione della relazione strettissima esistente tra comunicazione, come accesso e condivisione, inclusione e cittadinanza. Adottando questo punto di vista, la cittadinanza digitale non è qualcosa di diverso rispetto all’idea originaria di cittadinanza consolidatasi intorno a quel patrimonio di diritti fondamentali della Persona. Ne emerge un’idea complessa e dinamica di cittadinanza che non è mai “data” una volta per tutte e non può essere definita/imposta/calata dall’alto – così come accade per modelli e pratiche di partecipazione – perché, come vado dicendo da molti anni, va costruita socialmente e culturalmente nei processi educativi e, più in generale, nei luoghi dell’educazione e della formazione.
Epilogo
La condivisione delle risorse conoscitive e delle competenze, unita ad adeguate (e complesse) politiche di scolarizzazione e formazione a più livelli (ci sono sempre le “eccezioni”, ma la situazione non è rosea anche per ciò che riguarda la qualità dei nostri laureati), rappresenta a nostro avviso “la” strada che non è più possibile non percorrere: la tecnica e le tecnologie (con il linguaggio, la cultura, la specializzazione dei saperi etc.) ci hanno messo in condizione di trasformare la realtà, e non soltanto di adattarci ad essa. Ma da sole non sono sufficienti. Servono cultura, conoscenza (e comunicazione, tra i saperi e tra le competenze), ricerca e formazione (continua!), non soltanto per (provare a) governare i processi e le dinamiche della società della conoscenza e dell’economia della condivisone (sharing economy); per curare le malattie, irrigare i campi, costruire le infrastrutture, ma anche per poter parlare di diritti e di libertà con i soggetti più deboli, permettendo loro di esserne consapevoli, di pensare con la propria testa, di essere cioè cittadini e non “sudditi”. In altre parole: servono cultura, conoscenza (e comunicazione, tra i saperi e tra le competenze), ricerca e formazione (continua!) sia per definire e realizzare le condizioni abilitanti della “vera” innovazione, quella sociale e culturale, che per mettere in condizione le Persone di essere Cittadini e non semplici consumatori (anche di cultura). Educazione, cultura e “sapere condiviso” (2003) che sono decisivi anche per contrastare i germi di una società globale fortemente individualista e, soprattutto, indifferente verso l’Altro, verso l’ambiente, verso le Comunità: a questo livello, si pone anche la questione cruciale della sostenibilità. Educazione, istruzione, ricerca e formazione (l’ho dato per scontato ma meglio dichiararlo…servono investimenti importanti!) sono necessarie per esistere dentro il nuovo ecosistema (Dominici, 1998).
Cittadinanza e partecipazione
Chiudo recuperando le parole di un precedente contributo.
Diciamocelo chiaramente: per ora, siamo fermi all’illusione di una relazione meno asimmetrica con il potere, la politica e le istituzioni; per ora, siamo fermi ad un’immagine ideale, e idealizzata, del Cittadino e del Consumatore per i quali pensiamo e realizziamo strutture, servizi, modelli e pratiche partecipative che, al di là delle narrazioni, risultano sempre “calati dall’alto”; per ora, siamo fermi alla convinzione che il (continuo) ricorso alle leggi e alla tecnologia siano le uniche soluzioni ai problemi organizzativi, sociali e culturali di un Paese (stesso discorso si potrebbe fare per altri Stati-nazione) che – come più volte ripetuto – vive una crisi soprattutto culturale e di civiltà. Un Paese sempre più alla ricerca anche, e soprattutto, di un’identità, oltre che di un rilancio economico, magari con un ruolo da protagonista (?), nell’economia digitale e dell’immateriale. Un Paese che, al contrario, sembra trovarsi in una condizione di costante navigazione a vista, all’interno della quale ci stiamo forse accorgendo anche di tante false e fuorvianti narrazioni – e relativo storytelling – sul digitale, sull’inclusione, sulle riforme a costo zero (vecchissimo tema) e su un’innovazione inclusiva (Dominici 2000 e sgg.), raccontata come un’opportunità per tutti e a portata di mano: per ora, invece, siamo di fronte ad un’innovazione fondata sul principio di esclusività. Con le seguenti aggravanti: 1) la poca consapevolezza che non può /non potrà esserci alcuna “cittadinanza digitale” senza garantire le condizioni e i prerequisiti della cittadinanza (rinvio ad altri contributi, anche datati, sui temi dell’educazione, dell’istruzione, della costruzione sociale della Persona e del Cittadino); 2) allo stesso modo, la poca consapevolezza che non ci può/non ci potrà essere alcuna (vera!) partecipazione senza Cittadini consapevoli e criticamente formati; 3) il grave ritardo nella cultura della comunicazione (comunicazione è organizzazione) di questo Paese che continua a fare confusione, a livello organizzativo e sistemico, tra comunicazione e mezzi di comunicazione, tra comunicazione e connessione, tra comunicazione e marketing, tra comunicazione e informazione, tra informazione e conoscenza, tra tecnologia e metodologia, tra informatica e digitale etc. Con tutte le conseguenze del caso. Non ultime, quelle di Persone, Cittadini, consumatori, elettori che, contrariamente allo storytelling egemone, sono ben “lontani dal centro” dei servizi, dei processi, delle strategie, delle politiche (?) adottate.
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N.B. Condividete e riutilizzate pure i contenuti pubblicati ma, cortesemente, citate sempre gli Autori e le Fonti anche quando si usano categorie concettuali e relative definizioni operative. Condividiamo la conoscenza e le informazioni, ma proviamo ad interrompere il circuito non virtuoso e scorretto del “copia e incolla”, alimentato da coloro che sanno soltanto “usare” il lavoro altrui.
Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle scorrettezze ricevute. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da tanti anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede. Buona lettura!
[1] Cfr. E.Morozov, Silicon Valley: i signori del silicio, Codice Edizioni, Torino 2016; suggerisco anche la lettura di Ippolita, La Rete è libera e democratica, Laterza, Roma-Bari 2014.
[2] Non sono poche le “voci critiche” levatesi nei confronti del processo di globalizzazione, accusato con vari capi d’imputazione: di aver creato un mercato mondiale senza regole (disordine globale) che tende a schiacciare i soggetti meno forti, di aver determinato la dissoluzione dell’idea stessa di “civitas”; di aver messo in crisi gli ideali della comunità, dell’identità e dell’appartenenza; di essere essenzialmente troppo schiacciato sulle posizioni ultraliberiste e di affidarsi solo al principio della “mano invisibile” del mercato (principio, come noto, proposto da Adam Smith in A.Smith (1776), An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, trad.it., La ricchezza delle nazioni, UTET, Torino 1975); di portare omogeneizzazione culturale annullando qualsiasi differenza culturale; di creare nuove forme di disuguaglianza e di schiavitù; di aver ridotto il mondo in “frammenti” (Geertz). Mi limito qui a ricordare alcune di queste “voci critiche” tra le più recenti: W.Bello (2001), The Future in the Balance, trad.it., Il futuro incerto. Globalizzazione e nuova resistenza, Baldini & Castoldi, Milano 2002; A.Baldassarre (2002), Globalizzazione contro democrazia, Laterza, Roma-Bari 2002; A.Pollio Salimbeni (1999), Il grande mercato. Realtà e miti della globalizzazione, Bruno Mondadori, Milano 1999; N.Chomsky (1999), Profit Over People, trad.it., Sulla nostra pelle. Mercato globale o movimento globale ?, Marco Tropea, Milano 1999; W.K.Tabb (2001), The Amoral Elephant, trad.it., L’elefante amorale. La lotta per la giustizia sociale nell’era della globalizzazione, Baldini & Castoldi, Milano 2002; K.Ohmae (2000),op.cit.; S.Sassen (1998), Globalization and its Discontents, trad.it., Globalizzati e scontenti. Il destino delle minoranze nel nuovo ordine mondiale, Il Saggiatore, Milano 2002.
[3] Cfr.M.Heidegger (1976), Brief über den «Humanismus», trad.it., Lettera sull’ «Umanismo», Adelphi, Milano 1995.
[4] Cfr.E.Lévinas (1972), Humanisme de l’autre homme, trad.it., Umanesimo dell’altro uomo, Il melangolo, Genova 1985, p.103-104. Dello stesso autore, si veda sui medesimi temi – e, in particolare, su quelli della soggettività e dell’etica – si veda l’opera più importante: E.Lévinas (1961), Totalité et infini. Essay sur l’extériorité, trad.it., Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaka Book, Milano 1977.
[5] Mi riferisco, in particolare, alle questioni essenziali del riconoscimento universale dei diritti umani e dello sviluppo della democrazia politica e cognitiva.
[6] Su questi argomenti cfr. A.Sen, Globalizzazione e libertà, Mondadori, Milano 2002; in quest’opera Amartya Sen, economista indiano premio Nobel per l’economia (1998), analizza il problema delle disuguaglianze economiche, politiche e sociali, ponendo al centro della sua riflessione la questione fondamentale della necessità di un’etica per il sistema-mondo (società globale). Un’etica che deve promuovere in primo luogo la giustizia, le libertà (di pensiero, di stampa, di impresa etc.) e l’universalismo dei diritti umani. La globalizzazione non rappresenta, secondo Sen, un “fatto nuovo”(recente) e, soprattutto, non può essere ridotta a occidentalizzazione: è un processo che dura ormai da migliaia di anni e che, nonostante abbia generato un sistema globale di tremende privazioni, comunque “ha contribuito al progresso del mondo attraverso i viaggi, il commercio, le migrazioni, la diffusione delle culture, la disseminazione del sapere (inclusi quello scientifico e tecnologico) e della conoscenza reciproca”(p.4). Il sistema capitalistico mondiale, schiacciato su posizioni neoliberiste, ha portato con sé – come si diceva – anche nuove forme di emarginazione e disuguaglianza; ma si tratta di un processo irreversibile, a cui è inutile tentare di opporsi, che, anche se in minima parte, ha avuto comunque delle ripercussioni positive su alcune aree del sistema-mondo. Sen, in tal senso, riconoscendo l’importanza di alcuni aspetti positivi come l’avvento della “società aperta”, il progresso scientifico e tecnologico e, in fondo, la stessa liberalizzazione dei mercati, auspica che questi stessi fattori possano determinare una deriva virtuosa del processo di globalizzazione, che coinvolga i paesi più deboli, offrendogli concrete possibilità di emancipazione e di sviluppo. Alla base di tutta l’opera di Sen, c’è l’assoluta convinzione che le libertà reali degli individui debbano essere accresciute per metterli in condizione di realizzarsi pienamente, di agire e pensare liberamente. Tutte le strategie politiche, economiche e sociali che si vorranno mettere in atto devono essere finalizzate all’eliminazione delle forme di “illibertà” che ancora sopravvivono soprattutto nei paesi più poveri. E nel tentare di far questo, occorre essere consapevoli che il problema non è solo di natura economica. In altri termini, non sono più sufficienti i semplici aiuti economici e/o alimentari: uno sviluppo concreto potrà essere garantito soltanto dal contemporaneo avanzamento di altri processi politici e culturali, come il riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo, la diffusione della democrazia, l’alfabetizzazione e la formazione degli individui.
Allego e segnalo alcuni articoli e contributi:
- Tra conoscenza e controllo sociale (spunti per una lettura critica)
- “Per un’innovazione inclusiva**: ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico”
- “Innovare significa destabilizzare”. Perché la (iper) complessità non è un’opzione
- “Il grande equivoco. Ripensare l’educazione (#digitale) per la Società Ipercomplessa”
- “La società asimmetrica* e la centralità della “questione culturale”: le resistenze al cambiamento e le “leve” per innescarlo”
- “L’ipercomplessità e una crisi non soltanto economica. Ripensare il sapere e lo spazio relazionale”
- “La condizione del sapere nella società della conoscenza: tra condivisione e riproducibilità “tecnica”(?)”
- La comunicazione ridotta a marketing #PianoInclinato
- La Società interconnessa e il ritardo nella cultura della comunicazione
- Competenze e saperi per la Società Interconnessa: le due culture e la complessità
- La cultura motore del cambiamento, ma anche agente di democratizzazione e cittadinanza
Tra le interviste, condivido volentieri:
- Intervista concessa a l’Huffington Post: “La cultura della complessità come cultura della responsabilità”
- Intervista concessa a VITA: “Nella società ipercomplessa, la strategia è saltare le separazioni”
- Intervista concessa a Morning Future: “La società ipertecnologica? Non ha bisogno di tecnici, ma di ibridi”
Immagine: opera di M.C. Escher