Dopo aver attraversato, anche se non ne siamo ancora fuori (anzi!), l’era “dell’uno vale uno” – nella quale, la non-conoscenza (e/o l’ignoranza) è assurta a valore fondamentale e la preparazione/la cultura/il pensiero ad inutili ‘strumenti’ – siamo entrati, per tanti versi opportunamente – almeno, a livello di discorso pubblico – in una (apparentemente) “nuova fase” (?) che, a seguito anche dell’ennesima emergenza sistemica e globale e della nostra impreparazione/inadeguatezza, sembrerebbe proprio partire da una rivalutazione/riconsiderazione del ruolo e della funzione, assolutamente determinanti e strategici, degli studiosi, di chi fa ricerca, dei cd.esperti, perfino, degli intellettuali (?), tanto disprezzati negli ultimi decenni forse anche per il loro essere fin troppo ‘organici’ e allineati all’insegna di un anticonformismo di maniera che, oltretutto, produce opportunità, successi e visibilità.
Ma, le conseguenze devastanti dell’uno vale uno e – per esteso – delle retoriche/narrazioni della/sulla dis-intermediazione continuano/continueranno ad esercitare il loro condizionamento in tutti gli ambiti della vita pubblica e della prassi sociale. E chissà per quanto tempo ancora ce le porteremo dietro.
Tuttavia, il problema, al momento, è diventato, ai limiti del paradosso, proprio quello (del coinvolgimento esclusivo) degli studiosi e degli esperti/delle esperte: anche perché, ormai, presentarsi, apparire ed essere “riconosciuti” come tali non richiede neanche molto impegno, nell’epoca ipermediatica**, dei social e della comunicazione ipervirale (? – in realtà è connessione + marketing) ove si può attestare e dichiarare di tutto, tanto (quasi) nessuno fa controlli e verifiche, finché fai parte di reti e lobbies, più o meno importanti, e/o non dai fastidio a nessuno.
Ci sono perfino “centri studi e ricerche”, che, al di fuori di webinar e/o post/articoli online, non hanno mai realizzato nulla, né come attività di studio né, tanto meno, come attività di ricerca; nell’epoca in cui “l’etichetta prevale sull’etica”, la forma/l’immagine sulla sostanza (si tratta di un’altra “falsa dicotomia”, come ripeto da tempo… sono entrambe importanti!), la “comunicazione del dire” sulla “comunicazione del fare”, ci sono (addirittura) società (?) che “certificano le competenze” di questi stessi “centri studi e ricerche” senza alcun controllo/verifica serio/a e rigoroso/a da parte di Persone e/o organismi terzi; tutto avviene su un piano puramente formale e nella prospettiva della tradizionale logica dell’adempimento burocratico – meccanismi che, per esempio, riguardano e intercettano anche le tanto apprezzate classifiche nazionali e internazionali dei migliori Atenei.
Dicevo, gli studiosi e gli esperti: la loro funzione è, da sempre, strategica e di vitale importanza. Ma come vengono/sono stati (quasi sempre) scelti? Con quali criteri? Sono davvero “esperte/i” relativamente ai temi ed alle questioni sui quali vengono coinvolte/i? Che significa essere “esperta/o” o “studiosa/o”? Ci sarebbe da dire/scrivere moltissimo (e lo abbiamo fatto, anche in passato).
E tali questioni portano con sé un altro quesito ineludibile e, senz’altro, meno impegnativo nella ricerca della risposta: ma è proprio così difficile/impossibile verificare/valutare l’esperienza, le esperienze lavorative, professionali e di progettazione/ricerca, la preparazione, i percorsi di studio e ricerca, le pubblicazioni scientifiche e divulgative, la presenza e il rilievo internazionale di un esperto/di una esperta? Evidentemente, no.
Il problema è che, tanto, (quasi) nessuno “verifica” e, in tal modo, continuiamo a leggere articoli/libri/testi, assistiamo a dibattiti, perfino a conferenze e congressi che, progettati e costruiti, non per approfondire e fornire chiavi di lettura e azione, bensì per riprodurre e alimentare le ben note logiche di polarizzazione, finiscono per neutralizzare e, addirittura, rendere controproducente la presenza e la consultazione degli esperti/studiosi; anche e soprattutto perché, oltre a riproporre polarizzazioni e schematismi, “false dicotomie” (Dominici, 1995 e sgg.), scontri (apparentemente) ideologici e di interessi, non solo economici, sono in grado soltanto di simulare e/o atteggiare il pensiero critico, il dibattito, l’approfondimento.
Oltretutto, non da oggi, lo scenario, a più livelli di discorso e della prassi, continua (anche) ad essere dominato da tendenze contrastanti, apparentemente inconciliabili, e, allo stesso tempo, fuorvianti e inadeguate: gli iperspecialismi/iperspecialisti, da una parte, e gli esperti di tutto e del tutto, dall’altra.
Prospettive entrambe dannose rispetto alla “complessità” (abusata e maldestramente evocata e spiegata, soprattutto a livello di discorso pubblico e mediatico) ed alla natura sistemica dei fenomeni e dei processi, politici, sociali, organizzativi, culturali, vitali, con i quali dobbiamo confrontarci.
Come ripeto da sempre, non è sufficiente (non lo è mai stato! Anche se, attualmente, è più facile farlo) documentarsi un po’ ed essere informati, leggersi/studiarsi qualche libro/articolo, magari frequentando decine e decine di webinar su un certo tema/questione, per esserne, effettivamente, un “esperto/a” o una/un “studiosa/o”; allo stesso modo, non è sufficiente esser in grado di scrivere o saper parlare/comunicare, in maniera efficace (magari, rielaborando lavoro, studi e ricerche di altri), di/su quegli stessi temi e questioni, per esserne, ancora una volta, considerati delle/degli esperte/i.
Allo stesso modo, come ripeto da oltre venticinque anni (ne è passato di tempo), l’etichetta di “esperto/a”, di “studiosa/o”, perfino di “intellettuale”, e, di conseguenza, l’autorevolezza e la reputazione che accompagna/dovrebbe accompagnare queste figure così decisive e fondamentali, anche per le nostre democrazie, non possono essere determinate/non dovrebbero essere determinate soltanto da criteri esclusivamente quantitativi (per tante ragioni, sulle quali siamo tornati spesso e di recente in La cultura e la conoscenza ridotte “a una dimensione”: quella quantitativa) e, men che meno, da presenze e “successi” mediatici e/o criteri di visibilità e popolarità (online e offline).
Dalla cd. Società della Conoscenza alla Società della Non-Conoscenza. Dalla Knowledge-Society (utopia mai realizzatasi, anzi) alla No-Knowledge Society**.
**Definizione da me proposta in alcune pubblicazioni scientifiche internazionali che, mi auguro, qualora decidiate di riutilizzarla, lo facciate inserendo l’opportuna citazione.
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Ri-condivido saggio per #MediaStudies:
“Tutto sotto controllo. La (iper)complessità tra realtà e rappresentazione”
“…come ci ha mostrato anche la recente emergenza globale e sistemica, tutto è #relazione,è interdipendente, tutto è inter-indipendente (Panikkar) – non ci sono livelli di pensiero, analisi e azione che possono esser tenuti separati – …”
https://www.mstudies.it/2021/09/03/la-ipercomplessita-tra-realta-e-rappresentazione/
#complessità #SistemiComplessi #Errore #imprevedibilità #epistemologia #metodologia #transdisciplinarità
“138. L’ecologia studia le relazioni tra gli organismi viventi e l’ambiente in cui si sviluppano. Essa esige anche di fermarsi a pensare e a discutere sulle condizioni di vita e di sopravvivenza di una società, con l’onestà di mettere in dubbio modelli di sviluppo, produzione e consumo. Non è superfluo insistere ulteriormente sul fatto che tutto è connesso. Il tempo e lo spazio non sono tra loro indipendenti, e neppure gli atomi o le particelle subatomiche si possono considerare separatamente. Come i diversi componenti del pianeta – fisici, chimici e biologici – sono relazionati tra loro, così anche le specie viventi formano una rete che non finiamo mai di riconoscere e comprendere. Buona parte della nostra informazione genetica è condivisa con molti esseri viventi.
Per tale ragione, le conoscenze frammentarie e isolate possono diventare una forma d’ignoranza se fanno resistenza ad integrarsi in una visione più ampia della realtà”,
Francesco, Laudato si’, 138.
Sempre sulle questioni legate alla complessità, condivido voce/saggio pubblicato per Treccani:
“La complessità della complessità e l’errore degli errori” (cit.)
http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/digitale/5_Dominici.html
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#CitaregliAutori #educazione #formazione #potere #politica
In English…
I share with pleasure some scientific publications …
We/I have been talking about it for many years (for at least three decades, more intensively), but nothing has really changed, especially not in our beloved educational and research institutions. Resistance is still very strong and the objectives are far from being achieved, regardless of what is said in the public and media discourse. We will continue to debate and act, especially in the appropriate forums; our future depends on it, as this umpteenth global and systemic emergency is showing.
#PeerReviewed
“The Social Construction of Change”, in CADMUS, 2021
“That systemic change must begin from grassroots communities and single individuals and groups, and by definition can never be a top-down imposition, implicates a necessary rethinking of our educational institutions, which are still based on logics of separation and on “false dichotomies” (quote)
http://cadmusjournal.org/article/volume-4/issue-5/essay5-social-construction-change
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“Educating for the Future in the Age of Obsolescence”, in CADMUS
This article was peer-reviewed and selected as one of the outstanding papers presented at the 2019 IEEE 18th International Congress.
https://academia.edu/resource/work/44784439
Some excerpts:
“4. Simplification: Opportunity or Risk?
Along with this, the not-so-new “ideology of simplification”, supported by the ongoing technological transformations, which sees simplification as an absolute value. But here we need to ask ourselves: should simplification be considered opportunity or risk? To answer this, it is necessary to understand that simplification is not an end, but merely a means. As an end, simplification (like technology itself) is something that is imposed by trampling on any person or social or cultural factor that stands in its way. Simplification applied as a means, on the other hand, can have both positive and negative implications.
“It is time we realized that we cannot just continue to run after and to adapt to the ongoing technological and digital transformations, ignoring their ethical and epistemological implications and underestimating how deeply digital technology has changed our perception and understanding of reality.”
One of the most positive effects regards the simplification of procedures, which can help to reduce bureaucracy and offer greater accessibility, rendering organizational processes more rapid and efficient. The positive aspect of the simplification of language is its tendency to enhance inclusion, by creating the conditions for a less asymmetrical relationship between those who have acquired certain kinds of knowledge and competences and those who have not, and by establishing the conditions for effective, non-simulated dialogue. However, it can serve to deceive as well, by making hierarchies less evident, or seemingly less penalizing. Another negative aspect of the simplification of language is that of determining only a partial reading/analysis/definition of reality and its complexity. This is also one of the side-effects of bridging international communication barriers through the use of one common language (English), which is, admittedly, an integrating factor, yet necessarily limits (and risks eliminating) richness of expression and diversity. Furthermore, and by far the most negative implication of simplifying language, as Orwell has shown, is the impoverishment of ideas and even of the capacity to produce them.
Speaking of communication (Wiener, 1948; Watzlavick et al., 1967; Habermas, 1981; Todorov, 1995) which we have defined as the social process of sharing knowledge (Dominici, 1996), the simplification of communication is largely negative. Its most common impact is to reduce communication to mere persuasion techniques, or marketing.Communication, when simplified in this manner, is nothing more than rhetoric, strategy. Furthermore, there is great confusion between communication and connection (and their analysis, management and evaluation); in fact, the former is most often considered the equivalent of the latter (we are connected, thus we are communicating). In organizational fields, a mechanized and mechanistic vision prevails where communication is simply seen as an automatic appendage of connection.
Both language and communication are, of course, intimately linked to education. In educational fields, simplification is above all negative. There is, in our educational institutions today, a negative tendency to reduce learning to mastering processes and know-how (skills), and to believe that teaching technology, in particular digital technology, is a quick fix to our current educational crisis. By doing so, we are perpetrating the “great mistake” of our technological civilization (Dominici 1996, 2005, 2016). It is time we realized that we cannot just continue to run after and to adapt to the ongoing technological and digital transformations, ignoring their ethical and epistemological implications and underestimating how deeply digital technology has changed our perception and understanding of reality.
Even more significantly for educational processes, the attempt to reduce or neutralize conflict and debate, which are the foundations of pluralism and critical thinking, is a fatally negative form of the ideology of simplification. Without allowing civilized and respectful conflict and debate, we will deprive ourselves of the possibility of doubt, uncertainty and diversity of opinion, therefore of the most basic guarantees of liberty and democracy.
Figure 1: Simplification: Opportunity or Risk?
(Dominici, 2005-2019)
It follows, therefore, that the simplification of democracy, like education, is completely negative. The very idea that one can simplify such a complex form of organization and governance is tantamount to reducing democracy to a mere sequence of procedures and norms, with the effect of rendering the delicate balance of complex factors constituting our democracies into soulless, unfree technocracies. The simplification of democracy is negative, to begin with, because it creates the illusion of having an equal and direct relationship to power. It is negative because it eliminates the processes of negotiation, because it suppresses alternative thinking and protest, and above all, because it can only produce a simulation of participation and a simulation of citizenship, hetero-directed (Dominici 1996, 2008, 2014) from the top down, a citizenship (Marshall, 1950; Veca, 1990; Bobbio, 1995; Dahl, 1998; Dahrendorf, 2001; Bellamy, 2008; Norris, 2011; Balibar 2012) without citizens, as I have said before. (See Figure 1).
A further negative result of the ideology of simplification is the concept of disintermediation, which has been so highly celebrated in the so-called digital revolution—the idea that there is no longer any need for processes or figures of intermediation which can be eliminated without further ado. This may be a better way to purchase flights and hotels online, but when we are dealing with cultural factors, is it really desirable that we allow digital platforms belonging to private high-tech giants to supply us directly with their choices, decisions and versions regarding information, government, economics, ethics, politics, health, education, entertainment, history, religion, art? We have attempted to simplify, disintermediate, reduce and simulate reality with data, figures, measurements and quantities into a strange kind of “virtual concreteness” (Dominici 2019).
Going back to our initial argument that the obsession with concreteness has become a veritable dictatorship, what is paradoxical is that the very same proponents of concreteness and facts are now loudly proclaiming the importance of thought, of critical and systemic thinking, of creativity, of imagination, of “creative thinking” (which, in every country, must unfailingly be expressed in English), even of the importance of philosophy, until recently battered and mistreated along with other important disciplines, and not only within educational institutions. It seems that no one, at this moment, would dream of denying the importance of interdisciplinarity, transdisciplinarity, empathy and unpredictability, of innovation, change, and above all, of complexity (which has suddenly become the talk of the town). After years of pursuing concreteness at all costs, decision-makers, opinion leaders and intellectual front men are shouting from the rooftops what I and others like myself have been repeating for years: that know-how and competences will not suffice; that education plays a vital and strategic role in this hypercomplex and hyper-connected civilization, that technology itself cannot guarantee a symmetrical and inclusive society, that it is the person who should be placed at the core of society (Maritain, 1947; Castells, 1996-1998, 2009; Rodotà, 1997; Ferrarotti, 1997; Rifkin, 2000; Himanen, 2001; Dominici, 1996-2017; Benkler, 2006; Byung-Chul, 2012, 2013; Bostrom, 2014; Tegmark, 2017). While, in one respect, this is undoubtedly positive (it’s one of the ways that cultural climates can change), the slogans that are being used run the risk of trivializing, of creating a public discourse to shape the agendas of public opinion according to the usual driving logics of polarization, leaving little or no space for in-depth analyses or critical evaluation of the positions being taken. The worst consequence is that in this manner, it all becomes formula, norms, mainstream, thus losing any drop of disruptive potential and any possibility of creating an authentic discontinuity with the hegemonic models and with “how it has always been”. (quote)
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“Objects as Systems. The strategic role of Education”
https://link.springer.com/article/10.1007/s40309-017-0126-4 in European Journal of Future Research, Springer Edu
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“A New Paradigm in Global Higher Education for Sustainable Development”, in CADMUS, Vol.IV, 2021.
https://www.cadmusjournal.org/article/volume-4/issue-5/new-paradigm-global-higher-education
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“Controversies on hypercomplexity and on education…”
Link to PDF https://www.academia.edu/44785185/Controversies_about_Hypercomplexity_and_Education_cvs_15_11dom
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COMMUNICATION and the SOCIAL PRODUCTION of KNOWLEDGE.
A ‘new contract’ for the ‘society of individuals’
https://academia.edu/resource/work/44804068
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“Education, Fake News and the Complexity of Democracy”.
“The real problems we are facing today are not the fake news, post-truths, deep fakes, or disinformation of various kinds and origins, but a socially constructed pre-disposition to conformism; in short, the decline of democracy.” (quote).
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Research Article
“The Digital Mockingbird: Anthropological Transformation and the “New” Nature”, in World Futures .The Journal of New Paradigm, Routhledge
Taylor & Francis, Feb. 2022. #PeerReviewed
Routhledge
#research #transdisciplinarity #education #AI #FutureofEducation #ComplexSystems #EducationForAll
https://doi.org/10.1080/02604027.2022.2028539
“The ongoing paradigm shift and profound anthropological transformation
(1996)
An approach and research since 1995
#research #RethinkingEducation #CriticalThinking #ParadigmShift #Hypercomplexity
#FutureOfEducation #EducationForAll #WAAS2022 ##UNESCO #WHEC2022
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N.B. Condividete e riutilizzate pure i contenuti pubblicati ma, cortesemente, citate sempre gli Autori e le Fonti anche quando si usano categorie concettuali e relative definizioni operative. Condividiamo la conoscenza e le informazioni, ma proviamo ad interrompere il circuito non virtuoso e scorretto del “copia e incolla”, alimentato da coloro che sanno soltanto “usare” il lavoro altrui. Le citazioni si fanno, in primo luogo, per correttezza e, in secondo luogo, perché il nostro lavoro (la nostra produzione intellettuale e la nostra attività di ricerca) è sempre il risultato del lavoro di tante “persone” che, come NOI, studiano e fanno ricerca, aiutandoci anche ad essere creativi e originali, orientando le nostre ipotesi di lavoro.
I testi che condivido sono il frutto di lavoro (passione!) e ricerche e, come avrete notato, sono sempre ricchi di citazioni. Continuo a registrare, con rammarico e una certa perplessità, come tale modo di procedere, che dovrebbe caratterizzare tutta la produzione intellettuale (non soltanto quella scientifica e/o accademica), sia sempre meno praticata e frequente in molti Autori e studiosi.
Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle tante scorrettezze ricevute in questi anni. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da vent’anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede.
Buona riflessione e buona ricerca!
Immagine: opera di U.Boccioni, Rissa in galleria