“Ognuno ride a modo suo”. La sfida di abitare* il Sociale e l’Umano

Condivido volentieri la recensione di un libro cui sono molto legato. Tale testo è stato pubblicato sul Numero 158 della Rivista “PROMETEO. Rivista Trimestrale di Scienze e Storia”, Anno 40, Mondadori, Giugno 2022.

Di seguito, il testo:

Recensione del libro di Valentina Perniciaro, “Ognuno ride a modo suo”, Rizzoli, Milano 2022.

Di Piero Dominici,

Sociologo e filosofo, Fellow della World Academy of Art and Science, Delegato ufficiale all’UNESCO, Direttore scientifico di CHAOS – International Research and Education Programme on “Complex Human Adaptive Organizations and Systems”, Università degli Studi di Perugia

Email: piero.dominici@unipg.itdominici@worldacademy.org

 

“La storia vera e straordinaria di un bambino, Sirio, cui nessuno, dopo la morte in culla, aveva dato alcuna speranza. Ora, la speranza, la sta donando lui a tutti noi

Questo libro non è soltanto la storia di un bambino “irriverente e sbilenco”, e la storia di tutti noi, di chi cerca, con passione e tensione civile, di non arrendersi e provare a cambiare le regole – non soltanto quelle giuridiche, cui attribuiamo fin troppa importanza -, di chi prova dare il suo contributo nel trasformare la Società.

È anche la storia drammatica e, allo stesso tempo, meravigliosa e generativa di Sirio e della sua magnifica “tribù”, è la storia di diritti disattesi e inascoltati, di libertà e di reclusioni (comprese quelle mentali, sociali e culturali) che segnano le nostre vite; è la storia di porte chiuse in faccia e varchi aperti, di chiusure e di brecce improvvise nel cuore delle Persone e nelle istituzioni; in altre parole, è la storia vissuta, nella mente e nella carne, della condizione di continua e permanente emergenza e imprevedibilità.

È la storia di una vita che, in tutte le sue forme, non si arrende, lotta contro le ingiustizie, gli stereotipi e i luoghi comuni, nella profonda consapevolezza di quanto determinanti siano proprio i nostri sguardi, il nostro modo di percepire, osservare ed etichettare la realtà, le persone, i gruppi, le idee; di quanto siano determinanti i nostri sguardi gettati sull’Altro da noi, la nostra capacità di comprendere ed ascoltare, di più, abitare fino in fondo la sofferenza umana, la debolezza, le fragilità e le vulnerabilità che ci segnano e che caratterizzano ogni singolo attimo delle nostre esistenze, sempre precarie, relazionali e sistemiche, infinitamente e indissolubilmente legate a quelle degli altri.

Una società e dei sistemi sociali, comprese le stesse democrazie moderne, che vivono e continuano ad alimentarsi, oltre che di quelle che ho definito “grandi illusioni della/sulla civiltà ipertecnologica” (razionalità, controllo, misurabilità, prevedibilità, eliminazione dell’errore), di una “cooperazione forzata”, di una “solidarietà della paura“, che sempre più strutturano e consolidano, almeno apparentemente, la propria resistenza al cambiamento ed a qualsiasi tentativo di “evoluzione non lineare e complessa“, peraltro generando anche un’adesione acritica alle paure ed alla insicurezza che, già di per sé, caratterizzano, connotano, strutturalmente, le nostre vite individuali e sociali.

Si tratta di un libro che ci interroga, profondamente, e in maniera mai banale – con un’attenzione anche alle implicazioni epistemologiche ed etiche – su cosa siano la vita, la malattia, la sofferenza, la relazionalità, l’empatia, la socialità, la comunicazione, l’incomunicabilità, il nostro “essere umani”, le società che abbiamo insieme co-costruito.

Una storia, quella di Sirio e delle tante persone coinvolte, fatta di distanze e di legami sociali. Perché noi siamo “relazione/relazioni” anche se, attraverso i modelli educativi e culturali, tentiamo sempre di ridurre, semplificare, etichettare, edificare distanze, separazioni, muri.

Un Noi sistemico, inclusivo, aperto, capace di abbracciare e valorizzare, allo stesso tempo, diversità e unicità, in grado di lasciar coesistere conflitti, contraddizioni, false dicotomie (1995) in tutte le dimensioni della vita individuale, privata e pubblica, e sociale; in tutte le attività umane, dalla politica alla ricerca scientifica.

Le sfide, evidentemente, sono anche, e soprattutto, di carattere educativo e formativo.

Pur non esplicitandolo direttamente, Ognuno ride a modo suo” è un messaggio forte, pieno di vitalità che ci invita, oltre che alla responsabilità, a smettere di “isolare”, tenere separate, distinte, disgiunte, le dimensioni cognitive, psichiche, emotive, sociali e culturali che, da sempre, costituiscono i nostri problemi e gli ecosistemi che tentiamo di abitare e trasformare.

Tutto è, e non soltanto appare, intimamente correlato e interconnesso. Il corpo, la mente, gli ambienti, il sociale, la vita, noi umani, ma anche la malattia, le sofferenze, le gioie, le libertà negate e i diritti conquistati. Tutto è collegato e ciò richiede ancor più responsabilità e rinnovate consapevolezze. Proprio perché  tutto è relazione, Noi stessi siamo “relazioni” sistemiche anche se tuttora poco consapevoli che, ricordando un grande scienziato e Premio Nobel, More is different (1972).

In altre parole, questo libro porta con sé una riflessione, vissuta e sofferta, relativa anche  all’importanza di recuperare ciò che, da sempre, le Società – comprese le moderne democrazie – per tante ragioni, hanno provato ad escludere, isolare, rimuovere, rendere invisibile, recludere: l’anormalità, l’assenza di “salute”, il patologico (sulle “spalle dei giganti”, mi limito, in questa sede, ad evocare il pensiero e le opere di Georges Canguilhem e Franco Basaglia), l’irrazionalità, la sofferenza, la malattia in tutte le sue forme, anche quelle non osservabili; ma anche l’errore, la devianza, la diversità e l’unicità, l’inatteso e l’incerto.

A tutti i livelli di analisi e della prassi, biologia, cultura e tecnica interagiscono sempre di più, realizzando complessi processi di sintesi che ci costringono a ripensare teorie e paradigmi; anche nel racconto di Sirio, la vita – “infinita e irreversibile sequenza di cigni neri” (1996) – continua a coesistere e intrecciarsi con la malattia, persino con la morte; e continuano ad intrecciarsi la paura con la speranza, la luce con il buio, il giorno con la notte, la gioia con il dolore: le parole e il racconto di Valentina, non soltanto descrivono e raffigurano, fanno vivere ogni singolo momento, ogni singolo istante, ogni singolo odore, rumore, sensazione, ogni colore e sfumatura. E la sofferenza come la gioia, la libertà come la reclusione, l’angoscia come la speranza, la presenza come l’assenza, le emozioni come la razionalità, il respiro come l’assenza di respiro, la memoria come l’oblio e la capacità, talvolta l’urgenza, di dimenticare.

Tutto attraversa le nostre vite ed esperienze, cui cerchiamo di dare un ordine e un senso complessivo. “Volevo donarti la libertà”, scrive Valentina in uno dei punti più emozionanti del testo. In questo libro c’è la vita, il senso più profondo del nostro essere umani (“relazioni”): un senso profondo che si realizza pienamente nel cercare e incontrare l’Altro.

Questo libro, più e più volte, oltre a farci sentire/percepire la vita sulla pelle e nella carne, riesce a commuovere e non soltanto a coinvolgere, aiutandoci nel farci prendere consapevolezza dell’urgenza di uno sguardo “altro” per poter davvero comprendere le nostre disabilità, la sofferenza, la malattia, le nostre fragilità e vulnerabilità, la loro natura e dimensione sistemica; e ci invita a farlo già con occhi diversi, con una prospettiva “altra”, proprio nella consapevolezza che “ognuno rida a modo suo” ed – evocando parole celebri – che l’essenziale sia invisibile agli occhi.

“Ognuno ride a modo suo” ha tanti meriti, non ultimo quello di raccontare, con lucidità e con grande generosità, le ragioni profonde che possono/potrebbero riportarci intorno al focolare, suggerendoci possibili “attraversamenti” e percorsi non lineari, all’interno dei quali trasformare le chiusure, i vincoli, i confini, i muri, le resistenze, le reclusioni, perfino i silenzi, in straordinarie opportunità di avvicinare, farsi “prossimi”, di comunicare, di condividere, co-costruendo qualcosa insieme e, magari, abbandonando concretamente, e non soltanto “a parole”, alcune certezze illusorie e le nostre “comfort zones”.

Per “aprire le porte della città”.

“Lasciate lontano la paura, lasciate lontano l’orrore della deformazione, della malattia, della disabilità, della pazzia, della diversità e venite a giocare con me, a parlare con me, a ballare”.

Tanti di noi stanno già ballando con Te, anche se la strada è lunga e piena di insidie. Sei il “Re sbilenco dei Tetrabondi”, cioè, in fondo in fondo, di noi umani, sbilenchi e incompleti per definizione.

Immagine: opera di Jacek Yerka

Come sempre, e con l’occasione, ri-condivido testi e percorsi di approfondimento…

“Prendersi cura” della Società … (allargando, ancora, lo sguardo)

Quanta violenza, quanta aggressività…

Quante ‘notizie’, da anni sempre più ricorrenti (sì d’accordo, conta il ruolo centrale e la presenza dei media, prima non si sapeva etc., etc….ma non è questo il punto), fanno particolarmente male e ci interrogano/ci dovrebbero interrogare molto – al di là della analisi/riflessione/studio/ricerca sui contesti educativi e culturali (urgono visione e approccio sistemico, nelle azioni e non solo nelle parole) – soprattutto con riferimento al nostro ruolo di educatori ed, allargando lo sguardo, alle molteplici responsabilità di chi educa, pur in situazioni e contesti differenti, pur con ruoli e obiettivi differenti.

Si potrebbe scrivere molto, moltissimo (in passato, ci sono tornato spesso), ma non sempre si riesce. L’empatia e, più in generale, le emozioni, rendono la riflessione più sofferta e, quasi paradossalmente, meno spontanea.

Quanta violenza…efferata, preparata, pianificata, vigliacca, infame. Quasi sempre rivolta a “soggetti deboli”, riconosciuti come tali, percepiti come “diversi” (Noi vs. Voi) e/o, comunque, in difficoltà, e non soltanto all’interno della situazione specifica. Una violenza e un’aggressività senza limiti e senza controllo, pronta ad esplodere in qualsiasi momento e senza alcuna ragione; una violenza e un’aggressività che, oltre a trovare nella paura e, allo stesso tempo, nell’indifferenza degli Altri, quasi una sorta di rete di protezione e legittimazione ad agire, ci trovano molto spesso, sia come comunità che come società, del tutto impreparati.

Una violenza e un’aggressività senza alcun rispetto per la coscienza, la dignità, e l’Umanità che dovrebbero contraddistinguerci, appunto, come esseri umani. Aggressività e violenza contro bambini e adolescenti, stupri, stupri di gruppo, risse, pestaggi, aggressioni di ogni genere, contro anziani e senzatetto (nessuna categoria, tra quelle più fragili e precarie, si salva), perfino omicidi, con l’aggravante ulteriore dei cd. “futili motivi”. Si tratta di questioni estremamente profonde e complesse che, tanto per cambiare, richiedono/richiederebbero un approccio (e una visione) sistemico capace di tenere insieme i numerosi fattori, le concause e le variabili da considerarsi.

Questioni complesse, la cui analisi, spiegazione e interpretazione, non possono essere ricondotte – come ripeto da anni – soltanto al fatto che certa politica e certi leaders politici cavalchino strumentalmente conflitti e disuguaglianze sociali soltanto per la conquista del consenso e del potere. Non basta a spiegare, a comprendere, ad agire, a prendere le opportune contromisure, che non possono che essere di “lungo periodo”. C’è dell’altro, occorre andare a fondo, soprattutto quando ci si occupa di processi educativi e culturali. E, come sempre, occorre prestare grande attenzione alle consuete scorciatoie (sempre affascinanti e molto praticate), ma soprattutto alle spiegazioni riduzionistiche e deterministiche.

E – come mi sforzo di ripetere da anni – non è davvero un problema di copertura mediatica e/o narrazioni egemoni nei/dei social. Siamo di fronte a situazioni, eventi e questioni estremamente preoccupanti, segnali ed “indicatori” inequivocabili di un declino e di un degrado sociale, culturale, morale, in atto da tempo; un declino e un degrado (si potrebbe parlare, con alcuni classici, anche di “anomia” e di “vuoto etico”), correlati al ben noto declino (crisi) delle tradizionali “agenzie di socializzazione”, che rendono estremamente fragili le fondamenta della nostra democrazia e del nostro “abitare insieme”.

In tal senso, non posso nascondervi come tutto ciò mi colpisca (a dir poco) ancor di più proprio quando, ad esserne protagonisti, sono proprio i giovani (senza cadere in generalizzazioni, sempre sbagliate). E per tante ragioni.

Come ripeto da sempre, la questione educativa e culturale ha radici profonde e complesse, arriva da molto lontano e, non da oggi, continuiamo ad affrontarla (?) in maniera, a dir poco, superficiale e/o all’insegna delle più tradizionali logiche dell’emergenza (controllo, repressione, sorveglianza). Anche in questo caso, mi ripeto: logiche necessarie ma, del tutto, insufficienti e inadeguate rispetto alla complessità del Sociale e dell’Umano.

Per ora (e mi riferisco agli ultimi decenni), continuiamo a parlarne (a vari livelli, dai media alle campagne di comunicazione e sensibilizzazione), nella speranza cambino i famosi “climi d’opinione”. Si potrebbe dire: è già qualcosa ed è necessario. Senz’altro, ma le azioni e le strategie per “prendersi cura” della Società e del legame sociale, per provare a cambiare culture e mentalità (sempre nel lungo, lunghissimo periodo) – compresi stereotipi e pregiudizi che, in alcuni contesti, legittimano/sembrano legittimare odio, aggressività, violenza e sopraffazione, disprezzo per i deboli e i ‘diversi da noi’ – sono/dovrebbero essere di altra ‘natura’. Servono altri approcci, altri saperi e competenze, altri ‘strumenti’. Uno sguardo ‘altro’…

La “cura”, il “prendersi cura”, di quella che definiamo “Società” richiede/richiederebbe/avrebbe richiesto (e richiederà) azioni e strategie differenti, oltre ad una serie di rinnovate consapevolezze. Non ultima, quella di mettere finalmente in discussione il primato del paradigma economicistico (altrimenti, altro che “cambio di paradigma”, altro che ripensamento del modello di sviluppo, altra che società ed economie sostenibili). Come sostengo da molto tempo – ma, sia chiaro, non si tratta di una critica all’economia ed agli economisti – nell’analisi del complesso mutamento sociale in corso, delle nuove disuguaglianze e asimmetrie (educative, conoscitive e culturali) e di molte altre questioni, dovremmo prendere consapevolezza di come l’economia non sia una “scienza esatta”, bensì una “scienza sociale”, con tutto ciò che ne consegue. Allo stesso tempo, fino a quando la Società sarà considerata/pensata/gestita (?) come un sottosistema dell’Economia, non andremo molto lontano.

Davvero incredibile (ma, non mi stupisco) come, tuttora, non si prenda atto – passando da approcci riduzionistici e deterministici ad approcci sistemici e multi/inter-disciplinari – di come i fattori psicologici, psicosociali, relazionali, sociali, culturali, di contesto (socio-culturale) siano determinanti anche nell’indirizzare i processi economici. E lo saranno sempre di più nella cd. società della conoscenza e della iperconnessione. Tuttavia, bene esser chiari: qui non si tratta di stabilire cosa venga prima, l’Economia o la Società, si tratta di acquisire, ancora una volta, consapevolezza che abbiamo a che fare con sistemi complessi e non complicati.

Come sempre, temi e questioni che non possono essere semplificati e, come noto, le scorciatoie sono controproducenti, anche se – nonostante tutto – sono sempre le più praticate. Anche questa (purtroppo) vecchia, vecchissima, questione.

La questione educativa e culturale è profonda e complessa, continuiamo ad esserne poco consapevoli e andare nelle direzioni di sempre. Ripensare l’educazione e i processi educativi…un verbo e una formula di molti anni fa, attualmente un verbo e una formula spesso richiamati, anzi inflazionati. Servono davvero un grande sforzo e un’altra visione complessiva. A tutti i i livelli della prassi sociale e politica.

Progresso tecnologico ed economico condizioni necessarie ma non sufficienti ad affrontare una crisi che è anche, e soprattutto, culturale e di civiltà.

 

Condivido, come sempre, alcuni contributi del passato, estratti da pubblicazioni, scientifiche e non, in cui ho affrontato in maniera ancor più estesa, tali questioni.

Per provare ad allargare lo sguardo e la riflessione, oggi entrambi dolorosi.

“Una nuova necessaria educazione (formazione) per l’era degli ecosistemi interconnessi significa affrontare il passaggio dalla linearità alla complessità, dall’ordine al caos. Rilanciare la filosofia e il pensiero critico scientifico. Ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico*“ (Dominici, 1995, 1998 e sgg.).

“La questione delle questioni (l’Educazione) non è più – e, a mio avviso, non lo è mai stata – semplicemente ripensare “l’educazione digitale” o “l’educazione ai media”. La questione delle questioni è ripensare a fondo educazione e formazione (dimensioni complesse e strettamente interdipendenti)” (ibidem).

 

L’importanza di “costruire” socialmente e culturalmente la Persona e il Cittadino

La costruzione sociale e culturale della Persona, prima, e del cittadino, poi, sono processi complessi che devono (dovrebbero) essere attivati/innescati/accompagnati fin dai primi anni di vita e che non dovrebbero essere rimandati nel tempo: si tratta di pre-requisiti fondamentali e, allo stesso tempo, funzionali al tentativo di ricostituire/rafforzare un tessuto sociale estremamente indebolito, creando di fatto le condizioni – potremmo dire – “empiriche” per contrastare l’assenza di civismo e quel vuoto etico e di senso che, al di là delle rappresentazioni mediatiche e delle relative fiammate emotive, sembra diffondersi sempre di più, non soltanto tra le nuove generazioni.

I “germi” della ben nota “questione culturale” sono/costituiscono i veri ostacoli all’affermazione di un’innovazione inclusiva (sociale e culturale) e al co-costituirsi di sistemi sociali più aperti e inclusivi. Questioni e problematiche che hanno profonde implicazioni perfino nella stessa ideazione/progettazione/definizione di qualsiasi modello o pratica di cittadinanza e partecipazione.

Come avrete compreso, ritengo tali questioni a dir poco strategiche ma, allo stesso tempo, credo sia di fondamentale importanza inquadrarle in un discorso più complesso, e generale, di ripensamento di quello che ho definito “nuovo contratto sociale” (Dominici, 1998, 2003), per non parlare del concetto stesso di cittadinanza; un ripensamento/riformulazione che deve portare, a sua volta, ad una traduzione operativa funzionale alla definizione, progettazione e realizzazione di proposte e strategie educative.

Perché questo è il livello cruciale del cambiamento culturale che è in grado, nel lungo periodo, di innescare e accompagnare quello economico, politico, sociale. E, come dico sempre, non c’è alcuno spazio per l’improvvisazione e/o le scorciatoie: il livello strategico è quello concernente i processi educativi (la scuola, sopra ogni cosa, e le altre agenzie di socializzazione).

Perché, la questione è culturale e riguarda, in primo luogo, l’educazione, anche alla libertà che comporta responsabilità! E, oltre alla dimensione sociale, relazionale, etica, i nostri giovani – fin dai primi anni di scuola – hanno sempre più bisogno di conoscere, vivere, praticare e applicare la “logica” (all’università è davvero difficile modificare una forma mentis già strutturata); di saper sviluppare/verificare logicamente le argomentazioni, procedendo per congetture e confutazioni, abituandosi alla ricchezza ed alla imprevedibilità del confronto e dello stesso conflitto; hanno un disperato bisogno (scusate la ripetizione) di un “metodo” con il quale pensare, ragionare, sintetizzare, dare sistematicità alle tante (troppe?) informazioni ricevute (filosofia, presupposti epistemologici e metodologici); hanno bisogno di sviluppare immaginazione e creatività, potenti “strumenti” anche nel confronto e nel dialogo con gli Altri; hanno bisogno di un’educazione e  formazione alla complessità e al pensiero critico, che appunto educhi e formi – quasi “addestri” – ad individuare le connessioni tra i fenomeni e i processi, tra i saperi e la vita vissuta…che li metta in condizione, per esempio, di valutare criticamente le origini storico-sociali di norme e modelli culturali, di riflettere e distinguere ciò che è “natura” da ciò che è “cultura” e frutto di convenzione (dicotomia che andrebbe superata una volta per tutte!); di riconoscere nella diversità e nel pluralismo dei “valori” fondamentali e non dei “pericoli”.

Come scritto anche in passato, per realizzare obiettivi così complessi, servono politiche di lungo periodo e un rilancio in grande stile degli studi umanistici e della formazione umanistica, a tutti i livelli (scuola, università, ricerca etc.), provando a superare una volta per tutte – anche se operazione tutt’altro che semplice – certe logiche di separazione e di reclusione dei saperi e delle competenze, andando oltre quelle che ho definito false dicotomie” (teoria vs. ricerca/pratica; formazione scientifica vs. formazione umanistica; conoscenze vs. competenze; hard skills vs. soft skills); il resto arriverebbe quasi di conseguenza.

La formazione umanistica insegna a pensare con la propria testa ma, soprattutto, insegna a pensare con quella degli altri, con quella di coloro che hanno modelli culturali differenti. Da questo punto di vista, anche l’acquisizione e il possesso delle cd. competenze tecniche e digitali (assolutamente importanti, chiariamolo) avrebbero ricadute ancor più significative su “teste ben fatte”, criticamente formate e curiose della complessità che le circonda. Serve urgentemente un “nuovo Umanesimo” che ponga la Persona, la sua formazione e la sua relazione con l’Altro, al centro (rinvio anche ad altri post, oltre che a saggi pubblicati).

Ad essere in gioco sono le identità e le soggettività e, in questa prospettiva, non possiamo non rilevare l’assenza di modelli teorico-interpretativi e, più in generale, culturali adeguati al mutamento in atto, oltre che la sostanziale inadeguatezza dei percorsi didattico-formativi scolastici e universitari. Ormai sembrano tutti d’accordo (meglio tardi che mai!) nell’esaltare il valore del pensiero critico e di un’educazione/formazione alla complessità ma, per il momento, l’impressione è che si tratti di formule e slogan di successo, parole-chiave che non possono non essere adottate. Il problema è che mancano le azioni/strategie corrispondenti, che non possono che essere di lungo periodo, anche perché la Politica, da sempre, pensa al “breve periodo” e persegue altre logiche.

 

  1. Etica e morale non si impongono: perché è importante educare e formare i cittadini (testo ripetuto anche nella parte delle risposte)

 

Insomma, in altre parole, stiamo ragionando, non soltanto sulle condizioni che possono rendere effettivi processi complessi come quelli riguardanti l’inclusione e la cittadinanza, ma anche sull’opportunità e la necessità di lavorare, all’interno di una prospettiva sistemica e di logiche di rete, sulla definizione e costruzione di una “cultura della cittadinanza e dell’inclusione”. La stessa crescita del Paese (ma di qualsiasi Stato-Nazione), che è questione cruciale non spiegabile e gestibile ricorrendo al solo paradigma economicistico (la globalizzazione l’ha ampiamente dimostrato), ne trarrebbe enormi vantaggi.

Il nostro Paese è segnato da una “questione culturale” che – mi ripeto – si pone ben al di là del quadro giuridico, normativo e deontologico-professionale e che chiama in causa la libertà e, con essa, la responsabilità (concetti relazionali) degli attori sociali, individuali e collettivi: il civismo, l’educazione alla cittadinanza, un’etica condivisa e un modello culturale e identitario forte sono “dispositivi” fondamentali per la stessa sopravvivenza dei sistemi sociali e organizzativi. Anche, e soprattutto, perché ETICA e MORALE NON SI IMPONGONO. Si tratta di processi che – come detto – chiamano in causa molteplici variabili e richiedono profili e competenze costruite sul campo.

Tali questioni, peraltro, non riguardano sole le tematiche dell’inclusione e della cittadinanza: ad esempio, continuo a pensare che anche la “vera” prevenzione si fa, si costruisca a scuola e, ancora una volta, servono politiche (lungo periodo). Propongo, in questa linea di discorso, alcune considerazioni per sottolineare l’assoluta rilevanza delle questioni riguardanti educazione e istruzione. Per motivi di chiarezza, procederò per punti.

  1. Il nostro è un Paese dal quadro normativo e legislativo complesso e articolato: esistono molte leggi (forse, troppe), codici professionali, carte deontologiche, linee guida, sistemi di regole formali, sistemi di orientamento valoriale e conoscitivo. Eppure questi “strumenti” continuano a rivelarsi condizione necessaria ma non sufficiente proprio perché esiste una dimensione, cruciale e fondante allo stesso tempo, che è quella della responsabilità: un concetto che va assolutamente ridefinito in chiave relazionale; una dimensione che sfugge a qualsiasi tipo di “gabbia” e/o sistema/dispositivo di controllo, perché attiene alla libertà delle Persone (altro discorso da approfondire, legato al tema dell’emancipazione nella modernità: interessante il concetto di “libertà generativa”). E da questo punto di vista, come non essere d’accordo con la definizione di “società degli individui”: una società (noi) nella quale molti individui (appunto) sentono di non dover rispondere a nessuno dei loro atti, tanto meno ad una “comunità” i cui legami si sono fortemente indeboliti (e, non a caso, c’è chi parla – letteratura scientifica – di fine del legame sociale).
    Qualche anno fa, intitolai un mio libro “La società dell’irresponsabilità” proprio per connotare questa condizione critica, ricollegabile solo in parte alla crisi economica (o ad indicatori di tipo economico): la “questione culturale” mette in luce, ancora una volta, non solo la crisi delle istituzioni formative, ma anche la debolezza dei vecchi apparati e delle vecchie logiche di controllo e repressione che non hanno mai risolto i problemi alla base; che sono sempre strategie di “breve periodo” (cultura dell’emergenza vs. cultura della prevenzione, a tutti i livelli e in tutti i settori della prassi). Un Paese che, ai limiti del paradosso, è fondato culturalmente sul “principio di irresponsabilità” (Dominici 2003 e 2009), oltre che su una diffusa incoerenza dei comportamenti (ricordo sempre la formula etica vs etichetta); un’irresponsabilità diffusa in tutti i settori, compresi quelli della comunicazione e dell’informazione, a dir poco vitali per la qualità della stessa democrazia; un’irresponsabilità diffusa vera cifra della “questione culturale”, che legittima chi aggira le leggi, le regole e, perfino, le norme sociali condivise (cultura della furbizia); un’irresponsabilità diffusa che trova il suo ecosistema ideale in un contesto storico e in clima culturale che esaltano sempre chi antepone l’interesse particolare a quello generale e al “bene comune”. Si pensi, in tal senso, anche alla metastasi della corruzione che, come la cronaca degli ultimi decenni ha messo in luce, coinvolge non soltanto la cd. “casta”, bensì ampi settori della società civile che, probabilmente, continuano a credere nonostante tutto di poter avere vantaggi dalla “casta” stessa; un’irresponsabilità che si articola anche in comportamenti eticamente scorretti e non attenti neanche al principio di precauzione. Dunque, un’irresponsabilità diffusa che rende socialmente accettabile la violazione di leggi e norme e che affonda le sue radici anche in una certa “cultura della furbizia” che, talvolta, inconsapevolmente viene elaborata e diffusa proprio nei luoghi deputati alla socializzazione ed all’educazione della Persona. Accade così che la soluzione ai problemi, per certi versi inevitabile (ma, evidentemente, non è l’unica strada percorribile), sia sempre la medesima: il continuo ricorso a leggi e normative sempre più rigide e stringenti: intendiamoci bene, si tratta in molti casi di condizioni necessarie, addirittura fondamentali ma, come ampiamente dimostrato dalla storia sociale, politica ed economica non soltanto di questo Paese, si tratta di condizioni/fattori non sufficienti.

Dobbiamo confrontarci con una “natura” intrinsecamente problematica e complessa dei sistemi sociali, non più riconducibile alle sole categorie (significative) di rischio, incertezza, vulnerabilità, liquidità etc. A ciò si aggiunga che, quasi paradossalmente, mai come in questi anni si è discusso (e si discute) di etica e di responsabilità in tutti i campi dell’azione sociale (dalla politica alla cultura, dall’informazione all’innovazione scientifica e tecnologica etc.). Si potrebbe semplificare tale paradosso con la “formula”: trionfo dell’etichetta sull’etica. Paese di paradossi e contraddizioni (non soltanto sul piano culturale): da una parte, per ogni “nuovo” problema si invocano subito nuove leggi, nuovi codici deontologici, nuove prescrizioni, nuovi divieti; dall’altra, culturalmente, consideriamo quelle stesse leggi, norme, “regole” come un ostacolo alla nostra autoaffermazione ed al nostro successo/prestigio sociale. D’altra parte, ciò che spesso sembra venire a mancare è proprio la coerenza dei comportamenti che, comunicativamente parlando, risulterebbe (è!) molto più efficace delle parole e dei principi spiegati attraverso un linguaggio, più o meno, politicamente corretto. Appare evidente come siamo di fronte ad una vera e propria “emergenza educativa” – anche se non amo questa parola che ben rappresenta quella cultura, tuttora egemone, che sa affrontare (crede, si illude di sapere controllare/contrastare) qualsiasi problema soltanto con provvedimenti eccezionali e saltuari (dalla sicurezza al lavoro, dalla salute alla violenza, dalle forme di discriminazione al bullismo, dalla corruzione all’illegalità) – legata ad una molteplicità di fattori e variabili, che hanno determinato una trasformazione profonda dei processi di socializzazione ed una crisi delle tradizionali agenzie/istituzioni deputate all’interiorizzazione dei valori ed alla formazione delle personalità/identità (riconoscimento-rispetto-altruismo-senso civico-cittadinanza vissuta e non subita/eterodiretta).Mi riferisco, in tal senso, al concetto di “policentrismo formativo” ed alla divaricazione del ventaglio dell’offerta educativa e formativa. Questo Paese non riuscirà a ripartire senza affrontare seriamente tali problematiche. Stiamo discutendo, in altri termini, dei “cittadini di domani” che corrono seriamente il rischio di continuare a crescere e socializzarsi ad una cultura della furbizia, dell’illegalità e/o del familismo amorale (apparentemente?) dominante: e tutto questo all’interno di quel famoso modello sociale e culturale “feudale” di cui abbiamo parlato, che ha sempre lasciato poco spazio alla mobilità sociale verticale.

  1. La “questione culturale”, qui più volte richiamata, è legata come detto anche, e soprattutto, ad un problema di interruzione/crisi della comunicazione tra le generazioni (concetto che andrebbe sciolto e sviluppato). Tuttavia, in questa prospettiva di analisi, non possiamo non registrare come i media (vecchi e nuovi, per non parlare dei social networks) – con il famoso “gruppo dei pari” – si siano letteralmente divorati lo spazio comunicativo e del sapere (?) gestito, in passato, della tradizionali istituzioni e agenzie educative e formative.
  2.  Sugli attori sociali e sulle professionalità protagoniste del processo educativo e formativo, non riesco a non essere radicale, pur considerando che scuola e università sono state pesantemente penalizzate da tagli e controriforme (eccesso di riformismo). Esistono lavori/professioni che andrebbero fatti/scelti anche, e soprattutto, perché si avverte una vocazione e non soltanto per una forma di prestigio sociale e/o perché permettono magari di esercitare forme di micropotere sugli altri. Prendersi cura di una persona (concetto complesso), insegnare, formare, condividere ed elaborare non significa soltanto trasmettere e/o impartire nozioni: i figli, gli studenti e, più in generale, i giovani – come dire – ti aspettano al varco, osservano “come ti comporti”. Insomma, contano i “fatti”, non le “parole”. La “tua” (nostra) credibilità e autorevolezza si fonda sui comportamenti e sulla loro coerenza rispetto a quanto affermiamo (problema che riguarda anche la politica). Se chiedi correttezza, devi darla per primo, se pretendi rispetto e senso di responsabilità, devi prima di tutto essere rispettoso dell’Altro e responsabile etc., anche se la relazione è asimmetrica a causa del ruolo e della gerarchia. E non puoi fingere, non nel lungo periodo. Ecco perché certi “ruoli” e certe “attività” richiedono, a mio avviso, consapevolezza, partecipazione, passione, perfino empatia (oltre alla preparazione!). E’ necessario “mettersi in gioco” puntando sull’inclusione (effettiva) dell’altro.

Fondamentale, quindi, ripartire da educazione e istruzione, basandole però su una ridefinizione della “qualità” della relazione tra gli attori dell’ecosistema formativo e comunicativo – nel rispetto dei reciproci ruoli (genitore, insegnante, docente etc.) – oltre che, evidentemente, sulla preparazione e sulle competenze. E, nel lungo periodo, per far questo abbiamo bisogno di “teste ben fatte” (Montaigne), e non di “teste ben piene”, che sappiano organizzare le conoscenze all’interno del nuovo ecosistema cognitivo (2005), altrimenti non si tratterà di “vera” innovazione, cioè quella sociale e culturale. E, come scrissi qualche anno fa, sarà la “società dell’ignoranza” e dell’incompetenza (non solo digitale…): una società edificata sul paradosso e, a livello culturale, su una mancata e fuorviante distinzione tra libertà ed uguaglianza.

In tal senso, pagheremo ancora a lungo la sostanziale inadeguatezza dei nostri percorsi didattico-formativi, tuttora progettati e realizzati sulla miope, oltre che disastrosa, separazione tra la formazione umanistica e quella scientifica, sia a livello scolastico che universitario. A livello pratico e operativo, non posso non tornare a richiamare l’urgenza di politiche di lungo periodo in grado di innescare e supportare il cambiamento culturale e, anche in questo caso, la centralità strategica di educazione, ricerca e formazione è fuori discussione!

Da questo punto di vista, per ciò che concerne quella che ho definito la “società interconnessa/iperconnessa”, l’orizzontalità e la democraticità delle procedure e dei sistemi non possono essere garantite dalla tecnologia in sé e per sé, dal momento che a fare la differenza sono/saranno sempre il fattore umano e la qualità delle relazioni sociali e dei legami di interdipendenza, dentro e fuori i sistemi sociali; dentro e fuori le organizzazioni complesse.

Questione culturale, legalità e cultura della furbizia

 Altra dimensione cruciale della “questione culturale” riguarda la mentalità diffusa, nel nostro Paese, di risolvere tutto esclusivamente con il ricorso al Legislatore (cui si è aggiunta, ancora una volta, la convinzione/narrazione che la digitalizzazione risolverà ogni problema). Un Paese che, ai limiti del paradosso, è fondato culturalmente sul “principio di irresponsabilità” (Dominici 2003 e 2009), oltre che su una diffusa incoerenza dei comportamenti (ricordo sempre la formula ETICA vs ETICHETTA); un’irresponsabilità diffusa in tutti i settori vera cifra della “questione culturale”, che legittima chi aggira le leggi, le regole e, perfino, le norme sociali condivise (cultura della furbizia). Una cultura diffusa, già a livello di processi educativi, che porta a vedere nelle regole e in certi valori (legalità, cittadinanza, bene comune, interesse generale etc.), soprattutto un ostacolo alla propria autoaffermazione. La furbizia è ormai sinonimo di intelligenza perfino nelle valutazioni che diamo dei comportamenti di bambini e adolescenti…che saranno i cittadini di domani! Si pensi, in tal senso, anche alla metastasi della corruzione che, come la cronaca degli ultimi decenni ha messo in luce, coinvolge non soltanto la cd. “casta”, bensì ampi settori della società civile che, probabilmente, continuano a credere nonostante tutto di poter avere vantaggi dalla “casta” stessa; un’irresponsabilità che si articola anche in comportamenti eticamente scorretti e non attenti neanche al principio di precauzione. Dunque, un’irresponsabilità diffusa che rende socialmente accettabile la violazione di leggi e norme, il ricorso al clientelismo e al familismo immorale (forzo il concetto). Accade così che la soluzione ai problemi, per certi versi inevitabile (ma, evidentemente, non è l’unica strada percorribile), sia sempre la medesima: il continuo ricorso a leggi e normative sempre più rigide e stringenti: intendiamoci bene, si tratta in molti casi di condizioni necessarie, addirittura fondamentali ma, come ampiamente dimostrato dalla storia sociale, politica ed economica di questo Paese, si tratta di condizioni/fattori non sufficienti.

Evidentemente, quando parliamo di “questione culturale” andiamo a toccare il nervo scoperto di questo Paese: un Paese che continua ad illudersi di risolvere ogni problema soltanto con le leggi (il diritto penale, in particolare), i divieti e la repressione: “emergenza educativa”, vuoto etico (Jonas), torpore morale, nichilismo, cultura della furbizia e di un’illegalità legittima (Dominici), clientelismo, corruzione, familismo amorale (Banfield): questioni complesse che non si risolveranno con decreti e sanzioni sempre più dure (necessarie ma non sufficienti); questioni complesse che non saranno risolte dalla digitalizzazione, da sistemi informatici e/o app sempre più sofisticate (estremamente utili ma non risolutive). Il problema centrale – lo ribadiamo con forza – è l’educazione, i modelli culturali, la ricerca di un’etica condivisa e, aggiungo, la testimonianza dei comportamenti.

 

Fragilità del tessuto sociale, vuoto valoriale e cittadinanza

Individualismo, fine del legame sociale e del vincolo di appartenenza alla Comunità. Storie di precarietà e incertezza divenute, ormai per molte persone, condizioni esistenziali…una crisi non soltanto economica, aggravata dall’indebolimento del tessuto sociale e dei meccanismi sociali della cooperazione e della fiducia; in molti casi, dalla stessa percezione di una solitudine che non è “visibile” e non fa rumore e dall’assenza di una rete sociale di sostegno. Si tratta di questioni cruciali che studio da anni ma che, soprattutto, ci riguardano tutti da vicino. Passatemi la semplificazione (perché le questioni vanno sempre sciolte, evidenziandone la complessità e i molteplici nessi di causalità/livelli di connessione): proprio nella cd. società della comunicazione e delle reti, che sono riproduzione ed estensione di quelle preesistenti all’interno dei sistemi sociali (1998), assistiamo – con qualche timido segnale di risveglio, che puntualmente si verifica dopo crisi e/o disastri (cfr. letteratura sul tema del capitale sociale e della fiducia) – all’indebolimento del tessuto sociale e di quei “dispositivi” che rendono possibile la coesione sociale (culture e modelli culturali compresi). Non a caso se, da una parte, abbiamo parlato di trasformazione antropologica, di nuovo ecosistema (1996) e di un individuo sempre più libero e autonomo (?), dall’altra, non abbiamo potuto fare a meno di rilevare come sia anche sempre più “isolato” nelle scelte e nel riferimento a sistemi di orientamento valoriale e conoscitivo, già di per sé indefiniti e frammentari. Tornano attuali, mai come ora, categorie concettuali come “anomia” (Durkheim) e “vuoto etico” (Jonas) e, forse, per provare a comprendere la “natura” complessa e ambigua del mutamento in atto, occorre ripartire proprio da quel progetto della modernità che ha prodotto non soltanto emancipazione, delle masse e delle “nuove soggettività”, ma anche “forze centrifughe” e disgreganti (Dominici 2003,2005,2014). È la Società Interconnessa (connessione vs. comunicazione) basata su un’economia politica dell’insicurezza (politiche, welfare etc.) e su opportunità che per ora riguardano, esclusivamente, élite e gruppi ristretti legati a saperi esperti (architettura aperta ma reti chiuse) (1998); anche su questo abbiamo lavorato molto ma c’è ancora tantissima strada da percorrere (assenza di politiche -> lungo periodo) e richiede un cambiamento culturale radicale che coinvolga più livelli. Inclusione, cittadinanza digitale, democrazia…società della conoscenza sono ancora ‘lontane’ e, sempre più spesso, l’impressione è che si navighi a vista, oltretutto con un preoccupante ridimensionamento della sfera dei diritti individuali e collettivi che viaggia di pari passo con il ruolo di una Politica sempre più marginale e sempre meno autonoma dalla sfera economico-finanziaria.

Il pericolo serio e concreto è quello di continuare a interpretare ed affrontare questa crisi, così drammatica, affidandosi a spiegazioni riduzionistiche e deterministiche e, contemporaneamente, sottovalutando la “questione culturale” e uno dei grandi “mali” del nostro tempo, ad essa correlato: l’indifferenza (1998).

 

Società dell’irresponsabilità e superamento della dicotomia tra formazione umanistica e scientifica

Come già accennato, nel 2009 ho condotto una ricerca a seguito del terremoto dell’Aquila – città cui sono molto legato e dove ho insegnato per lungo tempo – partendo da una studio empirico condotto su come la stampa e i media avevano raccontato il terremoto: recuperando un concetto e una definizione operativa proposti in passato, ho scelto come titolo di quella ricerca “La società dell’irresponsabilità” (rinvio ad un contributo pubblicato da LSDI – Libertà di Stampa Diritto all’Informazione: La Società dell’Irresponsabilità). Proprio a voler sottolineare, tra le numerose e correlate dimensioni, come ci troviamo in un contesto in cui atti e fatti, anche molto gravi, possono avvenire nel pieno rispetto delle leggi e delle normative, dell’osservanza formale e rigorosa delle regole e delle procedure.

Una dimensione, quella della responsabilità, che riguarda da vicino la libertà. E gli stessi concetti di libertà e responsabilità andrebbero ripensati in chiave relazionale, perché presuppongono il Noi, non l’Io. Ma una “cultura della responsabilità” non può/non potrà mai essere imposta dall’alto (così come l’etica), o veicolata attraverso sofisticate campagne di comunicazione/marketing; deve essere socialmente e culturalmente costruita fin dai primi anni di vita e, poi, di studio. Sono la Scuola, e le altre agenzie di socializzazione, le vere responsabili di questo processo così importante che riguarda direttamente anche le tematiche inerenti la legalità, la corruzione, la prevenzione, il rispetto dell’Altro da noi, il nostro vivere insieme etc.

Il tema della responsabilità è centrale e si riaggancia alle questioni precedentemente trattate. Complessità e pensiero sistemico presuppongono un’attenta valutazione delle variabili coinvolte e delle conseguenze. Essere educati alla complessità, al metodo scientifico, al pensiero critico e sistemico, porta con sé un’epistemologia dell’incertezza (Morin) e dell’errore (Dominici) e un’attenzione anche per il (noto) principio di precauzione. Superare la dicotomia tra formazione umanistica e formazione scientifica è troppo importante, dal momento che non possiamo più permetterci il lusso neanche di formare soltanto tecnici e questo proprio perché siamo in una civiltà ipertecnologica e perché le implicazioni della civiltà ipertecnologica sono sociali, politiche, culturali, riguardano tutti…le identità, le soggettività, la vita nel suo complesso. Il tema del cambio di paradigma non è uno slogan, in una frase potremmo dire che le straordinarie scoperte scientifiche di questi anni – la manipolazione genetica, l’intelligenza artificiale, la robotica, la possibilità di sostituire parti del corpo, le cellule staminali – ci obbligano a rivedere tutte le categorie, e le relative definizioni operative, a cominciare da quelle di coscienza e vita. Questo cosa mette in evidenza? Che mai come in questo momento l’evoluzione culturale è in grado di condizionare l’evoluzione biologica, per questo la tematica del cambio di paradigma è urgente.

 L’esigenza di ripensare i saperi, i percorsi, le logiche che animano la ricerca scientifica non è perché c’è l’intuizione di qualcuno ma perché la realtà ce lo richiede. È la realtà che è sempre più interconnessa e interdipendente, è la realtà che ci chiede di superare queste logiche di separazione.

 

Progresso tecnologico ed economico “condizioni necessarie” ma non “sufficienti” ad affrontare una crisi che è anche, e soprattutto, culturale e di civiltà.

 

La crisi contemporanea, infatti, riguarda da vicino i sistemi di orientamento valoriale e conoscitivo, le credenze e le pratiche condivise, i meccanismi sociali della fiducia e della cooperazione su cui, non soltanto si fonda il legame sociale, ma poggia l’idea stessa di civiltà, di Persona, di dignità umana, di cittadinanza e di democrazia. Ed è una crisi anche, e soprattutto, della comunicazione così come l’abbiamo intesa fin dal primo momento: processo sociale (complesso) di condivisione della conoscenza = potere (1996). Una crisi che riguarda tutti i livelli, da quello dei sistemi sociali a quello delle organizzazioni complesse, per arrivare al livello delle relazioni sociali e della mediazione simbolica. Ad essere tirate in ballo anche le identità e le soggettività e, come detto più e più volte anche in passato, è quanto meno paradossale che tutto ciò si verifichi proprio nella cd. società globale della comunicazione. Questa, una delle ragioni per cui ho preferito parlare di “società interconnessa” (comunicazione vs. connessione), sforzandomi di fornirne una definizione operativa chiara (altrimenti si scade, come spesso capita in queste aree di studio e ricerca, nel puro “nominalismo” e/o nella parola-chiave/neologismo più alla moda), che ponesse l’attenzione sul ruolo delle asimmetrie informative e conoscitive, sui rapporti di potere (1995), sulle logiche di controllo e sorveglianza sempre più stringenti che caratterizzano quella che, diversi anni fa, avevo definito la società ipercomplessa; una definizione operativa che prendesse le mosse dalla profonda consapevolezza che, in qualsiasi campo della prassi sociale e umana, la sempre più crescente interdipendenza dei sistemi e l’accumulo di informazioni (dis-informazione) non determinano e non garantiscono produzione e condivisione di conoscenza, anzi… (Dominici 1998, 2003). Una “risorsa”, quest’ultima, indispensabile ed unica (parliamo, non a caso si parla di economia della conoscenza) che – la dico così – non se la passa troppo bene anche a causa della radicale parcellizzazione dei saperi e delle competenze, nonché dell’eccessiva specializzazione che, di fatto, contribuisce ad isolare e deresponsabilizzare gli individui all’interno delle organizzazioni e, più in generale, dei sistemi sociali (temi su cui sono tornato spesso e sui quali non si improvvisa -> scuola, università, logica della torre d’avorio, educare e formare alla complessità, competenze per la complessità etc.).

 

Definire e costruire una “cultura della cittadinanza e dell’inclusione”

Insomma, in altre parole, stiamo ragionando, non soltanto sulle condizioni che possono rendere effettivi processi complessi come quelli riguardanti l’inclusione e la cittadinanza, ma anche sull’opportunità e la necessità di lavorare, all’interno di una prospettiva sistemica e di logiche di rete, sulla definizione e costruzione di una “cultura della cittadinanza e dell’inclusione”. La stessa crescita del Paese (ma di qualsiasi Stato-Nazione), che è questione cruciale non spiegabile e gestibile ricorrendo al solo paradigma economicistico (la globalizzazione l’ha ampiamente dimostrato), ne trarrebbe enormi vantaggi. Il nostro Paese è segnato da una “questione culturale” che – mi ripeto – si pone al di là del quadro giuridico, normativo e deontologico-professionale e che chiama in causa la libertà e, con essa, la responsabilità (concetti relazionali) degli attori sociali, individuali e collettivi: in tal senso, l’esigenza di educare all’empatia, alla libertà, alla responsabilità (e, sia chiaro, si può fare!), si traduce in “urgenza” proprio perché la cd. “questione culturale” ha radici molto profonde nella crisi delle istituzioni educative e formative, nella debolezza e inadeguatezza degli attuali processi educativi, nell’urgenza di ripensare l’educazione (e poi la formazione) per quella che ho definito, in tempi non sospetti, “Società Ipercomplessa”.

Ripensare l’educazione andando oltre le “false dicotomie” (Dominici 2000 e sgg.) è questione di primaria importanza, e lo è in una prospettiva che non può che essere quella della complessità, del pensiero critico e di una visione sistemica che non sono, in alcun modo, esaurite e sviluppate da percorsi didattico-formativi sempre più incentrati su certe (drammatiche e, per certi versi, devastanti) separazioni, non ultime quella formazione umanistica e formazione scientifica, tra umano e tecnologico, tra tecnologia e cultura. Oltretutto, il civismo, l’educazione alla cittadinanza, un’etica condivisa e un modello culturale e identitario forte sono “dispositivi” fondamentali per la stessa sopravvivenza dei sistemi sociali e organizzativi. Anche, e soprattutto, perché ETICA e MORALE NON SI IMPONGONO. Si tratta di processi che – come detto – chiamano in causa molteplici variabili e richiedono profili e competenze costruite sul campo. Tali questioni, peraltro, non riguardano sole le tematiche dell’inclusione e della cittadinanza: ad esempio, continuo a pensare che anche la “vera” prevenzione si fa, si costruisca a scuola e servono politiche (lungo periodo). Propongo, in questa linea di discorso, alcune considerazioni per sottolineare l’assoluta rilevanza delle questioni riguardanti educazione e istruzione.

Il nostro è un Paese dal quadro normativo e legislativo complesso e articolato: esistono molte leggi (forse, troppe), codici professionali, carte deontologiche, linee guida, sistemi di regole formali, sistemi di orientamento valoriale e conoscitivo. Eppure questi “strumenti” continuano a rivelarsi condizione necessaria ma non sufficiente proprio perché esiste una dimensione, cruciale e fondante allo stesso tempo, che è quella della responsabilità: un concetto che va assolutamente ridefinito in chiave relazionale; una dimensione che sfugge a qualsiasi tipo di “gabbia” e/o sistema/dispositivo di controllo, perché attiene alla libertà delle Persone (altro discorso da approfondire, legato al tema dell’emancipazione nella modernità: interessante il concetto di “libertà generativa”). E da questo punto di vista, come non essere d’accordo con la definizione di “società degli individui”: una società (noi) nella quale molti individui (appunto) sentono di non dover rispondere a nessuno dei loro atti, tanto meno ad una “comunità” i cui legami si sono fortemente indeboliti (e, non a caso, c’è chi parla di fine del legame sociale). Qualche anno fa, intitolai un mio libro “La società dell’irresponsabilità” proprio per connotare questa condizione critica, ricollegabile solo in parte alla crisi economica (o ad indicatori di tipo economico): la “questione culturale” mette in luce, ancora una volta, non solo la crisi delle istituzioni formative, ma anche la debolezza dei vecchi apparati e delle vecchie logiche di controllo e repressione che non hanno mai risolto i problemi alla base; che sono sempre strategie di “breve periodo” (cultura dell’emergenza vs. cultura della prevenzione, a tutti i livelli e in tutti i settori della prassi). Un Paese che, ai limiti del paradosso, è fondato culturalmente sul “principio di irresponsabilità” (Dominici 2003 e 2009), oltre che su una diffusa incoerenza dei comportamenti (ricordo sempre la formula etica vs etichetta); un’irresponsabilità diffusa in tutti i settori, compresi quelli della comunicazione e dell’informazione, a dir poco vitali per la qualità della stessa democrazia; un’irresponsabilità diffusa vera cifra della “questione culturale”, che legittima chi aggira le leggi, le regole e, perfino, le norme sociali condivise (cultura della furbizia); un’irresponsabilità diffusa che trova il suo ecosistema ideale in un contesto storico e in clima culturale che esaltano sempre chi antepone l’interesse particolare a quello generale e al “bene comune”.

Si pensi, in tal senso, anche alla metastasi della corruzione che, come la cronaca degli ultimi decenni ha messo in luce, coinvolge non soltanto la cd. “casta”, bensì ampi settori della società civile che, probabilmente, continuano a credere nonostante tutto di poter avere vantaggi dalla “casta” stessa; un’irresponsabilità che si articola anche in comportamenti eticamente scorretti e non attenti neanche al principio di precauzione.

Dunque, un’irresponsabilità diffusa che rende socialmente accettabile la violazione di leggi e norme e che affonda le sue radici anche in una certa “cultura della furbizia” che, talvolta, inconsapevolmente viene elaborata e diffusa proprio nei luoghi deputati alla socializzazione ed all’educazione della Persona. Accade così che la soluzione ai problemi, per certi versi inevitabile (ma, evidentemente, non è l’unica strada percorribile), sia sempre la medesima: il continuo ricorso a leggi e normative sempre più rigide e stringenti: intendiamoci bene, si tratta in molti casi di condizioni necessarie, addirittura fondamentali ma, come ampiamente dimostrato dalla storia sociale, politica ed economica non soltanto di questo Paese, si tratta di condizioni/fattori non sufficienti. Dobbiamo confrontarci con una “natura” intrinsecamente problematica e complessa dei sistemi sociali, non più riconducibile alle sole categorie (significative) di rischio, incertezza, vulnerabilità, liquidità etc. A ciò si aggiunga che, quasi paradossalmente, mai come in questi anni si è discusso (e si discute) di etica e di responsabilità in tutti i campi dell’azione sociale (dalla politica alla cultura, dall’informazione all’innovazione scientifica e tecnologica etc.).

Si potrebbe semplificare tale paradosso con la “formula”: trionfo dell’etichetta sull’etica. Paese di paradossi e contraddizioni (non soltanto sul piano culturale): da una parte, per ogni “nuovo” problema si invocano subito nuove leggi, nuovi codici deontologici, nuove prescrizioni, nuovi divieti; dall’altra, culturalmente, consideriamo quelle stesse leggi, norme, “regole” come un ostacolo alla nostra autoaffermazione ed al nostro successo/prestigio sociale. D’altra parte, ciò che spesso sembra venire a mancare è proprio la coerenza dei comportamenti che, comunicativamente parlando, risulterebbe (è!) molto più efficace delle parole e dei principi spiegati attraverso un linguaggio, più o meno, politicamente corretto. Appare evidente come siamo di fronte ad una vera e propria “emergenza educativa” – anche se non amo questa parola che ben rappresenta quella cultura, tuttora egemone, che sa affrontare qualsiasi problema soltanto con provvedimenti eccezionali e saltuari (dalla sicurezza al lavoro, dalla salute alla violenza, dalle forme di discriminazione al bullismo, dalla corruzione all’illegalità) – legata ad una molteplicità di fattori e variabili, che hanno determinato una trasformazione profonda dei processi di socializzazione ed una crisi delle tradizionali agenzie/istituzioni deputate all’interiorizzazione dei valori ed alla formazione delle personalità/identità (riconoscimento – rispetto – altruismo – senso civico – cittadinanza vissuta e non subita/eterodiretta). Mi riferisco, in tal senso, al concetto di “policentrismo formativo” ed alla divaricazione del ventaglio dell’offerta educativa e formativa. Questo Paese non riuscirà a ripartire senza affrontare seriamente tali problematiche. Stiamo discutendo, in altri termini, dei “cittadini di domani” che corrono seriamente il rischio di continuare a crescere e socializzarsi ad una cultura della furbizia, dell’illegalità e/o del familismo amorale (apparentemente?) dominante: e tutto questo all’interno di quel famoso modello sociale e culturale “feudale” di cui abbiamo parlato, che ha sempre lasciato poco spazio alla mobilità sociale verticale.

 

Fondamentale, ripartire da educazione e istruzione

Fondamentale, quindi, ripartire da educazione e istruzione, (e, di conseguenza, da formazione e ricerca), basandole però su una ridefinizione della “qualità” della relazione tra gli attori dell’ecosistema educativo, formativo e comunicativo – nel rispetto dei reciproci ruoli (genitore, insegnante, docente etc.) – oltre che, evidentemente, sulla preparazione e sulle competenze. E, nel lungo periodo, per far questo abbiamo bisogno di “teste ben fatte” (Montaigne), e non di “teste ben piene”, che sappiano organizzare le conoscenze all’interno del nuovo ecosistema cognitivo (2005), altrimenti non si tratterà di “vera” innovazione, cioè quella sociale e culturale. E, come scrissi qualche anno fa, sarà la “società dell’ignoranza” e dell’incompetenza (non solo digitale…): una società edificata sul paradosso e, a livello culturale, su una mancata e fuorviante distinzione tra libertà ed uguaglianza. In tal senso, pagheremo ancora a lungo la sostanziale inadeguatezza dei nostri percorsi didattico-formativi, tuttora progettati e realizzati sulla miope, oltre che disastrosa, separazione tra le “due culture”, quella scientifica e quella umanistica, sia a livello scolastico che universitario. A livello pratico e operativo, non posso non tornare a richiamare l’urgenza di politiche di lungo periodo in grado di innescare e supportare il cambiamento culturale e, anche in questo caso, la centralità strategica di scuola, istruzione, università è fuori discussione! Da questo punto di vista, per ciò che concerne quella che ho definito la “società interconnessa”, l’orizzontalità e la democraticità delle procedure e dei sistemi non possono essere garantite dalla tecnologia in sé e per sé, dal momento che a fare la differenza sono/saranno sempre il fattore umano e la qualità delle relazioni sociali e dei legami di interdipendenza, dentro e fuori i sistemi sociali; dentro e fuori le organizzazioni complesse.

Per approfondire ulteriormente, augurandomi possano interessarvi, condivido, come sempre, altri saggi e contributi, divulgativi e non:

P.Dominici , Scuola digitale, – Come educare ad una cittadinanza matura e non eterodiretta, pubblicato su ForumPA il 01/04/2016

 

Educare alla complessità per affrontare i dilemmi della società ipercomplessa

intervista, Nella società ipercomplessa, la strategia è saltare le separazioni, VITA, 09/06/2017

Piero Dominici, L’Umano, il tecnologico e gli ecosistemi interconnessi: la reclusione dei saperi e l’urgenza di educare e formare alla complessità, Il Sole 24 Ore – 11/10/2016

Piero Dominici, Il grande equivoco. Ripensare l’educazione (#digitale) per la Società Ipercomplessa, Il Sole 24 Ore – 08/12/2016

Intervista, La cultura della complessità come cultura della responsabilità, Huffington Post, 05/05/2017

Piero Dominici, Educare alla complessità per un’etica della responsabilità: libertà e “valori” nella Società Interconnessa, Il Sole 24 Ore – 02/06/2015

Piero Dominici, Il diritto alla filosofia per ripensare l’educazione, la cittadinanza e l’inclusione, Il Sole 24 Ore – 23/04/2017

Piero Dominici, Innovazione e domanda di consapevolezza: la filosofia come “dispositivo” di risposta alla ipercomplessità, Il Sole 24 Ore – 14/03/2016

 

Un approccio e percorsi di ricerca dal’95

#CitaregliAutori

Abitare la complessità: tra riduzione e semplificazione https://mapsgroup.it/complessita-professor-dominici-parte2/ via #6Memes #MapsGroup

A.A.A. cercansi manager della complessità http://www.businesspeople.it/Storie/Attualita/Manager-della-complessita-PIero-Dominicini-109480 intervista via #BusinessPeople

Intervista concessa a VITA: “Nella società ipercomplessa, la strategia è saltare le separazioni” http://www.vita.it/it/interview/2017/06/09/nella-societa-ipercomplessa-la-strategia-e-saltare-le-separazioni/119/

Intervista concessa all’Huffington Post: “La cultura della complessità come cultura della responsabilità” http://www.huffingtonpost.it/2017/05/04/al-festival-della-complessita-la-lezione-di-piero-dominici-il_a_22069135/

 

Due tra le pubblicazioni scientifiche #PeerReview:

For an inclusive innovation. Healing the fracture between the human and the technological in the hypercomplex societyhttps://link.springer.com/article/10.1007/s40309-017-0126-4

Controversies on hypercomplexity and on education in the hypertechnological era: https://benjamins.com/catalog/cvs.15.11dom

 

Su tali temi e questioni sto lavorando e facendo ricerca anche con la World Academy of Art and Science e nell’ambito di altri progetti internazionali. Buon lavoro e buona ricerca a tutte/i!

 

Ps: Impegni e scadenze non mancano, ma ribadisco la mia disponibilità a lavorare su progetti di ricerca (nazionali e internazionali) relativi a tali tematiche.

Di seguito, alcuni contributi divulgativi:

#Research #Education #Complexity #Educazione #Complessità #Cittadinanza #Democrazia

Importante cambi il clima culturale su certe questioni (vitali). Speriamo si scelgano anche altre direzioni e si pensi, finalmente, al “lungo periodo”. Lo dicono tutti, ora…lo dicono…come tutti si sono accorti della centralità strategica di istruzione, educazione, formazione, ricerca…speriamo bene…

Ripeto ogni volta: siamo sulle ben note “spalle dei giganti”, con problemi di vertigini e, tuttora, poco consapevoli della (iper)complessità del mutamento in atto e del “tipo” di scelte che questo richiede…

 

Ripensare l’educazione (1995 e sgg.). Cosa significa? Quali le implicazioni?

Come ripensare l’educazione nella civiltà globale e iperconnessa

In estrema sintesi: superando la dimensione superficiale e propagandistica degli slogans ad effetto, oltre che di certo storytelling, ripensare l’educazione significa  rimettere al centro la Persona (le nuove soggettività e il loro sistema di relazioni), l’umano, i vissuti, le emozioni –  andando oltre la “falsa dicotomia” che le contrappone al pensiero (Dominici, 1995, 1998 e sgg.); sì, proprio quelle emozioni che sono alla base della stessa razionalità; significa, allo stesso tempo, rimettere al centro l’immaginario/gli immaginari, l’immaginazione, la creatività, l’autenticità, la vita e il vitale, dimensioni complesse che non possono essere, in alcun modo, né ingabbiate/recluse  né tanto meno oggettivate in numeri e/o formule matematiche (pur sempre utili); ripensare l’educazione significa riportare/rilanciare l’educazione (senza aggettivi prima o dopo la parola) sempre nella prospettiva sistemica di un’educazione socio-emotiva che, in ogni caso, non ne esaurisce la complessità e l’ambivalenza; significa rilanciare  la filosofia, come pratica filosofica e di pensiero critico, e l’educazione al metodo scientifico (che è un “qualcosa” che caratterizza non soltanto le cd. scienze “esatte”), fin dai primissimi anni di scuola (1996); significa (ri)mettere al centro dei processi educativi e dei percorsi didattico-formativi l’arte, la poesia, le discipline creative (p.e. il teatro à empatia, la musica, il design etc.) e le cosiddette Digital Humanities.

Ripensare l’educazione significa aprire le istituzioni educative e formative, ridefinendone logiche e culture organizzative, ridefinendone logiche e funzioni degli spazi, dentro ecosistemi sempre più interconnessi e interdipendenti.

Ripensare l’educazione significa, in altri termini, “recuperare le dimensioni complesse della complessità educativa” (Dominici, 1995 e sgg.), sia a livello di scuola che di università (àsi pensi sempre alla formazione dei formatori e al lungo periodo). Di fondamentale importanza riaffermare, una volta per tutte, la consapevolezza che il processo educativo non consiste soltanto nel portare a “sapere” ed a “saper fare”; l’educazione è un processo complesso, sistemico, incerto, imprevedibile fino in fondo, ambiguo, inarrestabile e dinamico. Stiamo correndo seriamente il rischio di svuotare di senso tutta la prassi educativa, alimentando e riproducendo un pensiero omologante e omologato.

https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/ripensare-leducazione-nella-civilta-iperconnessa-cosa-significa/

 

La vita (e la comunicazione) ridotta a strategia…tra complessità e riduzionismi

La comunicazione, e la sua complessità, ridotta a regole e tecniche…La vita (sociale, relazionale) ridotta a strategia…La vita, e non soltanto la comunicazione, ridotte alla capacità e all’abilità di gestire la nostra visibilità, di gestire una vita fatta di tanti piccoli attimi che, all’improvviso, possono diventare eventi ma anche “spaccati” di vissuti e di noi stessi e delle persone a noi care/vicine. Spesso proprio quelli che (soltanto ora) parlano/scrivono/si sono accorti dell’importanza di #educazione, #PensieroCritico, #complessità, #comunicazione e della centralità della #Personahanno ridotto proprio la relazione con l’Altro e la stessa comunicazione, a qualsiasi livello e in qualsiasi ambito, esclusivamente a #strategia (i “comportamenti” nei social sono davvero emblematici di ciò che avviene da sempre e ben evidenziano ciò che sostengo da anni), a #marketing, ad un insieme di #regole e linee guida che, di fatto, pur semplificando/agevolando/facilitando (almeno in apparenza), ne svuotano il senso complessivo e la complessità stessa. Un approccio (?) perfettamente calato, nel tempo, dentro i processi educativi e formativi. Da questo punto di vista, fate caso a come tutti, attualmente, parlino e scrivano di complessità salvo poi scegliere le tradizionali vie della semplificazione confusa con banalizzazione e la facilitazione che esclude invece di includere, per non parlare delle altrettanto tradizionali spiegazioni riduzionistiche e e deterministiche. Come detto, un’impostazione ed una visione calate anche nei processi educativi e di costruzione della Persona: rendere tutto semplice/facile/banale e, possibilmente, trarre sempre il massimo dalla relazione con l’Altro, cercare sempre l’utile, il ritorno, cercare sempre il vantaggio, partendo sempre dalla convinzione di essere dalla parte giusta.

Ripeto ogni volta: il confine tra educazione/formazione e indottrinamento/persuasione/manipolazione è sempre più sottile. E, come ripeto da tempi non sospetti, c’è una questione profonda di “cultura della comunicazione”.

Dinamiche e processi sociali hanno nella loro varietà, nella pluralità ed eterogeneità, nell’imprevedibilità e nell’ambivalenza, la loro ricchezza e il senso più profondo. Ma quale dialogo (tutti ne parlano ma il dialogo è “roba” impegnativa e non pura convivialità), ma quale incontro/confronto/conflitto con l’Altro, ma quale relazione, ma quale “centralità della Persona” se, appunto, tutto è ridotto/ricondotto a strategia, obiettivi precisi e specifici, regole e schemi presentati come assoluti e universalmente validi, se tutto è ridotto esclusivamente al problema dell’efficacia, della visibilità, del convincere e/o, magari, strumentalizzare l’Altro (magari in maniera gentile e non arrogante…). La vita e la comunicazione (complessità, relazione, mediazione del conflitto, esaltazione della contraddizione e del pluralismo à democrazia) con l’Altro, ancora una volta, ridotte a strategia, a tecnica/insieme di tecniche” della comunicazione e della persuasione…

L’Altro, ancora una volta, identificato con l’utilità e l’interesseQuestione culturale ed educativa e, forse, dovremmo smetterla di scaricare, come sempre, la responsabilità su media e social...Le questioni sono molto più profonde e complesse, nonostante ci rassicuri molto ricorrere a certe spiegazioni.

Sempre sulle questioni legate alla complessità, condivido saggio pubblicato per #Treccani:

La complessità della complessità e l’errore degli errori (cit.) http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/digitale/5_Dominici.html

E contributo per Il Sole 24 Ore: Educare alla complessità…perché “Democrazia è complessità” (1995): https://pierodominici.nova100.ilsole24ore.com/2018/06/03/educare-alla-complessitaperche-democrazia-e-complessita-1995/

 

Un approccio e percorsi di ricerca dal’95.

#CitaregliAutori

 

N.B. Condividete e riutilizzate pure i contenuti pubblicati ma, cortesemente, citate sempre gli Autori e le Fonti anche quando si usano categorie concettuali e relative definizioni operative. Condividiamo la conoscenza e le informazioni, ma proviamo ad interrompere il circuito non virtuoso e scorretto del “copia e incolla”, alimentato da coloro che sanno soltanto “usare” il lavoro altrui. Le citazioni si fanno, in primo luogo, per correttezza e, in secondo luogo, perché il nostro lavoro (la nostra produzione intellettuale e la nostra attività di ricerca) è sempre il risultato del lavoro di tante “persone” che, come NOI, studiano e fanno ricerca, aiutandoci anche ad essere creativi e originali, orientando le nostre ipotesi di lavoro.

I testi che condivido sono il frutto di lavoro (passione!) e ricerche e, come avrete notato, sono sempre ricchi di citazioni. Continuo a registrare, con rammarico e una certa perplessità, come tale modo di procedere, che dovrebbe caratterizzare tutta la produzione intellettuale (non soltanto quella scientifica e/o accademica), sia sempre meno praticata e frequente in molti Autori e studiosi.

Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle tante scorrettezze ricevute in questi anni. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da vent’anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede.

Buona riflessione e buona ricerca!

 

Immagine:  Pieter Bruegel il Vecchio, Margherita la Pazza (Dulle Griet o Mad Meg), 1563.

 

 

#PianoInclinato #QuestioneCulturale #inclusione #cittadinanza #LegameSociale #Persone #CentralitàdellaPersona #responsabilità #etica #culture