Un’inclusione per pochi. La civiltà ipertecnologica verso la società dell’ignoranza? (1996)

Come sempre, senza “tempi di lettura”

NB: Il testo è ricco di link e collegamenti ipertestuali e presenta, come sempre, dei percorsi bibliografici di approfondimento.

 

“L’innovazione è un tema cruciale per far fronte alle sfide della società ipercomplessa e della rivoluzione digitale, ma l’innovazione deve essere inclusiva e costruita dal basso e attraverso la negoziazione e può realizzarsi solo se fondata su sull’educazione e la formazione. Quando l’innovazione è calata dall’alto e segue vie esclusivamente legislative i rischi sono quelli di una “cittadinanza illusoria” e di una “innovazione tecnologica” senza cultura”. (cit. 1996 e sgg.)

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Una riflessione (e un’analisi) che non può non partire da alcuni brani estratti dalla recente pubblicazione del “Rapporto Istat sulla Conoscenza 2018” e da alcune premesse fondamentali che, purtroppo, non possono mai essere date per scontate.

«Il capitale di conoscenze derivante dall’istruzione amplia le opportunità di lavoro e di reddito personali (v. 6.2) e la performance delle imprese (v. 5.1, 5.2). Esso si riflette anche in una capacità accresciuta di cogliere gli stimoli culturali (v. 4.1), di utilizzare efficacemente la tecnologia (v. 4.2) e, più in generale, di decodificare la complessità delle informazioni (!), permettendo una maggior consapevolezza e, spesso, migliori condizioni di salute e una vita più lunga, anche a parità di altre condizioni…

L’Italia presenta un ritardo storico nell’istruzione rispetto ai paesi più avanzati. Nel 2016, la quota di persone tra i 25 e i 64 anni con almeno un titolo di studio secondario superiore ha raggiunto il 60,1%, con una leggera prevalenza femminile (62 a 58). Nonostante un aumento di 8 punti rispetto al 2007, questa quota resta inferiore di 16,8 punti percentuali rispetto alla media europea. Analogamente, le persone tra i 25 e i 64 anni con un titolo di studio terziario sono il 17,7%, pari a poco più della metà del rispettivo valore europeo (30,7%). Il ritardo italiano è in larga misura, ma non esclusivamente, dovuto alla scarsa istruzione delle coorti più anziane. Tra le persone tra i 25 e i 34 anni, il 73,9% ha almeno un titolo di studio secondario superiore, ma nell’Ue sono l’83,4%, con un differenziale di 9,5 punti. Per i titoli terziari il differenziale è di 12,6 punti (25,6% e 38,2% rispettivamente; v. 3.2).

I livelli di istruzione della popolazione adulta sono molto variabili sul territorio (…)» (p.44)

«L’Italia è un’economia industriale ad alto reddito ma anomala, perché caratterizzata, a confronto con le altre maggiori economie europee, da livelli di istruzione e competenze modesti, ancorché crescenti (v. 3.1, 3.2, 3.7). Specchio di queste caratteristiche sono l’incidenza meno elevata nell’occupazione di professionisti e tecnici e, in particolare, di personale con titolo universitario in queste categorie. Il nostro Paese, che insieme ai livelli d’istruzione contenuti è caratterizzato anche da una bassa intensità di ricerca e sviluppo e da un’attività brevettuale modesta (v. 2.1-2.2; 2.4), ha quindi fondato una parte importante del suo benessere su produzioni con un contenuto di conoscenze specialistiche relativamente limitato, facilmente replicabili a costi minori altrove».(p.11)

Ancora…

«[…] Al riguardo, il livello d’istruzione degli individui rappresenta una variabile che permette di abbracciare la maggioranza dei temi trattati nei Quadri tematici, perché risulta essere l’elemento che più influenza comportamenti e performance in una varietà di ambiti, da quello più ovvio delle competenze di base (v. 3.7), al coinvolgimento in attività creative (v. 2.9) e culturali (v. 4.1, 6.4, 6.6) anche in tarda età, alle abilità digitali e le attività svolte online (v. 4.2, 4.3): a titolo d’esempio, la diffusione dell’uso di Internet, primariamente legata all’età, è maggiore tra gli anziani istruiti che tra i giovani tra 16 e 24 anni. Nell’attività delle piccole imprese, inoltre, i livelli di istruzione di imprenditori e dipendenti risultano associati a quelli di sopravvivenza, alla collocazione sul mercato, alla propensione a innovare e all’adozione delle tecnologie dell’informazione (v. Capitolo 5)».(p.12)

Ancora…

«[…] D’altra parte, i quadri presentati nel Rapporto mostrano pure, da prospettive diverse, come l’origine degli individui (Paese di nascita, territorio, caratteristiche socio-economiche) influisca sui livelli di istruzione, l’accesso e i risultati conseguiti: nel 2016, oltre il 30% dei giovani italiani tra 25 e 34 anni ha conseguito un titolo universitario, mentre tra i residenti stranieri l’incidenza è del 10% e appena del 6% tra i maschi. Negli istituti professionali, dove affluiscono in prevalenza i figli di genitori meno istruiti, le competenze linguistiche e numeriche dei quindicenni sono drammaticamente inferiori a quelle dei loro coetanei liceali, e nel 2016/17 i tassi di passaggio all’università dei diplomati si arrestano all’11,3%, contro il 73,8% dei licei. Secondo i risultati dell’indagine Invalsi, nel Mezzogiorno anche i liceali hanno competenze molto inferiori rispetto ai colleghi delle regioni del Centro-nord».

Ancora…

«I paesi europei che hanno conseguito risultati migliori in termini di diffusione dell’istruzione universitaria hanno investito sull’orientamento, il mantenimento in corso e le opportunità, con minori percentuali di iscritti nel canale professionale e un sistema di borse di studio con una copertura molto ampia. Queste evidenze mostrano come il miglioramento del livello di istruzione della popolazione – l’aumento di frequenza e successo, in particolare nell’Università, e la qualità del servizio erogato, a tutti i livelli – rappresenti sicuramente ancora l’ambito privilegiato di intervento delle politiche per la conoscenza. Questo, per evitare che l’Italia si trovi ad arretrare sul terreno economico – come già nella crisi passata – e, insieme, per ampliare le opportunità delle persone, riducendo l’area di esclusione sociale determinata dalla conoscenza, in particolare quella digitale». (p.13)

Temi e questioni di cui ci siamo occupati spesso negli anni, di cui abbiamo parlato e scritto molto, anche in tempi non sospetti; quando tutti, ma proprio tutti (poi, come sempre, ci sono le eccezioni, poche per la verità) parlavano di una società dell’informazione e della conoscenza (quasi) pienamente realizzata, di un’economia della condivisione (sharing economy), di una società della condivisione finalmente fondata su collaborazione e cooperazione; di una “nuova” cittadinanza digitale, di innovazione aperta, di un’inclusione a portata di mano, di un sistema educativo all’avanguardia, di cittadini e consumatori “al centro”, perfino di una nuova democrazia etc. etc..; quando tutti, ma proprio tutti, ponevano l’attenzione soltanto sul progresso economico e tecnologico, mettendo in secondo piano, o non considerando affatto, altre dimensioni di vitale importanza. A livello di discorso pubblico (e di climi culturali), in pochi ad avere avuto una visione critica, in pochi ad aver richiamato l’attenzione sulla complessità delle questioni, sulle tante variabili da considerarsi, sulla necessità di pensare al lungo periodo (attualmente ne parlano tutti, salvo poi andare in direzione opposta); in pochi a dichiarare pubblicamente che le “cose” stavano andando in maniera differente (e non mi riferisco soltanto al periodo dei governi più recenti); un Paese, una classe politica e una classe dirigente che, da decenni, non hanno compreso, investito e puntato concretamente su istruzione, educazione e formazione (che andavano ripensate a fondo), mostrando anche poca consapevolezza della loro rilevanza strategica; dell’urgenza di rilanciarle in grande stile e investire, in maniera determinata e significativa, sulla ricerca. A maggior ragione, nell’era di una globalizzazione segnata da tanti paradossi, che continua ad alimentare asimmetrie e disuguaglianze. Oltretutto, nella totale assenza di politiche e di una visione complessiva e sistemica dei problemi (lungo periodo). E ne parlavamo già alla metà degli anni Novanta…

Di una cosa sono certo, anche se la speranza di essere smentiti c’è sempre: anche questa volta, “quelli che” sono stati autori e protagonisti, a tutti i livelli e in tutti i settori, di certe narrazioni e di certe scelte “strategiche” (e non mi riferisco soltanto ai partiti, anzi!), di certe descrizioni (apparentemente) “scientifiche” della condizione del Paese; quelli che hanno dettato l’agenda e i temi, pubblicando anche libri e centinaia di articoli su una società della conoscenza aperta e inclusiva, su un nuovo Rinascimento culturale e, ancor di più, digitale italiano, su un popolo che, come d’incanto, si era riempito di progettisti, di startupper e founder, di geni e di innovatori di ogni genere, di “nativi digitali” con capacità smisurate di apprendimento e conoscenza…ora, probabilmente, per l’ennesima volta, cambieranno posizione (e magari, in qualche caso, anche “feudatari” di riferimento), ma cadendo sempre in piedi, come se, nel frattempo, non fosse accaduto nulla e non avessero dovuto prendere atto che continuavano ad agire e raccontare una realtà ideale e idealizzata che trovava pochi riscontri, e con tanti interessi in gioco.

Mi ripeto spesso: altro che inclusione, altro che cittadinanza digitale, altro che società della conoscenza. Quella che si va configurando è sempre più un’innovazione per pochi… che rischia, concretamente, di tradursi in una “società dell’ignoranza” (Dominici, 1996, 2009 e sgg.) – evidentemente, “ignoranza” intesa come mancanza di istruzione e assenza di conoscenza (con riferimento anche alla sua creazione, trasmissione, accesso, condivisione, uso etc.) – con tanti, tantissimi esclusi (anche) dalle straordinarie opportunità offerte dalla cd. società della conoscenza.

Ci attende un lavoro immenso di cui ognuno, al di là delle logiche di sistema e delle strutture, deve farsi carico nell’ambito del proprio ruolo, delle proprie competenze e responsabilità.

Educazione è cittadinanza, educazione è possibilità di partecipazione, educazione è inclusione.

«Non ci può essere innovazione senza educazione e inclusione Parto da due presupposti “forti”, su cui ragiono e lavoro da tempo: non c’è, e non ci potrà essere, alcuna innovazione senza educazione, non c’è, e non ci potrà essere, alcuna innovazione senza inclusione. Come amo ripetere spesso: l’innovazione è processo complesso, anzi è complessità e non è assolutamente scontato che questa determini inclusione e/o che si configuri come un’opportunità per tutti, anzi spesso accade proprio il contrario. Come nel caso della cd. rivoluzione digitale, destinata a rimanere una straordinaria opportunità per pochi (per élites), oltre che a render ancor più evidenti certe distanze e asimmetrie, se non metteremo mano seriamente a educazione e formazione. In questa prospettiva di analisi, è evidente come istruzione, educazione, formazione siano/debbano essere gli assi portanti di un’innovazione che abbiamo definito “inclusiva”, e non semplici “strumenti” che arrivano a valle dei processi di mutamento per correggere traiettorie e discontinuità inattese e/o imprevedibili. Altrimenti, saremo sempre costretti a rincorrere le accelerazioni dell’innovazione tecnologica, con pochissime speranze di raggiungerla e, allo stesso tempo, di metabolizzarne i cambiamenti indotti. I rischi – come dico sempre – rimangono quelli di un’innovazione tecnologica senza cultura e di una illusione della cittadinanza (cit.): una cittadinanza e una partecipazione, non negoziate e costruite socialmente e culturalmente all’interno di processi inclusivi, bensì “simulate” e imposte dall’alto senza calarsi, completamente e concretamente, nelle prospettive e nei mondi vitali dei destinatari di queste azioni/strategie. Di coloro che sono chiamati a praticare/esercitare la cittadinanza e la partecipazione, alimentandole, co-costruendone le condizioni strutturali e socioculturali e ri-producendole costantemente». (cit.)

Le vie del cambiamento sociale e culturale sono lunghe e complesse e, purtroppo, al di là di grandi annunci e slogans ad effetto (non soltanto da parte della politica), continuiamo a navigare a vista

Ma, tra le tante questioni trattate in questi anni, non dobbiamo dimenticare come il cambiamento, l’innovazione e il pensiero sull’innovazione si alimentino anche, e soprattutto, dando voce a voci “altre”, voci autonome e sganciate dalle tradizionali reti e logiche di cooptazione.

In ogni caso, mi riservo di continuare a studiare con attenzione tutto il Rapporto Istat e di tornarci, come sempre, in maniera più articolata e approfondita. Di seguito il link al “Rapporto sulla Conoscenza 2018”:

https://www.istat.it/storage/rapporti-tematici/conoscenza2018/Rapportoconoscenza2018.pdf

 

“La conoscenza, diventata problematica, rende problematica la realtà stessa, che rende altrettanto problematica la mente produttrice della conoscenza, che oggi rende enigmatico il cervello produttore della mente”

Edgar Morin (2018)

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A proposito di “ripensare l’educazione”, di seguito il link ad una delle recenti pubblicazioni scientifiche internazionali, via European Journal of Future Research:

https://link.springer.com/article/10.1007/s40309-017-0126-4

 

Di seguito uno dei contributi di carattere divulgativo (2015), via Il Sole 24 Ore

L’egemonia di un modello feudale e l’assenza di un pensiero critico sul mutamento

Ne parlo ormai da tanti anni (ma autonomia e indipendenza spesso non pagano) e se ne comincia a discutere anche se – lo dico con rammarico – facendo sempre attenzione a non infastidire troppo il potere e la politica che ha poi la responsabilità di decidere: manca un “pensiero critico” sul mutamento in atto e, nello specifico, sull’innovazione e sul digitale. Manca un pensiero critico che sappia andare al di là sia delle narrazioni del potere (e della politica) che delle rappresentazioni mediatiche e delle reti esclusive*. Narrazioni e rappresentazioni che, in realtà, si rivelano sempre funzionali al mantenere i sistemi stabili e ordinati (almeno apparentemente), in una società (NOI, le strutture e le reti sociali) che è ancora profondamente feudale** e corporativa sia per ciò che concerne i meccanismi di reclutamento che i processi di inclusione (->assenza di mobilità sociale verticale). La rivoluzione digitale, le tecnologie della connessione (Dominici, 1996) e le architetture della Rete stanno modificando in profondità strutture ed ecosistemi, accrescendo la dimensione di ciò che è tecnicamente controllato (e controllabile) e, allo stesso tempo, deresponsabilizzando le persone all’interno dei processi organizzativi; tuttavia, difficilmente riusciranno a modificare un modello sociale e culturale che, per l’appunto, è ancora feudale e asimmetrico***. Un modello sociale e culturale che si traduce nella ricerca quasi ossessiva del definire un NOI sempre opposto e antitetico ad un VOI, nel definire chi “è dentro” da chi “è fuori” rispetto a certe reti; che si traduce nella ricerca, ancora una volta ossessiva, di definire confini, vincoli, reti (chiuse ed esclusive), perfino classifiche dei presunti “migliori” in tutti i settori e saperi esperti, di cui spesso fanno parte amici o, comunque, persone vicine per idee e appartenenze. A ciò si aggiunga, un primato della politica che, se da una parte, soffre il predominio/la sottomissione all’economia ed alla finanza, dall’altra, continua ad essere massimamente invasiva in tutte le sfere della prassi sociale e culturale. Il tutto all’interno di logiche di mera visibilità ed ETICHETTA che continuano ad essere dominanti e, almeno per ora, di successo. La questione culturale, in tal senso, è il vero ostacolo ad un cambiamento effettivo e sostanziale di lungo periodo (e su questo tema, rinvio a diversi articoli/contributi pubblicati negli anni). La nostra scuola e la nostra università – lo ripeto sempre – non educano e non formano alla complessità ed al pensiero critico e ciò rende ancor più complicato questo tipo di cambiamento culturale, anche nel lungo, lunghissimo periodo.

E sempre a proposito di conformismo….

Non posso non ripensare a diversi anni fa, ma anche più di recente, quando chi parlava di una crisi non tanto, o comunque, non soltanto economica, veniva quasi deriso sia in campo accademico che nel discorso pubblico. Si tratta di una riflessione che riguarda da vicino i “saperi esperti” esclusi dall’analisi e dalla gestione dei problemi e, più in generale, la ricomposizione della illogica, fuorviante e strumentale separazione tra formazione umanistica e formazione scientifica, su cui siamo tornati molte volte in passato. Attualmente tali discorsi stanno entrando nel dibattito pubblico – lentamente ci si arriva – ma il problema è che le tematiche devono, prima, essere/diventare “alla moda”. Ciò che colpisce di più è che, proprio coloro che hanno sempre considerato solo le “variabili” economia e progresso tecnologico (e i relativi indicatori) per analizzare la crisi e gestire il mutamento, sono gli stessi che, oggi, si presentano quasi come unici “depositari” di analisi e intuizioni, non soltanto contraddittorie rispetto alle precedenti, ma che altri hanno fatto, prima di loro, non ascoltati per tanti fattori – che chiamerò – ‘culturali’. Stesso discorso sul digitale e sulla digitalizzazione: fino a poca fa, la narrazione egemone era “il digitale e la digitalizzazione risolveranno ogni problema (dalla corruzione alla partecipazione dei cittadini)”… “unico problema il digital divide”… “Rete = orizzontalità, partecipazione, libertà, cittadinanza”…perfino sulla scuola: introdurre “strumenti” digitali migliorerà tutto, apprendimento e prestazioni, capacità di analisi...chi non capisce è un apocalittico, si oppone al cambiamento etc.; ora che, lentamente, ci si sta rendendo conto che le questioni sono un po’ più complesse (noi, invece, siamo bravi a renderle complicate), cambio di rotta! Ben venga – ci mancherebbe altro – ma, almeno ogni tanto, una piccola ammissione da parte di questi (super)esperti di tutto e guru vari…invece, come se niente fosse, loro “l’avevano già detto” (per fortuna, dichiarazioni, articoli e, talvolta, libri, pubblicazioni, scientifiche e non, sono lì…). Tutto ciò che dicono e scrivono è sempre farina del loro sacco (ricordo sempre che la conoscenza è processo sociale di acquisizione intersoggettiva…siamo sempre in qualche modo sulla “spalle dei giganti”)… non citano mai i “veri” lavori che li hanno ispirati (uso un eufemismo), alcuni sono considerati quasi dei “profeti” (dei “visionari”… termine più alla moda) – possono essere accademici, giornalisti, blogger non fa differenza; qualunque cosa dicano/scrivano viene (spesso) passivamente accettata e presentata come “verità” rivoluzionaria, pur antitetica a quella precedentemente sostenuta. In qualche caso, se parlano inglese meglio ancora, neanche se ne valuta il rilievo e lo spessore critico, insomma andiamo molto per “etichette” e “brand”. Da questo punto di vista, conformismo e meccanismi di omologazione – “dispositivi” importanti e funzionali alla coesione dei sistemi sociali e delle organizzazioni – ne escono ulteriormente rafforzati anche per l’incoerenza di tanti attori (studiosi, intellettuali, leaders d’opinione etc.) che, al contrario, dovrebbero operare per decostruirli o, quanto meno, metterli in discussione.

In prospettiva futura, la mancanza di educazione alla complessità e di una formazione critica è ancor più devastante, perché abilita i cittadini di domani soltanto ad osservare e descrivere le dinamiche e i fenomeni in cui sono coinvolti, sempre ammesso che abbiano un metodo per selezionare le informazioni e/o analizzare i dati, dandogli sistematicità. Lo ripeterò sempre… fino alla nausea: si può essere sudditi anche in democrazia, ma – e qui la consapevolezza che, a mio avviso, manca – abbiamo tutte/i delle responsabilità nell’alimentare conformismo, stereotipi, pregiudizi (di qualsiasi genere), nel consolidare le strutture di una società asimmetrica* (Dominici), chiusa, corporativa, in molti casi incapace di creare concretamente opportunità che non riguardino élite e gruppi ristretti; incapace di creare quegli “anticorpi” necessari per innescare le dinamiche di cambiamento, ma soprattutto innescare l’innovazione che è processo complesso e che richiede il coraggio di rendere instabile qualcosa che è sempre stabile e ordinatamente rassicurante (culture e modelli culturali)

Altra considerazione: non ci possono e non ci potranno mai essere inclusione, cittadinanza e “vera” innovazione (sociale e culturale, non soltanto tecnologica) fino a quando il conformismo (e le forze dell’omologazione) – da sempre pre-requisito fondamentale per l’esistenza delle organizzazioni e la coesione dentro i sistemi sociali – è/sarà così esteso e pervasivo all’interno del tessuto sociale e delle organizzazioni. Soprattutto in una fase così delicata, segnata dalla crisi dei valori della Comunità e dei legami sociali, dal trionfo dell’indifferenza e di sentimenti di anti-socialità, il conformismo si presenta di fatto come il collante sociale più importante: un collante che mantiene l’ordine e l’equilibrio ma, contemporaneamente, impedisce, o quanto meno rallenta, il cambiamento ed un’innovazione sociale realmente aperta e inclusiva.

L’innovazione implica un cambiamento profondo anche e soprattutto nel modo di vedere, osservare, comprendere i fenomeni, i processi, gli oggetti, le “cose” (->prospettiva sistemica): innovare significa (anche) avere il coraggio di destabilizzare qualcosa che è profondamente stabile, radicato, ordinato e, per certi versi, ideale. Innovare costituisce sempre una sfida (essenziale)che comporta l’abbandonare certezze, visioni consolidate e comportamenti rituali, liberarsi perfino dalla stessa idea che le “cose” si fanno in un certo modo perché così ha sempre funzionato. Storicamente (poi, lo so, ci possono essere delle eccezioni), coloro che sono al potere e hanno la responsabilità del decidere, anche a livello di organizzazioni semplici, difficilmente possono essere motivati/interessati ad innovare concretamente, proprio perché le dinamiche dei processi innovativi non possono che rendere meno stabili e controllabili le situazioni in cui sono coinvolti e il contesto. E’ sempre il fattore culturale ad essere determinante sia nella statica che nella dinamica di sistemi sociali e organizzazioni complesse.

 

Allego e segnalo alcuni articoli e contributi:

  • Tra conoscenza e controllo sociale (spunti per una lettura critica)

http://pierodominici.nova100.ilsole24ore.com/2014/11/05/tra-conoscenza-e-controllo-sociale-spunti-di-riflessione-per-una-lettura-critica/

  • “Per un’innovazione inclusiva**: ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico”

http://www.techeconomy.it/2016/02/25/uninnovazione-inclusiva-ricomporre-la-frattura-lumano-tecnologico/

  • “Innovare significa destabilizzare”. Perché la (iper) complessità non è un’opzione

http://www.techeconomy.it/2016/04/05/innovare-significa-destabilizzare-perche-la-iper-complessita-non-unopzione/

  • “Il grande equivoco. Ripensare l’educazione (#digitale) per la Società Ipercomplessa”

http://pierodominici.nova100.ilsole24ore.com/2016/12/08/il-grande-equivoco-ripensare-leducazione-digitale-per-la-societa-ipercomplessa/

  • “La società asimmetrica* e la centralità della “questione culturale”: le resistenze al cambiamento e le “leve” per innescarlo”

http://pierodominici.nova100.ilsole24ore.com/2015/09/23/la-societa-asimmetrica-e-la-centralita-della-questione-culturale-le-resistenze-al-cambiamento-e-le-leve-per-innescarlo/

  • “L’ipercomplessità e una crisi non soltanto economica. Ripensare il sapere e lo spazio relazionale”

http://pierodominici.nova100.ilsole24ore.com/2015/07/03/lipercomplessita-e-una-crisi-non-soltanto-economica-ripensare-il-sapere-e-lo-spazio-relazionale/

  • “La condizione del sapere nella società della conoscenza: tra condivisione e riproducibilità “tecnica”(?)”

http://pierodominici.nova100.ilsole24ore.com/2015/02/20/la-condizione-del-sapere-nella-societa-della-conoscenzatra-condivisione-e-riproducibilita-tecnica/

  • La comunicazione ridotta a marketing #PianoInclinato

http://pierodominici.nova100.ilsole24ore.com/2017/02/18/la-comunicazione-ridotta-a-marketing-pianoinclinato/

  • La Società interconnessa e il ritardo nella cultura della comunicazione

http://bit.ly/1HgiZ2k

  • Competenze e saperi per la Società Interconnessa: le due culture e la complessità

http://bit.ly/1QXZzkI

  • La cultura motore del cambiamento, ma anche agente di democratizzazione e cittadinanza

http://bit.ly/1qaeFYq  

 

Tra le interviste, condivido volentieri:

  • Intervista concessa a l’Huffington Post: “La cultura della complessità come cultura della responsabilità”

http://www.huffingtonpost.it/2017/05/04/al-festival-della-complessita-la-lezione-di-piero-dominici-il_a_22069135/

  • Intervista concessa a VITA: “Nella società ipercomplessa, la strategia è saltare le separazioni”   

http://www.vita.it/it/interview/2017/06/09/nella-societa-ipercomplessa-la-strategia-e-saltare-le-separazioni/119/

  • Intervista concessa a Morning Future: “La società ipertecnologica? Non ha bisogno di tecnici, ma di ibridi”

https://www.morningfuture.com/it/article/2018/02/16/professioni-manager-della-complessita-piero-dominici/212/

 

Qui di seguito, il contributo di Nello Iacono: “Rapporto Istat sulla conoscenza, come l’ignoranza sta affossando l’Italia”, via AgendaDigitale.eu

https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/istat-dal-rapporto-sulla-conoscenza-la-spinta-ad-strategia-nazionale/

P.s. Come dico sempre, non mi interessano le polemiche e il riferimento ai singoli partiti. La questione è ancor più profonda e complessa, al di là delle responsabilità della Politica che, non da oggi, sono evidenti.

#CitaregliAutori

 

Riferimenti bibliografici

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N.B. Condividete e riutilizzate pure i contenuti pubblicati ma, cortesemente, citate sempre gli Autori e le Fonti anche quando si usano categorie concettuali e relative definizioni operative. Condividiamo la conoscenza e le informazioni, ma proviamo ad interrompere il circuito non virtuoso e scorretto del “copia e incolla”, alimentato da coloro che sanno soltanto “usare” il lavoro altrui. Le citazioni si fanno, in primo luogo, per correttezza e, in secondo luogo, perché il nostro lavoro (la nostra produzione intellettuale) è sempre il risultato del lavoro di tante “persone” che, come NOI, studiano e fanno ricerca, aiutandoci anche ad essere creativi e originali, orientando le nostre ipotesi di lavoro.

I testi che condivido sono il frutto di lavoro (passione!) e ricerche e, come avrete notato, sono sempre ricchi di citazioni. Continuo a registrare, con rammarico e una certa perplessità, come tale modo di procedere, che dovrebbe caratterizzare tutta la produzione intellettuale (non soltanto quella scientifica e/o accademica), sia sempre meno praticata e frequente in molti Autori e studiosi. 

Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle tante scorrettezze ricevute in questi anni. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da vent’anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede.

Buona riflessione!

Immagine: opera di Banksy