“Non si può, semplicemente e immediatamente, vedere qualcosa di nuovo e di differente. Prima deve cambiare l’intero stile di pensiero, deve vacillare l’intera atmosfera intellettuale e deve venire meno la forza di un pensiero avente un’indirizzata prontezza. Deve sorgere una peculiare inquietudine intellettuale e un cambiamento e un cambiamento dei sentimenti del collettivo di pensiero, che soltanto creano a un tempo la possibilità e la necessità di vedere qualcosa di nuovo, di diverso”
Ludwik Fleck*
“Naturalmente associamo la democrazia con la libertà di azione, ma senza una libera capacità di pensiero alle spalle si arriva solo al caos”.
John Dewey
“La riforma del pensiero è un problema antropologico e storico chiave. Ciò implica una rivoluzione mentale ancora più importante della rivoluzione copernicana. Mai nella storia dell’umanità le responsabilità del pensiero sono state così enormi. Il cuore della tragedia è anche nel pensiero”.
Edgar Morin**
#CitaregliAutori
Una breve premessa che arriva da alcune pubblicazioni nel tempo…
“Tra cambiamento dei paradigmi e trasformazione antropologica (1996), stiamo assistendo/vivendo il ribaltamento dell’interazione complessa tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale* (ibidem): una questione profonda anche, e soprattutto, in termini di “cultura della comunicazione” (1998), resa ancor più complessa, e problematica, dall’assenza di un sistema di pensiero e di un modello teorico-interpretativo in grado di osservare, riconoscere e (provare a) comprendere l’ipercomplessità e l’irruzione, per certi versi, prepotente del caos” (Dominici, 1995, 1998 e sgg.)
“Accade così che questa nuova complessità sociale definisca le condizioni strutturali per l’affermazione di un sapere riflessivo che deve fare i conti con la crisi del pensiero, dei paradigmi conoscitivi e con l’incapacità di promuovere soluzioni accettabili. I sistemi di orientamento conoscitivo e valoriale si mostrano inadeguati rispetto ad una realtà sociale costantemente in evoluzione, costituita da sistemi complessi a loro volta segnati da un’estrema sensibilità alle perturbazioni, capaci di auto-organizzarsi e di evolvere in maniera tutt’altro che lineare e prevedibile” (Dominici 2005, 2014, 2019)
(Continuano) Tempi duri, molto duri, per il pensiero, per chi propone un pensiero e/o un sistema di pensiero, per chi “pensa” tentando di uscire da certe narrazioni fin troppo rassicuranti o, al contrario, catastrofistiche, per chi pensa concretamente (quasi un ossimoro di questi tempi) che, per ripartire (verbo da metafora meccanicistica) e pensare davvero al “lungo periodo” si debba/si sarebbe dovuto mettere mano, in maniera radicale, all’educazione e alla ricerca sull’educazione e la didattica; tempi duri, molto duri – ed, evidentemente, non mi riferisco soltanto a queste settimane di emergenza globale, così difficili e critiche – che hanno ridato fiato e forza a vecchie narrazioni semplificatrici, riduzionistiche e deterministiche, anche del digitale e della civiltà iperconnessa.
Tempi duri, durissimi, per chi continua ad insistere sul lungo periodo, sull’urgenza di creare una cultura della responsabilità e della prevenzione, ripartendo, evidentemente, mi ripeto ancora una volta, da educazione, formazione, ricerca; tempi duri, durissimi, per chi riflette e studia la crisi del pensiero (non delle parole e dei linguaggi), in atto da molto tempo, in tutte le sue sfumature e declinazioni. Una dimensione assolutamente sottovalutata, ormai da qualche decennio, anche perché il pensiero, il teorico (teoria vs ricerca/pratica, altra falsa dicotomia…si alimentano vicendevolmente), l’astratto, perfino la speculazione, oltre ad essere visti e percepiti, non soltanto dalle opinioni pubbliche, come del tutto “inutili”, sono destinati a “perdere”, comunque e sempre, nel confronto, peraltro fuorviante e ingannevole, con tutto ciò che è immagine, con tutto ciò che può essere visualizzato, rappresentato (un po’ quello che è successo, negli anni, ai libri di testo delle scuole) in dati e statistiche che – meglio, per chiarezza, esplicitarlo ogni volta – considero e sono fondamentali, e non soltanto per affrontare questa pandemia. Ma questa pandemia, questa serie di pandemie (come già scritto nelle scorse settimane), hanno messo in luce tutta una serie di inadeguatezze e vulnerabilità, individuali, soggettive, personali, sistemiche, strutturali etc. che, tuttavia, per tutta una serie di ragioni sociali, storiche e culturali (su cui siamo tornati spesso), continuiamo ad affrontare secondo approcci riduzionistici e deterministici. E, forse, evidentemente, per chi scrive, il ‘forse’ si potrebbe anche eliminare, questa è una fase di crisi (attraversamento/passaggio/transizione) del pensiero (anche l’amico Edgar Morin è tornato su questa dimensione fondante) e di assenza di un “sistema di pensiero” (Dominici 1995, 1996 e sgg.), che arriva da molto lontano.
È a questo livello dell’analisi che si comprende bene e si può avere l’ennesima conferma, ancora una volta, di quanto tutti i “discorsi” sul cambio di paradigma, sulla trasformazione antropologica, sull’importanza delle contaminazioni tra i saperi e tra le competenze; sull’importanza della filosofia e della formazione umanistica-politico-sociale, sull’urgenza di ricomporre la frattura tra l’Umano e il Tecnologico (cit.), tra la formazione umanistica e la formazione scientifica; sull’approccio alla complessità e l’urgenza di una visione sistemica; sull’importanza di un’innovazione inclusiva e di costruire una cultura del digitale etc. etc. … e potrei continuare all’infinito; dicevo… (si comprende bene e si può avere l’ennesima conferma) di quanto tutti i discorsi, più o meno illuminati, di questi anni su questi argomenti fossero soltanto, nella migliore delle ipotesi, buone intenzioni in cui non si è mai creduto seriamente. Temi e questioni alla moda da cavalcare per mostrarsi pronti e preparati su tutto e a tutto. Stiamo vedendo tutti come procede, fino alla prossima emergenza.
Le conseguenze di questa sottovalutazione/non considerazione non sono, evidentemente, per chi pensa o prova a porre la questione dell’urgenza di un pensiero “altro” (passatemi la semplificazione “vero”) e/o di un “sistema di pensiero” – che, mi ripeto, deve andare di pari passo con la riforma radicale di educazione e didattica; non sono per chi studia e fa ricerca su tali temi e questioni che, ancor di più, se sganciato, autonomo e indipendente dai partiti, non trova mai spazio nei gruppi di cd. esperti coinvolti.
Le conseguenze – bene esser chiari – sono per le persone e le collettività. Ancor di più in questi momenti di straordinaria, continua e sistemica emergenza. Pur conoscendo e comprendendo le logiche dell’emergenza, tornano ancora più forti e invasivi i discorsi e le narrazioni legate alle “grandi illusioni della civiltà ipertecnologica”(ibidem – per ragioni di chiarezza le ricordo, anche in questo caso: razionalità, controllo, prevedibilità, misurabilità, eliminazione dell’errore). Servono/contano, solo i ‘fatti’(?), solo i “dati” presentati come “dati di fatto”, anche se mancano variabili o evidenze certe e, anche per queste ragioni, nessuno è in grado di prevedere con assoluta certezza l’evolversi, tutt’altro che lineare, di questa pandemia (serie di pandemie); non da oggi, servono/contano solo le competenze tecniche e i tecnici iperspecializzati, solo e soltanto il “saper fare”, solo ed esclusivamente certe “competenze” e – mi ripeto – una certa visione, ormai anche ideologica, delle competenze.
Tutte dimensioni fondamentali e imprescindibili, ci mancherebbe, altrimenti non se ne viene fuori, a maggior ragione in questa fase così critica e dai numerosi risvolti imprevedibili. La questione è la sistematica sottovalutazione e non considerazione delle altre dimensioni delle emergenze e, allargando ulteriormente lo sguardo, delle nostre vite/esistenze.
E, così, continuando a seguire questa prospettiva, a dir poco, miope e inadeguata, accade che si continui a pensare (!) che servano/contino/debbano essere coinvolti soltanto quelli che sono in grado, almeno a loro dire, di semplificare, facilitare o, comunque, “mostrare”/rappresentare/alimentare immaginari e immaginazioni su come, nonostante tutto, qualsiasi problema/emergenza sia facilmente risolvibile. Semplificare tutto, anche ciò che non è semplificabile.
La nostra vita è emergenza, sequenza infinita di processi dinamici in cui l’emergente si manifesta in tutti i modi possibili e …inimmaginabili, imprevedibili. È “sequenza infinita di tanti cigni neri” (Dominici 1998, 2000, 2011, 2014 e sgg) secondo la vecchia metafora già in uso presso gli antichi.
A tal proposito, dopo tanti anni di studi e ricerche, oltre che di esperienza, ho la netta sensazione che, spesso, un po’ a tutti i livelli di azione della prassi organizzativa e sociale, quelli che, in presenza di situazioni/dinamiche sfuggite al loro controllo (illusione del controllo), insistono sulla questione/metafora del “cigno nero” (e non mi riferisco, evidentemente, a Taleb ed al suo famoso The Black Swan), dell’evento unico e imprevedibile o, comunque, altamente improbabile, non cerchino/non facciano altro che operare/costruire delle (“classiche”) “razionalizzazioni a posteriori” in grado di rassicurare gli altri e sé stessi rispetto al fatto che, nonostante qualche episodio, tutto rimane “sotto controllo” e prevedibile.
Eppure, ancora una volta, non riusciamo a fare i conti e prendere consapevolezza dei “fattori” e delle “variabili” che, non da oggi, ci condannano all’impreparazione e all’inadeguatezza. Come ripeto spesso…Tutti parlano di pensiero critico, di “critical thinking”, di cambio di paradigma/i (sic!), di complessità, di sistemi complessi, perfino di “centralità della Persona e/o del Cittadino”, tutti, ma proprio tutti, parlano/scrivono di contaminazioni dei saperi, di interdisciplinarità e multidisciplinarità, di contaminare formazione umanistica e formazione scientifica, senza neanche studiare/prepararsi/documentarsi un po’ (basta fare un po’ di copia e incolla, mettere insieme un po’ di tutto quello che c’è in giro/in rete) incorrendo in propagandistici slogan e clamorose imprecisioni, non soltanto terminologiche. Discorsi e testi di ogni genere che, poi, al di là “dell’uso affascinante e persuasivo delle parole”, continuano – a dir poco – a sottovalutare, a non considerare, le dimensioni della complessità di cui parlano. Oltre le parole, i video, le apparizioni mediatiche e sulla stampa, con meravigliosi ed emozionanti discorsi, al momento dell’applicazione e della traduzione operativa di quegli splendidi discorsi, emerge subito chiaramente come fossero soltanto discorsi di facciata (per usare un eufemismo).
Per fare un esempio, tra i tanti possibili: per ‘fare innovazione’ (con tutte le sfumature e il portato ideologico della parola) bastano dati, tecnologie e, soprattutto, tecnologi. Tutt’al più il problema è l’adeguamento normativo e giuridico: quindi…coinvolgimento di giuristi o esperti di diritto. Ma quale innovazione sociale e culturale si può promuovere e/o attivare in questo modo?
Da decenni, tutti scriviamo e parliamo di questi temi, (poi c’è anche chi li studia e fa ricerca), eppure dove ci ritroviamo? Ogni volta facciamo i conti con (appunto) dati e ricerche che evidenziano il nostro ritardo strutturale sotto ogni punto di vista. Tutti (quasi tutti) coloro che hanno responsabilità di potere e decisione, ricadono da decenni in questa impostazione fuorviante e ingannevole che, tra le tante conseguenze, continuerà a riprodurre quel ‘modello’ di innovazione tecnologica imposta dall’alto e senza una cultura che la supporti in alcun modo; un’impostazione che non permetterà mai ad organizzazioni complesse ed ecosistemi di metabolizzare la trasformazione tecnologica che, come ripetuto più e più volte, produce/innesca/determina – anche se non si tratta di “nesso di causalità” – una trasformazione che è, soprattutto, antropologica. E così: altro che “costruzione dal basso” (altro concetto sempre evocato), altro che innovazione sociale, altro che cittadinanza digitale e democrazia partecipata, altro che politiche e lungo periodo; stiamo andando, e da tanti anni, nella direzione diametralmente opposta.
Il Paese sembra muoversi freneticamente, per le tante narrazioni e la sistematica stimolazione operata da uno storytelling fantasmagorico e ben costruito, ma su tante questioni è, sostanzialmente, fermo. Torna e ritorna – la richiamo, parafrasandola – una celebre e vecchia “figura” filosofica…l’eterno ritorno dell’identico a sé stesso.
Vedrete quanti, anche questa volta, diranno di averlo sempre “pensato” (!) e sostenuto… pur mancando le “prove” a sostegno e, quelle esistenti, affermando (spesso) tesi e visioni diametralmente opposte (mi riferisco ad articoli/testi scritti, interviste, pubblicazioni scientifiche e/o divulgative etc. etc.). Aggiungo – in questi casi, torno sempre a chiedermi: ma se queste “cose” le avete sempre dette e praticate (?) tutti – un discorso che riguarda anche le questioni della multi/inter/transdisciplinarità e del pensiero critico (ops… critical thinking), non soltanto dentro le istituzioni educative e formative – ma, come mai, siamo fermi a (oltre) vent’anni fa e continuiamo, su molte questioni, a navigare a vista e a farci trovare del tutto impreparati e inadeguati rispetto all’emergente e all’imprevedibile? Un emergente e un imprevedibile che sono “caratteristiche” strutturali, ontologiche, dimensioni fondanti della complessità, della ipercomplessità. Del nostro essere “esseri viventi, umani, sociali”.
Epilogo. Di Pensiero e di trasformazioni tecnologiche (antropologiche!).
Piuttosto, parallelamente alle dimensioni analizzate, in queste settimane rilevo come siano tornate/i forti certi miti/narrazioni e certi narratori/guru/super esperti con “soluzioni semplici” per ogni problema, quelli che sanno sempre come si fa e cosa accadrà, anche in tempi di pandemia (!): quelli che, in questi anni di ubriacatura ideologica a base di massicce dosi di “nuovismo acritico di maniera”, di riduzionismo e determinismo tecnologico – anche per i tanti interessi in gioco – hanno delineato scenari e profezie ingannevoli, talvolta, fallimentari, ancor di più per la necessaria svolta che avrebbe dovuto modificare radicalmente i processi educativi e formativi.
Quelli che hanno insistito su “servono solo e soltanto l’educazione digitale”, “quelli che” l’unico problema è il “digital divide” (erano tanti, davvero…salvo poi accorgersi che esistevano, oltre al “cultural divide”, dimensioni ancor più complesse e problematiche); quelli che “solo le competenze digitali” e “solo STEM” (l’acronimo, poi, per evidenti motivi, è stato, come noto, integrato con altre lettere); quelli che ripetevano continuamente come servissero “solo e soltanto profili tecnici e iper-specializzati” (specializzazione vs interdisciplinarità/complessità … altre “false dicotomie”, così le ho definite alla metà degli anni Novanta), magari mentre parlavano/parlano di “contaminazioni tra i saperi” (sic!); gli stessi che parlavano di saperi, discipline e studi “inutili”, promuovendo ed esaltando il principio/valore ingannevole dell’UTILITÀ dei SAPERI e della ricerca (ci siamo tornati negli anni); “quelli che”, fedeli discepoli delle retoriche/narrazioni della disintermediazione, ripetevano più volte “a che serve studiare la comunicazione” – e a che serve la formazione umanistica (dovremmo andare molto indietro nel tempo) – a che serve prepararsi nei relativi settori, tanto, in fondo, per “saper comunicare” o “gestire la complessità” (ripeto da anni, un vero e proprio ossimoro) non servono particolari conoscenze e competenze (a loro dire): anche in queste settimane ce ne stiamo accorgendo di quanta (urgente) necessità esista di “comunicatori” preparati, anche metodologicamente, e responsabili. Un discorso che, evidentemente, riguarda anche tutti i profili professionali dell’ecosistema dell’informazione (non soltanto giornalisti). Al contrario, dovremmo preoccuparci, dopo anni di miopi prospettive e strategie, di dare loro una preparazione realmente multidisciplinare/interdisciplinare, più profonda, rigorosa e articolata, e non soltanto “tecnica” e di conoscenza di applicazioni, software e ambienti iperconnessi.
Quelli che, ancor di più, ci hanno raccontato e fatto credere (ma il problema siamo sempre noi “persone” e “cittadini”: servono “teste ben fatte” e non “teste ben piene”, per evocare, ancora una volta, Montaigne) che fossimo pronti per la “cittadinanza digitale” e per una nuova alba… di una nuova democrazia semplificata, diretta e senza mediazioni, finalmente aperta e inclusiva (una “prospettiva” che ha accomunato esperti, studiose/i e numerosi partiti). Ebbene, pur a fronte del mancato raggiungimento dei principali obiettivi promossi/propagandati (e non parlo soltanto di livello della politica) e, soprattutto, a fronte di disuguaglianze e asimmetrie sempre più evidenti (evidentemente non per “colpa” del digitale); pur avendo collezionato figuracce e insuccessi in quantità industriale, anche in ambito accademico-scientifico, oltre che mediatico…sono ritornati con l’arroganza, la sicurezza e le certezze di sempre, con gli spazi e le responsabilità di sempre. D’altra parte, media e stampa (generalizzazioni sempre sbagliate, le eccezioni ci sono), oltre a rafforzare la nostra storica tendenza ad accodarci culturalmente a tutto ciò che arriva da oltreconfine e oltreoceano, alimentano e danno voce sempre agli stessi. Potrei fare tantissimi esempi. Difficile, molto difficile, in queste condizioni di partenza che si possa innescare il “vero” cambiamento, quello sociale e culturale. Ma noi insistiamo! A tempi migliori!
* Con riferimento al pensiero di Ludwik Fleck, un grande “classico” per chi ama e fa ricerca su questi temi, segnalo volentieri l’importante raccolta di saggi epistemologici, curata da Francesco Coniglione, Stili di pensiero. La conoscenza scientifica come creazione sociale, Mimesis, Sesto San Giovanni 2019.
**Con riferimento al pensiero di Edgar Morin, altro grande classico, amico oltre che membro del Comitato Scientifico del Complexity Education Project (Università degli Studi di Perugia), segnalo la nuova edizione italiana de “Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana?”, Mimesis, Sesto San Giovanni 2020 (ed.orig. 1973 e 1979). Il volume è il n.1 della Collana diretta da Mauro Ceruti, Le sfide della complessità, già titolo di un suo importante lavoro (1985 e 2006) con Gianluca Bocchi.
Come sempre, condivido altri testi e percorsi di studio e ricerca (basta cliccare sui titoli):
L’egemonia di un modello feudale e l’assenza di un pensiero critico sul mutamento
Educare alla complessità…perché “Democrazia è complessità” (1995)
La “dittatura” (e l’ossessione) della concretezza…
La (iper)complessità della realtà e l’importanza dei dati che… “non parlano mai da soli”
Il Virus, gli anticorpi (sociali e culturali), le ragioni che ci tengono intorno al focolare.
Oltre il potere delle parole (e degli slogan). L’educazione, l’innovazione, la democrazia…
L’Umano e l’Errore. Che ne è/sarà della libertà nella civiltà ipertecnologica?
#FuoridalPrisma #SapereCondiviso #PensieroCritico #LaComplessitàdellaComplessità
Allego volentieri alla riflessione condotta, questo saggio che riprende vecchi percorsi di ricerca, pubblicato da LSDI, con il titolo “Potenza e pratica della Teoria”
L’importanza di praticare la teoria e la sua potenza
di Piero Dominici
e-mail: piero.dominici@unipg.it
«La disposizione mentale di un teorico è utile non solo per sondare i segreti ultimi dell’universo, ma per molti altri compiti. I fenomeni del mondo attorno a noi sono interconnessi. Essi possono ovviamente essere considerati come entità separate e studiati come tali, ma fa molta differenza se li vediamo come parte di qualcosa di più generale! Molti fatti diventano allora più che dati singoli da memorizzare: le loro interconnessioni ci permettono di usare una descrizione sintetica, una sorta di teoria, uno schema per apprenderli e ricordarli. Essi cominciano ad acquistare un senso. Il mondo diventa più comprensibile. Il riconoscimento di regolarità è qualcosa di naturale per noi essere umani: noi stessi, dopo tutto, siamo sistemi complessi adattativi. È nella nostra natura, per eredità biologica e anche per trasmissione culturale, riconoscere strutture, identificare regolarità, elaborare schemi nella nostra mente. Tuttavia, questi schemi vengono non di rado promossi o retrocessi, accettati o respinti, in risposta a pressioni selettive ben diverse da quelle operanti nelle scienze, dove l’approccio con l’osservazione è decisivo» (M.Gell-Mann, The Quark and the Jaguar, W.H. Freeman and Co., New York 1994: 112).
E già…la potenza della …teoria. Sì, proprio “lei” … la Teoria: un concetto importante (e una “pratica” importante) e, per certi versi, ingombrante, sul quale si potrebbero fornire/restituire infinite definizioni e sfumature, legate ad approcci, saperi e discipline differenti, oltre che, evidentemente, a contesti storico-sociali e di riferimento. Il Dizionario Zingarelli nel fornirne la definizione, individua diversi aspetti e significati che, ancora una volta, ne mettono in luce l’ambiguità semantica (forse) all’origine anche di certi luoghi comuni e frasi fatte che la riguardano: 1) Formulazione sistematica dei princìpi propri di una dottrina filosofica, un sapere scientifico, un movimento artistico o culturale: la teoria platonica delle idee; teoria della relatività, degli insiemi. CFR. -logia. 2) Complesso dei precetti che servono di guida alla pratica: la teoria del maneggio del fucile | (spreg.) Eccesso di elaborazione teorica: perdersi nella teoria | in teoria, teoricamente. CONTR. Pratica; 3) Sistema, modo di pensare: non condivido le sue teorie sull’amicizia. SIN. idea, opinione. La stessa Treccani fornisce una definizione di “teoria” in termini di: “Formulazione logicamente coerente (in termini di concetti ed enti più o meno astratti) di un insieme di definizioni, principi e leggi generali che consente di descrivere, interpretare, classificare, spiegare, a vari livelli di generalità, aspetti della realtà naturale e sociale, e delle varie forme di attività umana”.
Allo stesso modo, anche le teorie “scientifiche” non costituiscono/non sono dei semplici complementi, più o meno utili a livello interpretativo; esse rappresentano l’asse portante della scienza e della ricerca scientifica, evidentemente insieme al metodo scientifico. La Teoria, non soltanto guida e influenza l’osservazione “scientifica” dei fenomeni e dei processi, bensì guida e influenza anche le scelte e gli utilizzi in materia di strumenti di rilevazione. Anche perché le teorie, non soltanto quelle “scientifiche”, oltre alle parti costituite dalle ipotesi, si articolano in definizioni, formule, argomentazioni ect. che permettono, in qualche modo, all’osservatore/manager/ricercatore di tracciare possibili percorsi verso la verificazione o la falsificazione (Popper et al.) delle ipotesi di partenza.
Inoltre, le teorie possono essere/rivelarsi importanti strumenti di previsione e classificazione dei fenomeni, e non soltanto strumenti (complessi) di spiegazione dei fatti. Pierre Duhem, a tal proposito, affermava ne La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura: «Una Teoria vera non è quella che dà, delle apparenze fisiche, una spiegazione conforme alla realtà; è piuttosto una teoria che rappresenta in modo soddisfacente un insieme di leggi sperimentali».
Con riferimento a tali questioni, siamo davvero “sulle spalle dei giganti”, con una letteratura scientifica vasta e articolata, riconducibile anche alle cosiddette scienze esatte (scienze hard), ben al di là di ogni logica di separazione tra i saperi e le discipline. Allo stesso tempo, occorre acquisire definitivamente consapevolezza che ogni conoscenza teorica e sperimentale è storicamente e culturalmente condizionata, anche se in maniera differente. Di qui, ancora una volta, non posso che ribadire con forza, l’importanza di (1) un’educazione e formazione critica, (2) di un’educazione al “metodo scientifico” e l’urgenza di (3) un approccio sistemico alla complessità, che devono essere praticati e sperimentati fin dai primi anni di scuola, agevolando l’apertura e il dialogo tra i saperi, oltre che il famoso “apprendimento collaborativo”.
Insomma, quanto è importante la Teoria, anche con riferimento alle possibilità di fornire una rappresentazione simbolica e concettuale delle evidenze e dei dati emersi. Eppure – non è inutile ripeterlo – la teoria è quella “dimensione” (complessa e tutt’altro che lineare) che un po’ tutti disprezzano, considerano inutile, fuorviante, dispersiva (ai limiti del paradossale), soprattutto in un’epoca in cui si rivela sempre più egemone la convinzione/narrazione che i dati ci dicano tutto e che la realtà stessa sia costituita da “dati” che sono “dati di fatto”; una realtà talmente reale (misurabile) perché costituita da evidenze empiriche (quantitative e statistiche, big data etc.) che sono a tal punto auto-evidenti da non richiedere alcuna osservazione e/o interpretazione (individuazione di correlazioni e/o di nessi di causalità; osservazione e riconoscimento dei livelli di connessione etc.).
La stessa idea di “teoria” sembra quasi provocare disagio; perché la “teoria” rappresenta, soprattutto in certi immaginari produttori di “luoghi comuni” e di formule/slogans rassicuranti, non soltanto per la prassi organizzativa, un qualcosa che non serve e fa perdere tempo (e denaro), un qualcosa appunto per chi ha “tempo da perdere” (e soldi da buttare) e/o, peggio ancora, per chi non “sa fare” che, attualmente, equivale a dire per chi “non ha soluzioni” (per tutto).
Quante frasi fatte e, mi ripeto, luoghi comuni su questo concetto-categoria così importante: “basta teorie, contano/servono i fatti”; oppure: “non abbiamo bisogno di teorici/studiosi/pensatori – che magari siano in grado di argomentare, in maniera chiara, logica e coerente, le proprie ipotesi/tesi (in compenso, ci affidiamo ai cd. “guru” e/o i “visionari” che, come si dice, vanno alla grande…) – ci servono persone (figure iperspecializzate o, al contrario, esperti di tutto, o tecnici super addestrati?) che sappiano soltanto agire/fare”, magari “eseguire” in maniera perfetta: come se l’agire, la pratica, il saper fare e il fare, perfino la ricerca, non fossero, comunque e sempre, concettualmente e teoricamente orientati. D’altra parte, quando non lo sono, se ne vedono i risultati, non soltanto in termini di navigazione a vista. Questioni complesse e delicate che, evidentemente, riguardano anche, e soprattutto, la Politica e la vita pubblica nel suo complesso. Un po’ come le analisi e il discorso pubblico riguardanti la Cultura, con la quale addirittura, a detta di molti non si mangiava; la Cultura vista e presentata, non soltanto come un qualcosa di profondamente astratto, teorico, “inutile”, non in grado di produrre ricchezza e benessere (!).
Evidentemente, dietro tali concezioni/luoghi comuni c’è una visione, non soltanto dell’economia e del progresso di un Paese, ma dell’intera società, della civiltà, del benessere sociale, dell’innovazione (inclusiva o esclusiva), della cittadinanza e dell’inclusione, del bene comune. Educazione e formazione ne sono le basi e le architetture portanti. Anche se, da qualche tempo, il clima culturale su tali questioni sembra inizi a cambiare. Ma la strada da percorrere è ancora lunga e incerta, piena di criticità. E, come amo ripetere ogni volta, se non ripensiamo a fondo educazione e formazione, non andremo da nessuna parte, incapaci, se non di gestire, almeno di indirizzare il cambiamento e le profonde trasformazioni in atto.
Per queste (e altre) ragioni, ho voluto iniziare questo contributo con poche, pochissime parole di un grande scienziato e studioso, Murray Gell-Mann (Premio Nobel per la Fisica nel 1969 e fondatore, nel 1984, del Santa Fe Institute) – lo confesso, uno dei miei Autori preferiti, fin da studente, per la sua capacità di argomentare e includere – che, contrariamente ad uno dei luoghi comuni più diffusi e difficili da sradicare nei contesti organizzativi e sociali, sottolinea/ribadisce senza mezzi termini l’importanza della teoria, alla pari di un approccio sistemico alla complessità, che può metterci in condizione di osservare, riconoscere, descrivere, comprendere la (iper)complessità.
Luoghi comuni talvolta così ben radicati anche nelle istituzioni educative e formative, da mostrare tutte le nostre inadeguatezze, la nostra incompletezza e “razionalità limitata” ancor di più oggi che ci troviamo nella civiltà ipertecnologica e iperconnessa, ove tutto è “dato”. Lasciatemelo dire, davvero incredibile che lo si debba ancora fare. Comprendere la complessità della complessità (Dominici, 1998 e sgg.). Con il pensiero che va a tutt* quell* che…contano soltanto la pratica, il saper fare, soltanto le risposte e non le domande; contano ‘soltanto’ le soluzioni (dico sempre: soluzioni preferibilmente semplici a problemi complessi) e non i problemi (Popper parlava perfino di “dilemmi”); “quell* che” …contano soltanto le competenze e non le conoscenze (una di quelle che ho definito, vent’anni fa, “false dicotomie”…).
Ma anche…con altre sfumature, quelli che contano soltanto i dati, le “evidenze”…naturalmente soltanto quelle quantitative. Quelli che…è scientifico e, di conseguenza, “utile” soltanto ciò che può essere ‘misurato’ in termini numerici e, ancora una volta, quantitativi. Come ho avuto modo di scrivere, in questi anni, il principio dell'”utilità della conoscenza” rappresenta uno dei grandi errori e uno dei grandi inganni dell’epoca moderna e contemporanea: un principio su cui stiamo costruendo (demolendo) la futura Scuola e la l’Università del futuro. Mentre – lo ricordo sempre – nei vecchi corsi di metodologia della ricerca, molto duri e impegnativi, ci veniva insegnato, tra le tante questioni trattate, che “i dati non parlano mai da soli“. Infine…quelli che “conta soltanto la ricerca”, ignorando o facendo finta di non sapere, che non esiste ricerca (o attività di ricerca) che non sia teoricamente e concettualmente orientata (come qualsiasi attività umana). A conferma di quanto sia diffusa questa mentalità/visione/narrazione (al di là di qualche citazione o frase di circostanza usate in pubblico), basti pensare a quanto la stessa parola “teoria” venga vista e utilizzata quasi con (grande) sospetto. Per non parlare del termine “teorico” (sia come sostantivo che come aggettivo): termine adottato anche per screditare Persone, studiose/i, esperte/i, incapaci (a loro dire) di fornire soluzioni rapide per qualsiasi tipo di problema. La parola “teorico” viene usata, talvolta, addirittura come un insulto.
Discorsi analoghi si potrebbero fare per la parola “filosofia” e il termine “filosofo”. In molti casi, stanno ad indicare, soprattutto nel nostro contesto storico-culturale (ma basta andare un po’ all’estero per rendersi conto di quanto le cose stiano in maniera diversa), figure e attività del tutto inutili, astratte e distanti dall’esperienza (?), perfino dalla vita reale e dalle soluzioni (?) che questa richiede. Soluzioni che debbono essere semplici anche per problemi complessi e multidimensionali (Dominici, 1995, 1998 e sgg.).
Quasi paradossalmente, la teoria, confusa con la “storia del pensiero”, molto spesso, viene non considerata e/o disprezzata proprio da coloro che, al di là dei campi in cui operano, non hanno mai fatto (veramente) “ricerca”. Proprio da coloro che continuano a confondere la metodologia con la tecnologia, o, peggio ancora, la metodologia con il digitale.
Un disprezzo o, comunque, una sorta di disprezzo che, proprio in linea con quanto detto, accompagna, più in generale, anche chi studia, chi pensa(?), chi riflette sui problemi, sui processi, sulla vita, sulle culture, sull’identità, sui diritti, sui dilemmi (magari, con un approccio critico), sulle dimensioni, che caratterizzano tutti i sistemi complessi adattivi, dell’imprevedibile e dell’incerto, dimensioni complesse e non facilmente misurabili.
Un disprezzo e un sospetto che, in questi decenni, hanno segnato profondamente anche il discorso pubblico sulla “cultura”; derive alle quali, in molti casi, non si è sottratto neanche il dibattito (e la distribuzione delle poche risorse a disposizione) all’interno dello stesso mondo accademico e della ricerca, Una sorta di “sospetto” che colpisce anche chi analizza e studia per progettare “qualcosa di più grande e importante”, pensando soprattutto al lungo periodo (oggi, finalmente, tutti ne parlano, per poi continuare a lavorare nella direzione opposta).
Sempre in questa prospettiva, fateci caso, nel nostro Paese le fasi e il lavoro di ideazione e progettazione non vengano (quasi?) mai retribuiti. Non sono considerati e riconosciuti importanti, ed è davvero incredibile, per numerosi motivi. Si paga, nella migliore delle ipotesi, il “prodotto finito”…e poi, via! Tutti a parlare (giustamente, peraltro) di “cultura del progetto”. E tutto ciò è tutt’altro che casuale: anzi, è indicativo e indicatore di una cultura che considera meno importanti la creatività, l’immaginazione e la capacità di progettare. In qualche modo, le ha perfino gettate fuori dai luoghi dell’educazione e della formazione.
Dicevo: un sospetto e una sorta di disprezzo che accompagnano i pensatori, i teorici, gli studiosi/le studiose, per non parlare dei cd. intellettuali (‘categoria’ effettivamente in declino, per tutta una serie di ragioni); tutt* coloro che svolgono un lavoro intellettuale, i cui “effetti”, di fondamentale importanza per le Comunità, per la vita pubblica, per la salute delle democrazie, non appaiono immediatamente evidenti, riconoscibili, misurabili. E spesso proprio coloro che disprezzano o, comunque, considerano inutili certe “figure”, ricercano, esaltano, enfatizzano i guru, i visionari, gli entrepreneur etc. E sottolineo: non si tratta, evidentemente, di una critica a chi si auto-definisce e/o si presenta così.
Per concludere, non mi resta che aggiungere (‘cose’ note e stra-note, nonostante il pensiero-narrazione dominante…) che, proprio nella ricerca scientifica, da sempre, “teoria” e “ricerca” si alimentano vicendevolmente. Come ho avuto modo di ripetere più volte negli anni, le sfide della (iper)complessità sono sfide, in primo luogo, educative che riguardano l’educazione e i processi educativi, lo spazio relazionale e comunicativo: si tratta di sfide che richiedono un grande sforzo, a tutti i livelli.
Non sarà semplice né tanto meno sarà uno sforzo di breve o medio periodo. E, forse, finché non prenderemo coscienza di essere “deboli” proprio a livello di teorico, per non parlare di sistemi di pensiero, non andremo troppo lontano, continuando – come detto – a navigare a vista, incapaci di affrontare le sfide di una ipercomplessità sempre più incerta e imprevedibile.
L’impressione, assolutamente personale, è che – tranne qualche eccezione – stiamo continuando ad educare e formare dei meri “esecutori” di funzioni/mansioni** – abilissimi nel “saper fare” – in una realtà sempre più (iper)complessa in cui la dimensione del tecnologicamente controllato si rivela dominante e richiede menti elastiche strutturate da un pensiero che non può che essere sistemico e multidimensionale. Con profonde implicazioni per le questioni cruciali riguardanti la vita pubblica, la cittadinanza, l’inclusione, la democrazia, il bene comune. Concetti-chiave, parole e “principi” fondamentali che rischiano di rimanere semplici slogan.
Riporto di seguito uno dei numerosi contributi di carattere divulgativo su queste tematiche:
Ripensare l’educazione nell’era della rapida obsolescenza
di Piero Dominici, Università degli studi di Perugia
Il passaggio alla ipercomplessità e l’urgenza di pensare al “lungo periodo”: ecco perché bisogna ripensare l’educazione e, ancor di più, il pensiero sull’educazione, modificando in tale direzione le scelte e le strategie riguardanti sia la didattica che la formazione
Riprendo la mia analisi partendo da qui: “Siamo di fronte ad una ipercomplessità che si è estesa a tal punto da rendere estremamente difficile e complicato qualsiasi tentativo di fornire/formulare schemi di riduzione della stessa. Si tratta di una (iper)complessità ulteriormente accresciuta dalla rilevanza, sempre più strategica, che la comunicazione e l’innovazione tecnologica hanno assunto, non soltanto nei processi educativi e di socializzazione, ma anche e soprattutto nella rappresentazione e percezione di dinamiche e processi evolutivi sistemici che riguardano da vicino anche la produzione di saperi, di “strumenti”, di conoscenza scientifica; una produzione funzionale proprio all’analisi e gestione (?) di questa ipercomplessità, funzionale a creare quelle condizioni sociali e culturali in grado di contrastare l’imprevedibilità che connota i sistemi organizzativi e sociali” (2003).
Alla luce delle precedenti considerazioni, mai in passato come nell’attuale “società iperconnessa” (2003), occorre educare alla complessità, al “metodo scientifico” e ad una visione sistemica dei problemi e dei fenomeni: ad un primo livello di azione, saper quanto meno riconoscere questa ipercomplessità può significare essere in grado di creare le condizioni per poterla gestire (?) e trasformare in opportunità. Questioni di fondamentale importanza, questioni decisive, strategiche sia per le organizzazioni che per le democrazie, peraltro segnate da una profonda crisi. Eppure nella “società ipercomplessa” (2003), anche tutto ciò rischia di non essere più sufficiente: sempre più di fondamentale importanza è saper anche comunicare questa (iper)complessità, riportando in primo piano (se ancora ce ne fosse bisogno) la questione delle conoscenze e delle competenze, oltre che l’urgenza di superare, una volta per tutte, le “false dicotomie” (Dominici, 1995,1998 e sgg.). Nella cd. società della conoscenza non basta più “sapere” e non basta più “saper fare”: dobbiamo necessariamente educare e formare a “sapere”, “saper fare”, ma anche, e soprattutto, a “saper comunicare il sapere” e a “saper comunicare il saper fare”. Si tratta di conoscenze e competenze ormai richieste in tutte le professioni ad elevato contenuto conoscitivo, che caratterizzeranno sempre più la “società della conoscenza” e l’economia della condivisione.
Ecco perché non è possibile non tornare, ogni volta, sulla centralità strategica di Scuola e Università, sui percorsi didattico-formativi che propongono e sui relativi obiettivi. Non temo di apparire ripetitivo, perché si tratta della “questione” delle questioni. Se non interverremo in maniera profonda e sistematica su tali dimensioni – educazione e formazione – ci ritroveremo in una condizione problematica di perenne ritardo culturale rispetto, appunto, alla complessità, multidimensionalità e ambivalenza che caratterizzano, da sempre, i processi di innovazione e mutamento. Processi che, peraltro, con la loro attuale estrema velocità e imprevedibilità, con il loro essere in continua evoluzione/metamorfosi, oltre a creare i consueti problemi di controllo e gestione – tipici di tutte le fasi storiche di mutamento e innovazione tecnologica – determinano, e continueranno in futuro a determinare sempre più, la rapida obsolescenza delle conoscenze, delle competenze, dei profili curriculari (Dominici 2003 e sgg.), nel frattempo definiti, formati e riconosciuti dalle istituzioni educative e formative.
In altre parole, il problema è: come ripensare Scuola e Università, come ripensare i percorsi didattico-formativi, come ridefinire i profili curriculari e professionali in una fase così segnata da traiettorie irregolari e discontinuità? E come provare a farlo tenendo in considerazione una società ed un mercato del lavoro sempre più in continua evoluzione? Come provare a cambiare le tradizionali/consolidate logiche e culture organizzative che contraddistinguono le nostre istituzioni educative e formative? Operazione tutt’altro che semplice, oltre che di “lungo periodo”. La stessa ricerca scientifica si basa, attualmente, su logiche che scoraggiano, ostacolano apertamente il dialogo tra i saperi e l’interdisciplinarità, pre-requisiti essenziali per poter affrontare i dilemmi e le sfide della ipercomplessità.
E, non possiamo nascondercelo, tale evoluzione sta mettendo in mostra tutta le nostre inadeguatezze, essendo talmente rapida e inarrestabile da accorciare drammaticamente il “ciclo di vita” delle conoscenze e delle competenze necessarie; talmente rapida e imprevedibile (p.e., intelligenza artificiale e robotica lasciano intravedere, con molte difficoltà, scenari del tutto inimmaginabili) da favorire l’obsolescenza anche di tutte le decisioni assunte, oggi, in materia di profili e curricula professionali del prossimo futuro (aggiungo: alla metà degli anni Novanta, ho proposto concetto e definizione operativa – questa, fa la differenza, anche rispetto a chi usa, maldestramente e scorrettamente, studi e ricerche di altri senza “citare gli Autori” – di “figure ibride” e, in inglese, “Hybrid Figures”).
In tal senso, come sostenuto anche in tempi non sospetti, si rivela estremamente rischioso, oltre che fuorviante, anche soltanto pensare di poter definire i percorsi didattico-formativi e curriculari, ma anche gli stessi profili professionali, solo, ed esclusivamente, sulla base delle cd. “esigenze del mercato” e/o delle richieste sempre più specifiche delle imprese. So bene che sono in molte/i a pensarla in maniera diametralmente opposta (la maggioranza degli addetti ai lavori e dei cd. esperti), ma ritengo questa impostazione estremamente sbagliata, e on soltanto rispetto alla natura ed agli obiettivi che le istituzioni educative e formative dovrebbero avere.
Siamo ancora dentro logiche di “breve periodo”, che sono quelle della risposta/soluzione immediata, del controllo, dell’equilibrio a tutti i costi, dell’emergenza.
Detto in termini più espliciti: ha ancora senso continuare a rincorrere un mercato imprevedibile e in costante evoluzione? Il rischio, estremamente concreto, è sempre quello di continuare a “rincorrere l’innovazione tecnologica e digitale”, subendola, senza neanche saper se ci sarà il tempo necessario per adattarvisi e provare a gestirla. In questa prospettiva, al di là dei tanti paradossi del mutamento in atto, il “grande equivoco”, nella/della civiltà ipertecnologica e ipercomplessa, è proprio quello di continuare a pensare l’educazione e i processi educativi (vale anche per la formazione) come “questioni esclusivamente di natura tecnica”, un problema soltanto di “competenze”, legato al “saper fare” (punto e basta); una questione complessa da affrontarsi puntando tutto su velocità e simulazione (Dominici, 1995, 1998 e sgg.).
Se non si ripensa l’educazione e, ancor di più, il pensiero sull’educazione, modificando in tale direzione le scelte e le strategie riguardanti sia la didattica che la formazione (continua e sistematica, con una parte flessibile e modulare) di tutte le figure coinvolte ai vari livelli anche decisionali, non andremo molto lontano e continueremo a tentare di cavalcare il mutamento, la sua ambiguità e indeterminatezza, ricorrendo alle solite vecchie logiche di breve periodo. Navigando a vista.
Mai come oggi, si avverte l’urgenza di un’educazione (non soltanto digitale) che dev’essere immaginata e ripensata, comunque e sempre, nella direzione della costruzione sociale e culturale della Persona (prima) e del Cittadino (poi). Educare alla complessità, al metodo scientifico, al pensiero critico, nutrendo e alimentando un pensiero che non può che essere multidimensionale.
#CitaregliAutori
Sempre sulla questione educativa e culturale:
Un’inclusione per pochi. La civiltà ipertecnologica verso la “società dell’ignoranza?” (cit.)
https://pierodominici.nova100.ilsole24ore.com/2018/03/08/uninclusione-per-pochi-la-civilta-ipertecnologica-verso-la-societa-dellignoranza-1996/ via Il Sole 24 Ore
https://nextlearning.it/2017/11/02/prendersi-cura-le-due-culture/ via Next Learning
https://gianfrancomarini.blogspot.com/2016/12/nel-labirinto-della-societa.html
Il “grande equivoco” (cit.) https://pierodominici.nova100.ilsole24ore.com/2016/12/08/il-grande-equivoco-ripensare-leducazione-digitale-per-la-societa-ipercomplessa/ via Il Sole 24 Ore
https://www.huffingtonpost.it/2017/05/04/al-festival-della-complessita-la-lezione-di-piero-dominici-il_a_22069135/ via Huffington Post
Ripensare l’educazione nella civiltà iperconnessa https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/ripensare-leducazione-nella-civilta-iperconnessa-cosa-significa/ via Agenda Digitale
Ri-allargando lo sguardo…
“Il pericolo serio e concreto è quello di continuare a interpretare ed affrontare questa crisi, così drammatica, affidandosi a spiegazioni riduzionistiche e deterministiche e, contemporaneamente, sottovalutando la “questione culturale” e uno dei grandi “mali” del nostro tempo, ad essa correlato: l’indifferenza” Con tutti i rischi legati alla “ricerca ossessiva della semplificazione” (valore importante ma non “assoluto”, come provo a spiegare fin dalla metà degli anni Novanta), che talvolta/spesso coincide con il navigare in superficie senza… immergersi nella (iper)complessità dei problemi e della vita. (Dominici, 1995, 1998 e sgg.).
La crisi contemporanea, infatti, riguarda da vicino i sistemi di orientamento valoriale e conoscitivo, le credenze e le pratiche condivise, i meccanismi sociali della fiducia e della cooperazione su cui, non soltanto si fonda il legame sociale, ma poggia l’idea stessa di civiltà, di Persona, di dignità umana, di cittadinanza e di democrazia” (cit.).
L’ipercomplessità e una crisi non soltanto economica. Ripensare il sapere e lo spazio relazionale
Next Learning “Piero Dominici: viaggio nel territorio della complessità e della cittadinanza”
Rinvio anche a:
La società asimmetrica* e la centralità della “questione culturale”: le resistenze al cambiamento e le “leve” per innescarlo (Il Sole 24Ore, 2015) https://pierodominici.nova100.ilsole24ore.com/2015/09/23/la-societa-asimmetrica-e-la-centralita-della-questione-culturale-le-resistenze-al-cambiamento-e-le-leve-per-innescarlo/
L’educazione (e/è la democrazia) … tra conformismi e propensione all’accodamento culturale
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E già…ogni volta ci si torna…forse un giorno ce la faremo…piano piano.
Potrei ri-condividere come altri (non tanti, per la verità…) decine di articoli e saggi su tali questioni (cruciali)…ogni volta sembra che se ne prenda atto e/o che, chi lo sostenga, affermi qualcosa di rivoluzionario…ma, poi, si prosegue nelle direzioni di sempre!
La Scuola, l’Università, l’Educazione, la #Cultura “al centro”, il “Nuovo Umanesimo”, lo “Human Centric Approach” (concetti e termini in inglese, non da oggi, sempre utili e funzionali per restituire originalità e portata rivoluzionaria a temi e questioni che, evidentemente, non ce l’hanno) parole, concetti, definizioni, argomentazioni, che, a forze di ripeterle sono diventate – come spesso capita – degli slogan, delle parole-etichetta che non hanno mai trovato una loro concreta traduzione operativa; sembra che il tempo non sia mai passato…
Come scrivevo anni fa: «E, da sempre, una Scuola diseguale e non di “qualità” è il prerequisito e la miglior garanzia di definire, alimentare e riprodurre una società diseguale e, appunto, asimmetrica. L’impressione talvolta è quella di dirigerci in maniera lenta, ma inesorabile, verso una società dell’ignoranza (2009) incardinata su un modello feudale che prevede una mobilità sociale esclusivamente di tipo orizzontale. Tali questioni si vanno ad aggiungere alla ben nota correlazione esistente tra educazione e innovazione, tra educazione e inclusione, tra educazione e democrazia. Con tutti i rischi e le opportunità che la civiltà ipertecnologica porta con sé; su tutti quello della “delega in bianco” alla tecnologia rispetto alle questioni, assolutamente vitali per i sistemi sociali e le organizzazioni, riguardanti il controllo, la razionalità, la protezione, la sicurezza, la fiducia, il legame sociale. Nello sviluppare i suddetti punti, non possiamo fare a meno di considerare tutta una serie di fattori e criticità che intercettano livelli di analisi e intervento differenti non più trascurabili:
- l’assenza di un sistema di pensiero e di una visione sistemica e la contemporanea sottovalutazione della importanza della ricerca sul pensiero e sull’educazione;
- l’assenza di politiche (lungo periodo) relative all’istruzione, all’educazione, alla formazione, alla ricerca;
- l’inconsistenza e l’inadeguatezza degli investimenti in istruzione, educazione, formazione e ricerca (OCSE, ISTAT etc.);
- istruzione, educazione, formazione e ricerca, stentano ancora ad essere riconosciute (concretamente) e percepite come la vera infrastruttura del cambiamento e di un’innovazione che non può essere per pochi;
- Scuola e Università continuano ad essere pensate, immaginate, progettate, come entità separate;
- l’assenza di politiche di orientamento, totalmente delegate a pratiche di marketing;
- il trionfo del principio ingannevole dell’utilità dei saperi e della conoscenza;
- l’errore di continuare a rincorrere il mercato e le imprese, in un’epoca di rapida obsolescenza di tutte le conoscenze, le competenze, i profili formativi e professionali;
- il dominio e l’egemonia di una cultura della standardizzazione[1] che pervade tutta la cultura della valutazione e della comunicazione; »
Economia e/vs Società – Società ed Economia (dico sempre: sulle spalle dei giganti, con problemi di vertigini). Vecchie e “false dicotomie”.
Sullo sfondo, quello che ho definito, in tempi non sospetti, “l’errore degli errori”.
https://www.festivalcomplessita.it/la-complessita-della-complessita-e-lerrore-degli-errori/ saggio per TRECCANI, ripreso dal sito del Festival della Complessità.
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Ri-condivido soltanto alcuni articoli e saggi, senza andare troppo indietro nel tempo (p.e. agli anni Novanta):
La CULTURA: “motore” del cambiamento e agente di cittadinanza. L’importanza di una visione sistemica (2015) – prima versione più asciutta è stata pubblicata su Il Sole 24 Ore nel 2014 (nei vari formati)
La “questione culturale” e il problema della responsabilità: il ruolo strategico di scuola e istruzione. In cerca di “teste ben fatte” (2014)
Educazione, perché è necessaria una #innovazione inclusiva – (vecchio contributo) un approccio e percorsi di #ricerca dal’95 #CitaregliAutori #MIUR #scuola #università (2016)
“Piero Dominici: viaggio nel territorio della complessità e della cittadinanza” via #NextLearning (conversazione in più episodi con il prof. Gianfranco Marini) (2017)
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Da una vecchia definizione ….
Come sempre, senza “tempi di lettura”
“L’innovazione è un tema cruciale per far fronte alle sfide della società ipercomplessa e della rivoluzione digitale, ma l’innovazione deve essere inclusiva e costruita dal basso e attraverso la negoziazione e può realizzarsi solo se fondata su sull’educazione e la formazione. Quando l’innovazione è calata dall’alto e segue vie esclusivamente legislative i rischi sono quelli di una “cittadinanza illusoria” e di una “innovazione tecnologica” senza cultura”. (cit. 1996 e sgg.)
Una riflessione (e un’analisi) che non può non partire da alcuni brani estratti dalla recente pubblicazione del “Rapporto Istat sulla Conoscenza 2018” e da alcune premesse fondamentali che, purtroppo, non possono mai essere date per scontate.
“Nella società ipercomplessa, la strategia è saltare le separazioni”
Research since 1995: https://link.springer.com/article/10.1007/s40309-017-0126-4#Sec6
Vi ringrazio per il tempo dedicato e Vi auguro buona/e riflessione/i.
N.B. Condividete e riutilizzate pure i contenuti pubblicati ma, cortesemente, citate sempre gli Autori e le Fonti anche quando si usano categorie concettuali e relative definizioni operative. Condividiamo la conoscenza e le informazioni, ma proviamo ad interrompere il circuito non virtuoso e scorretto del “copia e incolla”, alimentato da coloro che sanno soltanto “usare” il lavoro altrui. Le citazioni si fanno, in primo luogo, per correttezza e, in secondo luogo, perché il nostro lavoro (la nostra produzione intellettuale) è sempre il risultato del lavoro di tante “persone” che, come NOI, studiano e fanno ricerca, aiutandoci anche ad essere creativi e originali, orientando le nostre ipotesi di lavoro.
I testi che condivido sono il frutto di lavoro (passione!) e ricerche e, come avrete notato, sono sempre ricchi di citazioni. Continuo a registrare, con rammarico e una certa perplessità, come tale modo di procedere, che dovrebbe caratterizzare tutta la produzione intellettuale (non soltanto quella scientifica e/o accademica), sia sempre meno praticata e frequente in molti Autori e studiosi.
Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle tante scorrettezze ricevute in questi anni. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da vent’anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede.
Un approccio e percorsi di ricerca dal’95
#CitaregliAutori
Immagine: opera di Banksy